SMURAGLIA sul progetto di “abolire” il Senato

NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI
CARLO SMURAGLIA:
► Sul progetto di “abolire” il Senato: un problema delicato e complesso, da
affrontare con ponderazione e con rispetto per la Costituzione
Sono costretto a tornare ancora una volta sulla questione della cosiddetta “abolizione” del
Senato.
Riassumo le osservazioni che ho già fatto in precedenza, per maggiore chiarezza:
a) esistono dubbi sulla legittimità di questo Parlamento ad eliminare addirittura una delle due
Camere; quanto meno si dovrebbe porre il problema della “opportunità” che questo
Parlamento faccia riforme così impegnative sul piano costituzionale;
b) vi è la necessità, generalmente riconosciuta, di eliminare il bicameralismo “perfetto” (due
Camere che fanno le stesse cose) anche se bisogna riconoscere che, mentre di solito il
bicameralismo perfetto amplia in modo insopportabile i ritmi e i tempi del procedimento
legislativo, la storia di questi anni ci fornisce solidi esempi di situazioni in cui “le correzioni”
da parte dell’altra Camera, rispetto a quella che per prima aveva deliberato, sono state
positive ed addirittura determinanti. In ogni caso, sul punto non mi soffermerei troppo, anche
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perché c’è ormai un diffuso orientamento almeno verso un bicameralismo con funzioni
“differenziate”;
c) una riforma costituzionale di grande peso, come quella che attiene alla eliminazione o
trasformazione di una delle due Camere, non può essere neppure concepita per semplici
ragioni di risparmio di spesa. Il problema è quello della funzionalità, non quello dei costi.
d) una possibile riforma del “Senato” è stata oggetto di studi e riflessioni da parte di esperti, che
hanno prospettato diversi modelli di differenziazione. La Commissione dei cosiddetti “saggi”,
nominata dal precedente Governo, ha dedicato a questa problematica parecchie pagine della
relazione conclusiva, riferendo su modelli, opinioni prevalenti, opinioni dissenzienti e così via.
Prescindendo dalle conclusioni, che potrebbero anche risentire del clima politico e
dell’investitura ricevuta, perché non tener conto del lavoro di elaborazione compiuto? Oppure
si vuol continuare nel sistema di ricominciare tutto daccapo ogni volta che cambia il
Governo, perfino per ciò che riguarda studi e ricerche?
e) una riforma importante, come quella del Senato, richiede anzitutto rispetto per il lavoro dei
Costituenti, conoscenza dei problemi che si pongono e dei loro risvolti su tutto il sistema
disegnato dalla Costituzione: ma richiede soprattutto riflessioni approfondite, con la
determinazione necessaria per arrivare in fondo, ma anche con i tempi necessari perché tutto
venga fatto a ragion veduta e, appunto, con la massima ponderazione.
Non a caso, il legislatore costituente ha richiesto (art. 138) due letture per ogni Camera, con
un intervallo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione. Si voleva, in sostanza,
garantire riflessione, eventuali ripensamenti, adeguati contatti col mondo della esperienza
giuridico costituzionale e così via. Imporre accelerazioni eccessive nuoce di per sé al lavoro e
soprattutto alla bontà dei risultati.
f) respinta ogni ipotesi di improvvisazione, è necessario puntare su una diffusa partecipazione
al lavoro di riforma, da parte dei parlamentari, da parte dei partiti e da parte dei cittadini.
Una partecipazione che deve, per la delicatezza della materia, essere consapevole (in parole
povere, bisogna che ognuno dei partecipanti conosca il problema, le difficoltà e le soluzioni
possibili, senza semplificazioni e senza “conformismi” (che significano adeguarsi alla volontà
del Governo o della maggioranza, senza porsi nessun problema);
g) sulle riforme costituzionali la parola spetta in primis al Parlamento.
Il Governo dovrebbe esprimere un parere conclusivo, su un progetto e non impostarlo,
presentarlo alle Camere e imporre i propri tempi, proprio per la ragione essenziale che il
problema dovrebbe essere sottratto al dominio della contingenza politica e delle scelte
governative, pena lo stravolgimento del sistema che vige nella nostra Repubblica. La
Costituzione, ovviamente, può imporre maggioranze numericamente qualificate, ma nel
presupposto che non può valere solo la forza dei numeri, in materia costituzionale, ma
occorre una partecipazione effettiva al lavoro di elaborazione ed alle scelte che esso richiede.
Queste le premesse da cui sono partito più volte e che, di volta in volta, ho illustrato. Perché
ci torno sopra anche oggi?
Per una ragione molto semplice: leggo sulla stampa che il Presidente del Consiglio ha
annunciato che venerdì partirà il lavoro di riforma del Senato e che conta di ottenere una
prima lettura entro maggio.
Mi sembra, allora, che tutte le proposizioni da cui sono partito minaccino di essere stravolte,
per vari motivi che non è difficile evidenziare.
Finora si è parlato, genericamente, di “eliminazione” del Senato, si è prospettato, altrettanto
genericamente, qualche modello (ipotetico) di una specie di Camera delle autonomie, prima
si diceva composta di Sindaci e, dopo, da componenti dei Consigli regionali.
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Poco o nulla si è detto su ciò che questi signori dovrebbero fare, se il potere legislativo
dovrebbe essere solo della Camera e se, per una serie di questioni, il nuovo organismo
dovrebbe assorbire il lavoro che oggi svolge la Conferenza Stato-Regioni.
Ancora meno si sa sul modo con cui questa Camera dovrebbe partecipare ad alcuni atti
fondamentali, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di alcuni membri
della Corte Costituzionale e del Consiglio superiore della Magistratura, e così via.
Si è parlato, vagamente, anche di integrazioni possibili con altri componenti, non si sa bene
da chi nominati, né si è detto che cosa si pensa di fare dei Senatori “a vita”, attualmente in
carica, che magari – pur essendo Senatori a vita – verrebbero eliminati assieme al Senato,
per ragioni di risparmio (!). All’improvviso, ci si dice che un testo è ormai pronto, che nei
prossimi giorni verrà presentato, per l’approvazione, alla direzione di uno dei partiti di
maggioranza (il più consistente), nell’ambito – penso – di una mezza giornata; per poi essere
sottoposto subito al Parlamento, naturalmente dal Governo, che – nello stesso momento –
detterebbe i tempi, stabilendo che la prima lettura deve essere fatta entro maggio (un mese
in cui, fra due campagne elettorali, il Parlamento, praticamente, lavorerà ben poco, oltre a
doversi occupare del documento economico, che ha inevitabili scadenze).
Vengono allora, d’istinto, alcune domande:
– Chi ha elaborato questo testo, con quale contributo di esperti e con quali conoscenze del
vistoso materiale disponibile?
– Questo testo sarà del Governo o d’iniziativa parlamentare, concordata – appunto – tra gli
esponenti dei gruppi parlamentari che sono al Governo?
– I componenti dell’organismo dirigente del PD che dovrà esaminare il testo e decidere se
vararlo, sono a conoscenza del testo stesso (e magari dei precedenti in materia), oppure
dovranno decidere subito, sulla semplice indicazione del “Capo”?
– Lo stesso vale per gli altri partiti governativi: quando avranno il tutto, quando lo
esamineranno?
Viene forte il dubbio che il testo dovrà essere preso quasi a scatola chiusa ed approvato
senza discussione, perché altrimenti i tempi non potrebbero essere rispettati. Se è così,
questa è democrazia e questo è rispetto per la Costituzione? Sinceramente ne dubito.
Ma, superato questo scoglio non da poco, come farà ad approvarlo in poco più di un mese, il
Senato, che – oltretutto – dovrà giudicare su se stesso ed è plausibile ed umano che abbia
qualche remora? Anche in questo caso, ci saranno tempi strettissimi, emendamenti limitati,
discussione semplificata e accelerata, perché altrimenti si andrebbe oltre il 25 maggio?
Sono tutte domande giustificate e, penso, lecite, alle quali non è facile trovare risposta, se
non ipotizzando che si segua l’iter che ha contraddistinto l’approvazione della legge
elettorale: un’intesa, fuori dal Parlamento, tra due importanti uomini politici, entrambi
estranei al Parlamento; una rapida discussione nei partiti governativi e un ritmo così
accelerato, alla Camera, da non sopportare emendamenti, praticamente anche quelli più
ragionevoli, più auspicati e più idonei a salvare quella legge dal sospetto di incostituzionalità.
Tutto questo per consentire al capo del Governo di sostenere di aver raggiunto il primo dei
suoi obiettivi, cioè l’approvazione della legge elettorale entro breve termine, come mai era
accaduto nel passato; dimenticando di rilevare che quella legge è stata approvata da una
sola Camera e che già molti stanno affilando le armi, per quando sarà completata e
promulgata, per portarla, se non al giudizio dei cittadini, quanto meno a quello della Corte
costituzionale. Si vuol ripetere davvero questo iter, a proposito di una riforma che riguarda
addirittura un ramo del Parlamento? E lo si vuol fare a tutti i costi, senza curarsi della
necessità di approfondimento, delle obiezioni, delle contrarietà che partono non solo dal
mondo degli esperti, ma perfino da quella parte della “gente comune”, che ha il senso di
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appartenenza ad una Costituzione straordinaria, che può essere certamente modificata, ma
non deve essere stravolta, nei suoi princìpi e nei suoi fondamenti.
Per chi non conosce a fondo la materia, segnalo alcuni modi per differenziare il lavoro delle
Camere, già in uso in vari Paesi o comunque analizzati dai costituzionalisti, precisando che si
tratta solo di qualche esempio, e che l’elenco potrebbe essere lunghissimo (per altre
indicazioni, si può consultare la relazione finale della Commissione per le riforme
costituzionali, nominata dal precedente Governo (i c.d. “saggi”), depositata il 17..9.2013
(vedi particolarmente da pag. 6 a pag. 15). La prima soluzione e la più semplice, consiste
nell’attribuire alla Camera la funzione legislativa e il voto di fiducia e al Senato lo svolgimento
delle funzioni di controllo; un’altra è quella di attribuire la funzione legislativa alla Camera (e
la fiducia) e al Senato il controllo, le nomine previste dalla Costituzione e la
compartecipazione alla formazione del bilancio; altre soluzioni prevedono ancora l’esercizio
della funzione legislativa da parte della Camera, però con un potere di “richiamo” di leggi di
particolare interesse, da parte del Senato. Altri sistemi tendono, invece, a differenziare di più
il lavoro delle due Camere, attribuendo al Senato in varie forme il connotato di Senato “delle
autonomie”, assolvendo anche le funzioni attualmente devolute alla Conferenza Stato-
Regioni; la composizione è prevista in varie forme (rappresentanza di Sindaci, oppure di
soggetti eletti in seconda istanza dalle Regioni); in alcuni casi, si prevedono integrazioni con
nomine aggiuntive da parte del Presidente della Repubblica o altri organismi. E c’è anche la
interessante proposta di un “Senato delle competenze e della cultura”, lanciata dal Sole 24
ore e sulla quale – fra gli altri – è di recente intervenuta, con un ragionamento molto serio, la
Senatrice a vita Elena Cattaneo, nota e apprezzata scienziata. Si può dunque cercare anche
di “volare alto”, anziché restare ancorati a soluzioni semplicistiche e improvvisate. Le
differenze, comunque, sono rilevanti sia per quanto riguarda la composizione, sia per ciò che
attiene ai compiti ed ai poteri. Queste rapide indicazioni intendono solo dare una prima idea
della complessità del problema e della necessità di affrontarlo con moderazione. Altrimenti si
corre il rischio di fare pasticci.
Un critico delle soluzioni proposte dal Presidente del Consiglio (il Prof. Villone), sulle colonne
di “Patria” ha scritto di recente che la proposta di Renzi andrebbe radicalmente riscritta e ha
aggiunto “se dovesse rimanere così, meglio nessun Senato che un pessimo Senato”.
Personalmente, sono un po’ meno pessimista. Penso che con un po’ di buona volontà e di
ragionevolezza e con un po’ meno di improvvisazione, si potrebbe differenziare il lavoro delle
due Camere, costruendo un Senato non troppo lontano dal modelli originario, ma aggiornato
alle esigenze della società di oggi e adeguato all’esperienza fin qui compiuta.

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