Su segnalazione di un nostro iscritto riportiamo di seguito un articolo di Salvatore Parlagreco apparso su SiciliaInformazioni. Con riferimento al titolo, qui forse non è il caso di citare la “Trahison des clercs” di Julien Benda ma, semmai, almeno per alcuni, a rileggere bene la storia, una supina orgogliosa coerenza legata alle scelte del passato.
Trattativa, lo storico Salvatore Lupo si iscrive al club degli eretici
14 luglio 2013
SiciliaInformazioni – di Salvatore Parlagreco
La trattativa Stato-mafia regala al processo penale un fascino irresistibile. Non è l’errore giudiziario che suscita grande interesse ma la prospettiva che il processo affaccia: lo Stato che si fa anti-Stato. Se l’atteggiamento dell’imputato determina generalmente il stile del processo penale (connivenza, falsa o reale, o inconfessata rottura), nel caso del processo di Palermo, è l’atteggiamento della pubblica accusa a determinarlo. La pubblica accusa non è l’avamposto della giustizia, ma è portatrice di valori: non cerca solo la verità processuale, ma la verità della storia.
Salvatore Lupo, storico stimato e competente – le sue analisi sul fenomeno mafioso sono molto apprezzate – è entrato nel club degli eretici del processo alla trattativa, al quale si sono iscritti, di diritto (nomen-omen), il giurista Giovanni Fiandaca e l’ex magistrato antimafia, Peppino Di Lello ed Emanuele Macaluso, entrambi esponenti della sinistra nazionale, relatori al convegno dello Steri di Palermo, ormai pensato come il luogo dell’eresia nel silenzio dei media.
In un processo che sembra cercare la verità della storia, Salvatore Lupo non siede in platea, ma rivendica, senza avere alcuna voglia di costruire un contro-processo, il suo diritto alla ricerca storica.
“La storia che si fa scenario pubblico”, esordisce Salvatore Lupo, “è quella dei magistrati di Palermo”. Il processo è stato sempre un grande spettacolo pubblico. Perché dovrebbe fare eccezione il processo di Palermo?
Lo storico nega la premessa che giustifica il processo, al pari di Fiandaca e di Di Lello: “Non c’è mafia senza trattativa permanente con lo Stato”, sostiene Lupo. “Qualunque crimine organizzato tratta con gli apparati di sicurezza e qualunque apparato di sicurezza possiede una delega a trattare con le mafie”.
Lo Stato, corregge Lupo, non può in ogni caso essere chiamato in causa, è semmai il governo che risponde dei suoi atti. Fu il governo democratico appena costituito a trattare con la mafia, non lo Stato, per per catturare Salvatore Giuliano, ricorda Lupo. Fu la polizia fascista, il governo di Mussolini, a stipendiare il boss Jo Bonanno per spiare i nemici del regime.
La trattativa, di per sé, non è reato, perché è atto di governo.
Sono in tanti oggi a credere che bisognasse trattare per liberare Aldo Moro. Ferdinando Impositato attribuisce gravi responsabilità sull’assassinio dello statista democristiano, è affermazione recente, a Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, che impedirono la trattativa. Bisognava trattare per liberare Moro? Bisognava evitare per impedire la strage di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma? “Sarebbe stata ottima cosa trattare per prevenire la morte di decine di carabinieri”, afferma senza esitazione Salvatore Lupo.
“La pretesa di combattere tutte le mafie non sta in piedi”, avverte quindi lo storico. Occorre trattare di volta in volta con la parte che serve per sconfiggere il crimine organizzato. La mafia non è una sola. Con i collaboratori di giustizia si tratta anche quando appare evidente che le loro rivelazioni sono parziali ed interessate, al fine di servirsi degli apparati di sicurezza per sconfiggere i clan avversi.
Non solo la trattativa governo-mafia è “condizione” del crimine organizzato, ma la trattativa del 92/93 di Palermo, sale senza alcun movente plausibile sul banco degli imputati. Essa, osserva Lupo, “non registra alcun successo, anzi subisce una sconfitta”, perché il regime carcerario di massima sicurezza, il 41 bis, viene mantenuto sia ai boss di prima grandezza quanto alle mezze tacche.
L’equilibrio fra i poteri dello Stato è in pericolo, osserva Lupo, la cultura democratica sembra fare passi indietro. La sicurezza, ricorda lo storico, appartiene agli apparati di polizia, al Ministero degli Interni, è affidata alla responsabilità del governo, non alla magistratura, cui spetta invece il compito di perseguire il delitto, punire il reato, perseguire l’illecito.
“Non si chiama il magistrato per rendere la piazza del comizio più sicura, ma il questore o il prefetto”. Il processo penale va usato con parsimonia, ammonisce Lupo, “è la grande scure dello Stato, un modo estremamente violento di risolvere i conflitti”.
Il protagonismo della magistratura, conclude lo storico, è figlio della “supplenza” della politica e della debolezza delle forze di sicurezza.
L’equilibrio dei poteri, è nostra considerazione, non si conquista per sempre. Le dinamiche sociali, la cognizione dei valori e dei bisogni, i bisogni emergenti, l’evoluzione della civiltà giuridica, dei diritti dei doveri, delle libertà individuali e collettive, modificano continuamente il luogo su cui poggia l’equilibrio, per sua natura instabile.