con Gabriele Bonafede ‘sul percorso del recupero della memoria’
A ogni 25 aprile ritornano i ricordi di famiglia. In Italia, ci si ricorda dei propri nonni, e non solo quelli che combatterono tra le file partigiane. Oggi, in questo 25 aprile che mi limito a definire “strano”, non posso non ricordare uno zio e un prozio.
Un mio zio partecipò alla lotta partigiana. Non amava parlarne e ne so molto poco. Tranne che, a soli 21 anni, dovette combattere per la libertà fino a 23. Rischiando la vita e vivendo in condizioni impossibili per due lunghi anni nelle montagne sopra la pianura padana. Vedendo morire i propri amici e le proprie amiche impegnate nella lotta per liberare se stesso e tutti. Per non parlare di tutto il resto.
Guardando i ragazzini di oggi, e non solo, mi chiedo quanti realmente capiscano cosa vuol dire morire a questa età per liberarsi da una dittatura mostruosa. Mi chiedo se capiscano persino la definizione di dittatura. Ma è mio prozio e la sua vicenda che forse insegnano ancora di più.
Un prozio non combatté tra le file partigiane. Fu catturato nel settembre del 1943 dai tedeschi, come tanti soldati della IV armata italiana di stanza in Francia: praticamente subito dopo l’armistizio, dopo, semmai, un breve tentativo di fermare l’attacco dei tedeschi contro le unità italiane in disfacimento. E qui, invito i più giovani a leggere qualche notizia su quell’evento troppo spesso dimenticato, l’8 settembre 1943, e strettamente legato al 25 aprile 1945.
Ben prima dell’8 settembre 1943 mio prozio aveva fatto una scelta fondamentale, condivisa, e resa possibile, con il comandante di quell’armata italiana che occupava il suolo francese, il generale Mario Vercellino. E cioè salvare quanti più ebrei possibile, perlomeno senza consegnarli ai tedeschi. Come è anche raccontato in uno dei più bei romanzi sulla persecuzione degli ebrei, “Un sacchetto di biglie” di Joseph Joffo, e in altre testimonianze. Essendo un colonnello del genio, mio prozio probabilmente ne salvò tanti per lo meno indirettamente. Rischiando di essere ucciso anche lui. Ed è rimasta sempre una storia nel suo cuore e in pochi, pochissimi racconti. Mai sbandierata, per questo molto vera.
Per quello che ne so, e avendo letto i suoi diari tanto tempo fa, prima e durante la guerra era stato per lo meno monarchico, se non fascista. D’altronde, era stato già decorato quale tenentino nella prima guerra mondiale (1915-1918) che principalmente combatté sul Carso, anche lì protetto chissà come dalla morte. Forse, per chi ci crede, protetto dalle preghiere di ogni notte recitate da sua sorella, mia nonna, e tutta la famiglia: “Maria, Madre di Dio, proteggilo con il tuo mantello”. Ancora oggi qualche lacrima scorre quando ricordo questa preghiera e queste cose successe circa cento anni fa.
Nel 1943, in Francia, pur essendo un ufficiale di un certo grado in un esercito di un regime fascista, difese gli ebrei nel momento in cui era più pericoloso farlo. E avendo tutto da perdere.
Ovviamente, mio prozio fu catturato come tanti altri e deportato a Belsen. Dove se la cavò ancora una volta, tante volte, per miracolo, in due terribili anni di prigionia. I cui racconti preferisco non riportare qui. E tornando irriconoscibile, poiché, sempre seguendo le storie di famiglia, pesava 40 chili nonostante il suo metro e ottanta di altezza.
Non so quanto diventò pacifista. Ma sicuramente tornò con la consapevolezza del male assoluto che sono dittature e guerre. E con un cuore ritrovato per la democrazia.