Una storia eroica di un giovane partigiano di Isnello

di Antonio Ortoleva giornalista

Giovanni aveva ventuno anni quando partì militare, il 30 aprile 1942, ricorda oggi la sorella Giuseppina. Ritorna solo adesso al suo paesello, 70 anni dopo, le sue ceneri nell’urna funebre. E’ un eroe, sarà trattato come tale. Sabato 3 settembre 2011, i sindaci delle Madonie e anche dal Piemonte, da Salussola ….

Di Antonio Ortoleva, giornalista

Tutto cominciò con una telefonata. “Ti chiamo da Isnello, sono qui in piazza Giovanni Ortoleva, partigiano”. Era il mio amico violinista Francesco Labruna, detto Lebrun, sulle Madonie per un concerto, come sempre bene informato su fatti, luoghi e persone. Avrebbe dovuto fare l’esploratore.

Per tanto tempo quel nome e quella qualifica, “partigiano”, mi frullarono nella mente, finchè due anni dopo, a seguito di un lutto personale, la morte prematura della mia giovane e amata sorella Giusi, mi decisi a prendere una casa in affitto per un mese in quel paesino-presepe presso l’amabile signora Maria, attenta alla politica nazionale, amante dei fìori – rose grandi, morbide e bianche in particolare – e della buona cucina d’altri tempi. Ero alla ricerca dei miei antenati.

Giovanni aveva ventuno anni quando partì militare, il 30 aprile 1942, ricorda oggi la sorella Giuseppina. Ritorna solo adesso al suo paesello, 70 anni dopo, le sue ceneri nell’urna funebre. E’ un eroe, sarà trattato come tale. Sabato 3 settembre 2011, i sindaci delle Madonie e anche dal Piemonte, da Salussola, il sindaco comunista di Isnello, Pino Mogavero – decisiva la sua azione  per questo evento – i gonfaloni, l’Associazione partigiani, con delegazioni dalla Sicilia e dal Nord Italia, il picchetto militare, il corteo, la Marcia eroica, l’operina musicale composta da Vito Gaiezza, i familiari di Isnello, quelli più lontani e appassionati di Catania, figli e nipoti di Paolino Ortoleva, l’avvocato, che dalle ricerche anagrafiche risulterebbe imparentato con Giovanni per via dei genitori o dei nonni cugini. Quindi prozio, zio adottivo, zio adottato.

Addio monti coperti dal verde, querceti, addio abete madonita, l’arabetta, l’orchidea. Isnello mostra le sue rarità di flora, specie endemiche che solo qui nascono e vivono (bene). Così partì Giovanni Ortoleva, immaginiamolo con uno struggente saluto manzoniano al suo paese, per non tornare mai più in vita, ma eterno, morto a 25 anni non compiuti non per generica pallottola vagante o di precisione, ma per una scelta, una scelta per un’Italia liberata dal giogo ottuso e feroce del nazifascismo. Stregati dalla tirannia, ha appena scritto il filosofo francese Bernard Henri Levy a proposito di Gheddafi, “l’idea che le dittature stiano in piedi solo grazie alla reputazione di cui godono, cioè grazie alla paura che suscitano nei loro sudditi e al rispetto che incutono al resto del mondo”. Quando cade questo, cadono. Pewr fortuna è così: fase transitoria e impotetente del genere umano.

Un impegno, dicevamo, preso sul serio da migliaia di ragazzi degli anni Quaranta, inderogabile, una scelta di impulso legata all’istinto di libertà, non era una spinta ideologica per Giovanni, almeno così pare, pur militando nella Brigata Garibaldi, la falange macedone della Resistenza, la più politicizzata e comunista, gente di polso, colta e di coraggio, il nocciolo duro della generazione che fece l’Italia di oggi, e appare senza senso che i nostri combattenti non vengano oggi rispettati o magari venerati da tutti di ogni colore – tranne i fascisti sans dire –  come dovrebbe accadere per i patrioti, come di fatto accade nelle grandi nazioni – chi mai nelle Americhe avrebbe da dire su David Crockett o su Emiliano Zapata, tanto che 65 anni dopo si mette ancora in bilico il 25 aprile, festa da abolire, la nostra festa nazionale.

Jacco (o Jacon) era il nome di battaglia di Giovanni Ortoleva nella Brigata Garibaldi, dopo l’8 settembre ’43 era passato in clandestinità, con i partigiani piemontesi. Di questo ragazzo, nel paesino delle Madonie non sapevano nulla, se non che era morto in guerra.  La targa della piazza omonima, su delibera del consiglio comunale di Isnello – pubblicata il primo gennaio 1948, benché fosse noto alle autorità (“caduto, martire della lotta di liberazione”) – per decenni aveva esposto la dicitura “Piazza G. Ortoleva”. Andò a sostituire la fascista “Piazza 28 ottobre”, giorno della marcia nera su Roma, e per voce popolare, e forse anche per l’omonimia di un alto ufficiale dell’esercito, fu sempre chiamata piazza Generale Ortoleva.

Fu il parroco della matrice, uno studioso di storia patria, direttore di un giornalino locale spedito agli emigrati di mezzo mondo, padre Salvatore Peri, a scoprire per primo le gesta del giovane compaesano, morto in una notte orribile e insensata al limitare della fine della guerra mondiale l’8 marzo 1945. Don Peri ritrovò testi e testimonianze dell’unico sopravvissuto alla strage di Salussola, allora provincia di Vercelli, oggi di Biella. Si chiama Sergio Canuto Rosa. Detto “Pittore”. Oggi ha 94 anni, per tutta la vita ha testimoniato di quei suoi compagni martiri e santi laici, del supplizio d’orrore, il Mattatoio numero 5. Venti, ventitrè, ventinove, il numero dei giovani patrioti torturati nella notte dell’8 marzo e fucilati all’alba del giorno 9 (chi era rimasto in vita), non è inoppugnabile dalle carte e dalle testimonianze. E’ certo che quando si dice italiani si pensa a deboli di carattere, pronti al compromesso pur di farla franca. Questi venti-ventitrè, compreso l’unico “terrone”, dimostrarono a fascisti e tedeschi allora e a noi, posteri di oggi e di domani, che la dignità estrema espone all’eternità, di questi ragazzi il consesso civile umano ne avrà traccia per secoli come gli spartani alle Termopili, come Pietro Micca, come quelli di Stalingrado, come de La Fayette.

Questa è la parte più emozionante della testimonianza, il momento dell’olocausto personale, la scelta di Giovanni, semplice e immortale.

Cesarina Bracco, una staffetta partigiana, intervista l’unico patriota superstite, Sergio Canuto Rosa, il quale scampò ai carnefici in un attimo di furore e di coraggio.

“Il primo ad essere portato via fu ‘Jacon’, un giovane siciliano, figlio di un albergatore di Palermo. Quando tornò ci riferì che il comandante del contingente addetto alla nostra sorveglianza era suo compaesano e ne parlava con voce piena di speranza. Tra i due vi furono numerosi colloqui infine, dopo l’ultimo colloquio, ‘Jacon’ ci disse che avrebbe potuto salvarsi se avesse accettato di passare dalla loro parte….” “Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte. Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un consiglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: ‘Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco’. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, così lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito.”

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