“Per conservare la memoria della Resistenza bisogna fare di più. Soprattutto a scuola”

Smuraglia (Anpi): “Per conservare la memoria della Resistenza bisogna fare di più. Soprattutto a scuola”

Smuraglia (Anpi): "Per conservare la memoria della Resistenza bisogna fare di più. Soprattutto a scuola"
 Carlo Smuraglia 

Il presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia: “Bisogna sconfiggere i nemici della memoria, e per farlo bisogna spiegare di più il fenomeno della guerra di liberazione. Che non fu una guerra solo del Nord”

di ALESSIO SGHERZA

Intervista al Presidente Nazionale dell’ANPI
pubblicata nello speciale di www.repubblica.it:
Partigiani, vite di Resistenza e Libertà
Presidente Smuraglia, che rilievo ha oggi il ricordo della
Resistenza nella società?
Bisogna fare una premessa: in Italia c’è una tendenza all’oblio piuttosto forte. Le istituzioni non hanno fatto molto per conservare la memoria. Non solo della Resistenza, ma nemmeno di quello che è successo prima, di quello che è stato il fascismo. Perché è da lì che bisogna partire per capire. E’ stata più l’opera delle associazioni, come l’Anpi, a tramandare il ricordo. Al massimo le istituzioni organizzano un evento, si celebrano le date, il 25 aprile, gli eccidi, gli scontri. Ma l’analisi e lo studio sono molto più rari, e per questo l’Anpi ha lavorato molto. Per conservare la memoria e proteggerla.
Da chi?
La memoria ha tre nemici fondamentali, strettamente collegati: il primo è la debolezza stessa del ricordo in una società che si evolve molto velocemente; il secondo è la tendenza all’oblio; e poi c’è il tempo, che è un nemico implacabile se non ci sono nella società antidoti efficaci.
E come si costruiscono antidoti efficaci alla perdita di
memoria?
Io sono convinto che la memoria sia prima di tutto ricordo, delle persone e dei fatti, ma non ci si può limitare a questo. Lo sforzo che abbiamo fatto è unire il doloroso ricordo dei caduti, il caloroso ricordo dei fatti gloriosi alla conoscenza di un fenomeno che è estremamente complesso. Spesso si punta al racconto del dolore e ci si dimentica il tentativo di storicizzare e contestualizzare quelle vicende e darne una spiegazione.
Provi a darcelo, il contesto.
La Resistenza fu un’esperienza collettiva fatta da tante persone di origine diversa, di storia diversa, di formazione politica diversa o a volte assente. Gli obiettivi erano due: c’era quello di liberare l’Italia dall’occupante tedesco e dal regime fascista e quello di creare un paese democratico dopo 20 anni di dittatura. E dall’impegno di quei tanti è maturata la consapevolezza che poi ci ha dato la Costituzione.
Ma permangono anche convinzioni sbagliate sulla resistenza…
Certo. Non fu ad esempio solo lotta armata: moltissime donne non furono impegnate nella lotta armata, ma il loro aiuto fu fondamentale. Penso poi ai sacerdoti che si sono immolati per salvare i propri concittadini. E poi c’è un altro tipo di resistenza, quella dei militari che potevano scegliere e non si sono arresi. E per questo hanno subito la morte, in migliaia, come a Cefalonia. Quella di quei 20 mesi fu una Resistenza di tanti, che hanno contribuito in mille forme. Altra convinzione sbagliata è che fu solo un fenomeno del Nord Italia quando in realtà ormai è chiaro che fu nazionale, perché prese forma anche al Sud: intanto perché molti meridionali combatterono al Nord, ma anche per i tanti esempi di insurrezione nelle città del centro-sud che l’Anpi ha raccolto in un libro.
Qual è il punto debole della catena di quella memoria in Italia? La scuola? La cultura? La politica?
Dovremmo dire che c’è un punto debole diffuso, che riguarda un po’ tutti. Forse quello della scuola è il peggiore, perché spesso non si arriva nemmeno a studiare gli eventi di quel periodo. Ma anche le istituzioni, che dovrebbero difendere la memoria, spesso si limitano a celebrare le ricorrenze. E c’è una parte del mondo della cultura che ha preferito sottolineare solo le ombre e le colpe della resistenza, quando si sa come ogni fenomeno di quel tipo abbia delle luci e delle ombre, ma quello che conta è soprattutto il complesso di quell’esperienza. Non aiuta la conoscenza e la memoria fare libri per raccogliere singoli episodi che andrebbero contestualizzati e spiegati, condannandoli se del caso, ma inserendoli nel giusto contesto.
Del ruolo dei media cosa pensa?
Anche gli organi di comunicazione in genere non fanno abbastanza, non si parla a sufficienza di Resistenza in tv e sulla stampa. C’è insomma una responsabilità collettiva, con un epicentro sulla scuola.
I ragazzi non sanno niente. Non sanno perché celebriamo il 25 aprile con tanto impegno, a loro potrebbe sembrare retorica. Ma io conservo il ricordo dei giorni della liberazione come i più appaganti della mia vita. Per le strade incontravamo persone ridenti e felici, quella era la fine delle stragi, delle torture, la fine della guerra. Erano momenti di gioia inenarrabile. È un peccato perché un paese civile dovrebbe ricordare le pagine gloriose della sua storia. Noi ricordiamo più il Risorgimento, come se il 1943-1945 fosse ancora cronaca. Ma ormai anche la Resistenza è storia. E senza spiegare che quello fu un fenomeno pluralistico e intenso non si può capire come fu possibile mettersi d’accordo e dare vita alla Costituente.
Molti partigiani sono restii a volte a raccontare la loro esperienza. C’è chi dice che le storie dei singoli emozionano ma non fanno conoscenza.                                                                                                Come mai questa ‘riservatezza’?
È un fenomeno molto diffuso, ci sono molti casi di persone che sono state perseguitate o hanno combattuto e poi per anni non ne hanno voluto parlare. Pensano di non dover mettere la propria esperienza in primo piano, davanti a un fatto storico, come se la offuscassero. Ma è importante tramandare. La Resistenza è un mosaico che si ricostruisce da tante parti, anche se ovviamente nessuno può erigersi a monumento di quella storia. L’esperienza dell’uno deve integrarsi con quella degli altri. Io ad esempio ho studiato molto prima di parlare, per non limitarmi a raccontare la mia esperienza, ma per poter spiegare cosa significò quel fenomeno. Un esempio è
quello delle donne. Perché le donne non furono solo staffette, ma anche in molti casi combattenti. E anche se molti uomini avrebbero voluto relegarle a ruoli marginali, non fu così. Ma molte donne per anni hanno avuto pudore a raccontare la loro esperienza.
Come vede l’Italia di oggi rispetto a quella che è uscita dalla guerra?
Quell’Italia era un Paese distrutto, mancava tutto. Ma c’era una grandissima voglia di rimettere in piedi il paese. Con entusiasmo ci si attaccava alla possibilità che potesse risorgere e rinascere. A
distanza di tanto tempo noi viviamo in un Paese smarrito. Ha perso molto dei suoi valori, vive una crisi economica enorme, ma non c’è una reazione, manca la voglia di riscatto. C’è più indifferenza e assenteismo.
E l’Italia di oggi come vede l’esperienza dei partigiani?
Oggi la memoria è flebile. C’è magari rispetto per l’anziano partigiano, ma c’è meno rispetto per l’Anpi, che invece rappresenta i combattenti per la libertà e ne è erede e successore, come
riconosciuto anche da molte sentenze. Non è decisivo che molti partigiani che hanno combattuto la guerra di liberazione non ci siano più. Rappresentare i valori dei combattenti per la libertà di ieri e di oggi è la ragion d’essere di un’associazione come la nostra. Anche per quelli iscritti delle nuove generazioni, che diventano a loro volta portatori di quei valori.
di Alessio Sgherza
L o speciale di Repubblica.it è disponibile su:
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