ANTIFASCISMO recuperiamo la nostra memoria

// L’ANPI di Palermo avvia un  progetto per il recupero della memoria del contributo siciliano all’antifascismo, alla Resistenza e alla lotta di Liberazione.

Recupero che non vogliamo si esaurisca nel, pure encomiabile, rigore di un elenco ma che si faccia storia viva e popolarmente partecipata che ci consenta una rilettura critica del nostro passato a partire dalla comprensione delle cause del pesante ritardo con cui avviamo un tale processo.

E’ importante e decisiva la partecipazione di tanti alla costruzione di un percorso di recupero che restituisca un volto e un’anima a chi ha lottato per la libertà e per la dignità umana, e che sappia coinvolgere le popolazioni, sopratutto i giovani, per la costruzione di una nuova orgogliosa identità del popolo siciliano.

DI SEGUITO UNA STORIA STRAORDINARIA DI UN GIOVANE EROE DI ISNELLO

Il seguente è un passo di una testimonianza straordinaria di un comportamento eroico di un giovane partigiano siciliano di Isnello, il ventitreenne Giovanni Ortoleva con nome di battaglia “Jacon”.

 

“Il primo ad essere portato via fu ‘Jacon’, un giovane siciliano, figlio di un albergatore di Palermo. Quando tornò ci riferì che il comandante del contingente addetto alla nostra sorveglianza era suo compaesano e ne parlava con voce piena di speranza. Tra i due vi furono numerosi colloqui infine, dopo l’ultimo colloquio, ‘Jacon’ ci disse che avrebbe potuto salvarsi se avesse accettato di passare dalla loro parte.
Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte. Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un consiglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: ‘Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco’. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, così lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito.                                                           ****************************

Cesarina Bracco, I ventuno di Salussola: una staffetta partigiana ricorda uno dei più efferati massacri compiuti nelle nostre zone dai nazifascisti.

Cesarina Bracco              I ventuno di Salussola

“l’impegno”, a. III, n. 1, marzo 1983
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli

È consentito l’utilizzo solo citando la fonte.

Dalla strada salì fino a noi un vociare confuso, seguito da grida e passi frettolosi, risonanti sotto la volta del portone carraio che immette nel cortile fino all’uscio della casa dove aveva sede il comando della V divisione Garibaldi, a Sala Biellese.
La porta si aprì di colpo e sulla soglia apparvero due partigiani: uno sosteneva l’altro che si trascinava a stento, dietro di loro, altri partigiani cercavano di portare aiuto. “Gandhi”, comandante militare di divisione, “Tarzan”, capo di stato maggiore, “Gim”, commissario politico della 75a brigata e tutti coloro che erano presenti si alzarono di scatto e corsero verso la porta.
Fummo colpiti dall’aspetto di uno dei due partigiani: profondi graffi segnavano tutto il viso, sulla fronte, una larga ferita sanguinava ancora abbontantemente; anche le mani erano piene di sangue al punto da non riuscire a capire se vi erano ferite, i pantaloni e il giubbotto erano sporchi di terriccio e strappati in più punti. I suoi occhi, però, colpivano più di tutto: erano pieni di terrore, fissi nel vuoto, mentre pronunciava continuamente solo poche parole: “Sono tutti morti”.
Ci avvicinammo cercando di calmarlo, di fargli bere un po’ di grappa, ma non riusciva a deglutire. Un partigiano uscì di corsa in cerca del dottore.
“Gandhi” gli pose alcune domande nell’intento di chiarire una situazione a tutti incomprensibile. Non vi erano stati combattimenti in zona, i distaccamenti erano tutti al loro posto e da alcuni giorni la situazione era calma. Il partigiano non apparteneva a nessuna delle formazioni operanti nella zona, nessuno lo conosceva e aveva la divisa della XII divisione Garibaldi. Era evidente, poi, che era stato torturato.
Dove erano i morti di cui parlava? Pensavamo a mille cose mentre guardavamo il partigiano che, ancora sotto choc, non poteva rispondere. Cercavamo di tranquillizzarlo, di fargli capire che non doveva temere più nulla, che era fra amici, ma le nostre parole non sembravano calmarlo.
Ad un tratto, “Gandhi” colpì con due schiaffi il viso del ragazzo che interruppe di colpo la frase che continuava a ripetere e si portò la mano alla bocca premendo come se volesse trattenere un urlo. Il tremito che lo scuoteva parve calmarsi e ci guardò come se ci vedesse solo in quel momento. L’orrore che era nei suoi occhi lasciò il posto al dolore, all’angoscia.
Riuscimmo a fargli bere un po’ di grappa e quando fu più calmo “Gandhi” ricominciò con le domande. Questa volta il ragazzo riuscì a parlare: “Mi chiamo ‘Pittore’, appartengo alla 109a brigata della XII divisione Garibaldi, il mio distaccamento non esiste più, sono rimasto solo io”. Ci guardammo esterrefatti.
“Pittore” proseguì: “Ci eravamo spostati verso il Monferrato a causa dei continui attacchi nazifascisti e stavamo rientrando alla base quando, nella pianura tra Bianzè e Livorno Ferraris, ci siamo fermati perché eravamo molto stanchi. Lontani dalle nostre zone, dove montagne e vallate erano posti sicuri, ci sentivamo spersi, ma i fucili pesavano sempre di più sulle spalle indolenzite e i piedi si trascinavano a stento. Quando, nella foschia del mattino, scorgemmo un cascinale con un muro di cinta, pensammo fosse un posto sicuro per riposare qualche ora e, siccome eravamo tutti molto stanchi, decidemmo di non mettere il turno di guardia”.
“Pittore” ci guardò a lungo in silenzio, anche noi non parlammo, poi disse, come per scusarsi: “Fu un grave errore, ma eravamo troppo stanchi. Non era mai successo prima e nessuno pensò che quello era l’errore più grave che potessimo commettere, ci stendemmo sulla paglia come se fosse stato un letto di piume e piombammo in un sonno pesante.
Non erano trascose molte ore quando una fitta sparatoria ci fece balzare in piedi con le armi in pugno, ma i fascisti, facendosi scudo con i corpi di alcuni nostri compagni già catturati, ci intimarono la resa. Non potevamo sparare perché avremmo colpito i nostri e ci arrendemmo. Fu un momento terribile.
Ci portarono a Tronzano, dove si trovava la sede del comando nazifascista e ci rinchiusero, tutti e trentatré, in una sola stanza. Venne la sera, poi una lunga notte, senza nemmeno un bicchier d’acqua, trascorsa a riflettere sulla propria sorte, ad aggrapparsi anche alla più piccola speranza.
Il giorno dopo fummo divisi in due gruppi: dodici furono mandati a Vercelli, ventuno rimasero, fra cui io”.
“Pittore”, a questo punto, ci parlò degli interrogatori: “Il primo ad essere portato via fu ‘Jacon’, un giovane siciliano, figlio di un albergatore di Palermo. Quando tornò ci riferì che il comandante del contingente addetto alla nostra sorveglianza era suo compaesano e ne parlava con voce piena di speranza. Tra i due vi furono numerosi colloqui infine, dopo l’ultimo colloquio, ‘Jacon’ ci disse che avrebbe potuto salvarsi se avesse accettato di passare dalla loro parte.
Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte. Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un consiglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: ‘Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco’. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, così lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito.
Dopo fu la volta del nostro commissario politico che cercò di spiegare ai fascisti cos’era la lotta partigiana, quali erano i nostri obiettivi, l’orrore per i massacri compiuti dai tedeschi in tutta Europa, il desiderio di porre fine alla guerra, alla lotta fra italiani, ma i fascisti non vollero ascoltarlo.
Gli interrogatori continuarono con il più giovane di noi, ‘Pulcino’, che sopportò coraggiosamente ogni sorta di angherie poi, via via, tutti gli altri.
La notte del 9 marzo ci comunicarono che saremmo partiti verso una zona del Biellese dove ci sarebbe stato uno scambio di prigionieri. Il breve tempo trascorso dal nostro arresto ci fece pensare all’impossibilità della cosa, ma ci aggrappammo a quella speranza.
Nel cortile dell’edificio si trovavano dei camion su cui ci fecero salire e quando partimmo il nostro sforzo era di capire, attraverso le fessure, quale fosse la direzione presa, ma nessuno di noi era pratico della zona ed era notte. Nella nostra mente i pensieri si accavallavano ai pensieri mentre il rumore dei motori ci faceva pensare ad una salita. Quando i camion si fermarono, fummo stupiti di trovarci in una piccola piazza circondata da case, più lontano mi parve di intravedere la chiesa di quel piccolo paese immerso nel silenzio.
Ci avviarono verso un edificio e, nella camera a pianterreno, cominciarono subito le sevizie: infierirono su di noi con sadica ferocia.
Non vedevo più nulla, sentivo i colpi mentre la stanza si riempiva di gemiti e urla che non avevano più niente di umano. È impossibile descrivere quello che è successo”.
“Pittore” non riuscì più a continuare, gli occhi fissavano un punto lontano. Immaginavamo cosa poteva essere successo in quella notte e un silenzio pesante gravava nella stanza del comando.
“Gim” era impallidito, avrebbe voluto porre una domanda ma temeva la risposta, infine chiese: “Il commissario del tuo distaccamento come si chiamava?”. ” ‘Brunella’ “. “Era con te o era nel gruppo che hanno mandato a Vercelli?”, chiese “Gim” con voce ansiosa. “Era con me, morto anche lui, trucidato come tutti gli altri”, rispose “Pittore”. Vedemmo la disperazione sul volto di “Gim” mentre cercava di trattenere le lacrime e lo chiamava con il suo vero nome, Edo; capimmo che era un suo parente.
La reazione di alcuni partigiani presenti fu immediata, dettata dalla rabbia e dal dolore: “Abbiamo cinque prigionieri tedeschi e due fascisti, fuciliamoli subito!”, dissero, ma la risposta di “Gim” riportò alla ragione: “No, non dobbiamo fare queste rappresaglie, diventeremmo come loro, inoltre i prigionieri servono per gli scambi; purtroppo altri partigiani sono nelle loro mani e dobbiamo fare di tutto per liberarli, soprattutto adesso”. La saggezza di quelle parole convinse tutti.
“Pittore”, nel suo silenzio, continuava a rivivere istante per istante i fatti di quella notte quando, finalmente, giunse il medico che provvide ad una prima medicazione. “Pittore”, però, si sottrasse alle cure dicendo: “Non è finita”, pronunciò frasi spezzettate sui compagni che aveva visto svenuti in un lago di sangue, forse già morti sotto le torture, quindi continuò: “Ricevetti un colpo violento sulla fronte e il sangue, che scendeva copioso, mi accecava, caddi supino in un angolo evitando un secondo colpo, altri compagni caddero su di me coprendomi in parte. Sentivo urla e i gemiti dei morenti e mi chiedevo quanto sarebbe durata quell’agonia, quando sarebbe giunta la mia fine.
Ai primi chiarori dell’alba cercai di alzarmi. I nazifascisti mi afferrarono e mi colpirono ancora con i calci dei fucili spingendomi verso un muro, mentre alcuni automezzi con i fari accesi illuminavano la piazza. Avrei voluto pulirmi il sangue che mi colava sugli occhi, ma mi accorsi di avere le mani ancora legate dietro la schiena; altri compagni venivano trascinati per i piedi fuori dall’edificio.
Poi accadde un fatto che ha dell’incredibile: un fascista si avvicinò e cercò di strapparmi il giubbotto mentre un altro mi spingeva violentemente; sentii le corde allentarsi e le mani muoversi. Con la forza della disperazione mi buttai contro il mio assalitore che mi afferrò per le braccia, in quel momento la corda scivolò e sentii le mani libere. Mi avvinghiai disperatamente a lui trascinandolo fuori dalla luce dei fari. Come una furia sfuggii ad altri fascisti che erano accorsi per immobilizzarmi e mi lanciai verso un vuoto che intravedevo oltre un muro tirandomi dietro uno di loro.
L’oscurità e il timore di colpire il compagno impedì loro di spararmi subito e questo mi permise di rotolare verso il fondo della scarpata. Quando mi accorsi di essere solo, cominciai a strisciare fra rovi e cespugli: le spine mi entravano nella carne, ma erano la mia salvezza, ostacolavano l’inseguimento e ogni passo in avanti era un passo verso la vita.
Riuscii a bere un po’ d’acqua in un torrente, poi ripresi a fuggire cercando di rimanere dove gli alberi erano più fitti, ormai le gambe mi reggevano a stento.
Come in un sogno incontrai i partigiani, ma non chiedetemi come sono arrivato qui, non lo so, non ricordo altro che i miei compagni rimasti là, nella piazza di un paese di cui non conosco il nome”.
La tragica storia di “Pittore” e di tutti i suoi compagni trucidati, infatti, è laggiù, sulla piccola piazza di Salussola.

“l’impegno”, a. III, n. 1, marzo 1983
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
È consentito l’utilizzo solo citando la fonte.

Lucia Vincenti – I Decorati al valore della Resistenza Siciliana
MEDAGLIE D’ORO