STORIE PARTIGIANI SICILIANI: “Tommaso Moro” Catania

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A cura di Elvio Cicognani

Il vecchio camion targato RSI-PAI 924 arranca sull’Aurelia verso Forte Bravetta. Sono le tre del mattino del 17 maggio 1944. A bordo, insonnoliti, venti militi della PAI (Polizia Africa Italiana) vanno a fare il plotone d’esecuzione, al Forte Bravetta, per la fucilazione di sette Partigiani della Banda “Tommaso Moro”, inquadrata nel Movimento comunista di “Bandiera Rossa”, catturati una settimana prima e condannati a morte dal Tribunale di Guerra Tedesco. Quando il camion rallenta per affrontare la curva, leggermente in salita, che dall’Aurelia immette sulla via Bravetta – al Forte manca poco meno di due chilometri – l’autista scorge in mezzo alla strada due soldati della Feldgendarmerie tedesca, uno dei quali leva in alto una paletta stradale rossa. -Frena, frena! Chissà che cazzo vogliono, adesso!- dice il Tenente che siede nella cabina accanto all’autista e che si chiama Antonio Aliberti, già infuriato per conto suo perché non gli va di fucilare degli Italiani. Coi freni che stridono, il pesante veicolo s’arresta. I due poliziotti tedeschi si accostano, ognuno a un lato della cabina di guida, e il Tenente non fa in tempo neppure di aprir bocca che si vede piazzare in faccia la canna di un mitra e la voce del tedesco gli sibila in perfetto romanesco: -Devi da fa’ solo ‘na mossa e te spappolo la testa-. Contemporaneamente, sbucano fuori dai cespugli che costeggiano l’inizio di via Bravetta altri uomini che, armi alla mano, immobilizzano rapidamente i militi nel cassone dell’automezzo. I ventidue della PAI vengono portati in un fossato poco distante, spogliati, legati due a due e lasciati a terra sotto la sorveglianza di un paio di uomini. Altrettanti Partigiani indossano le loro uniformi, prendono le armi, risalgono sul camion che col nuovo autista alla guida riparte verso Forte Bravetta. Sono esattamente le tre e trenta.

Il Partigiano che si è vestito da Tenente e che siede accanto all’autista è Tommaso Moro, nome di battaglia di Vincenzo Guarniera, trentadue anni, Maresciallo motorista dell’Aeronautica militare datosi alla clandestinità dopo l’8 settembre 1943. Nato a Catania il 14 aprile 1906, in passato era deferito al Tribunale Speciale Fascista come “sovversivo” ma assolto il 31 maggio 1930. Arruolatosi nella Leva di Marina, torna sotto le armi nel 1936, come motorista nel sommergibile “Goffredo”. Conseguito il brevetto di pilota civile, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale è assegnato all’Aeronautica.
Decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare, raggiunge il grado di Maresciallo. Dopo l’otto settembre, trovandosi a Roma decide di prender parte alla Lotta di Liberazione. In seguito aderisce al Movimento Comunista di “Bandiera Rossa” e forma una Banda combattente che porta il suo nome nella quale confluiscono molti dei suoi avieri. La Banda effettua il primo colpo nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943. Un’autocolonna tedesca sosta sul Piazzale di Ponte Milvio, in attesa di riprendere la strada verso il Fronte. Tommaso Moro e i suoi uomini abbattono con i pugnali due sentinelle e piazzano cariche esplosive sotto a quattro automezzi, uno dei quali trasporta munizioni. Salta in aria l’intera colonna; i Tedeschi pensano a un incidente poi scoprono il corpo bruciato di una delle sentinelle con un pugnale conficcato nelle scapole e danno la colpa a “paracadutisti americani”, come è scritto in un rapporto della Polizia Militare Tedesca. Ma ben presto dovranno cambiare idea. Le azioni della Banda Moro si intensificano. A metà novembre, al ventiquattresimo chilometro dell’ Aurelia, i suoi uomini sbarrano la strada con grossi tronchi e massi di pietra, formando un vero e proprio posto di blocco. Vi incappano ben sette automezzi tedeschi, uno dei quali ha a bordo due Ufficiali superiori della Wehrmacht che vengono uccisi. Tommaso Moro recupera le armi e prima di eclissarsi lascia sulla barricata un cartello con su scritto, in Tedesco e in Italiano: “Deutsche und Faschisten, in Rom werdet ihr ein schneres leben haben- Tedeschi e fascisti, a Roma avrete la vita difficile. Tommaso Moro, Partigiano-”.
Verso la fine del dicembre 1943 Tommaso Moro riesce a mettere insieme una trasmittente con la quale si mette in contatto col Comando inglese dell’ VIII Armata chiedendo armi. Gli Inglesi ci vanno cauti, rispondendo che vogliono garanzie che la Banda “sia realmente combattente e priva di influenze comuniste”. Tommaso Moro risponde: -Non vogliamo armi con la garanzia- e seguita a rifornirsi, prendendo mitra, pistole e munizioni ai Tedeschi. Ma con lo sbarco di Anzio gli Alleati hanno bisogno anche di lui e gli chiedono di far saltare la linea ferroviaria Genova-Roma per interrompere il flusso dei rifornimenti tedeschi. -Prima le armi- risponde Tommaso Moro, così gli Inglesi cedono e gli fanno due aviolanci “senza garanzie” nelle campagne di Torrimpietra, annunciandogli con un messaggio speciale di Radio-Londra che “Tommaso ha una bella macchina da scrivere”. All’inizio del marzo 1944 quattro chilometri di strada ferrata, alla Magliana, saltano in aria. La linea, essenziale per il flusso dei rifornimenti a Kesserling, rimane inattiva per due settimane. La reazione tedesca è rabbiosa. Al Comando nazista dell’Hotel Continentale giunge un fonogramma 8 dello stesso Feldmaresciallo che, dalla sua tana del Monte Soratte, ordina di catturare vivo o morto “quel bandito che si fa chiamare Tommaso Moro”. Sulla sua testa si giunge perfino a porre una taglia, astronomica per quei tempi, di 1.500.000 Lire. Le spie fasciste sono già in moto, il Maggiore delle SS Seartenlander, che insieme al Capitano Erich Priebke è uno dei vice di Kappler, si dedica personalmente all’operazione. Così una notte le SS circondano una casa di Primavalle e catturano sette uomini di Tommaso Moro. Lui, però, per un caso fortuito, quella notte dorme in un altro rifugio.

Ritorniamo ora al mattino del 17 maggio 1944. Sono le tre e quarantacinque quando il camion della PAI giunge davanti al grosso portone di ferro del Forte Bravetta. All’interno ci sono i sette uomini della sua Banda, catturati dalle SS, che devono essere fucilati e Tommaso Moro ha deciso di giocare il tutto per tutto per riprenderseli, per tirarli fuori vivi e liberi, dal carnaio del Forte Bravetta. Nel breve tratto verso il Forte si è studiato bene i documenti presi nelle tasche del Tenente Aliberti, gli uomini travestiti da “paini” sono ben istruiti, ognuno sa perfettamente cosa fare. I battenti del Forte si aprono, il camion entra lentamente fermandosi nello spiazzo del primo cortile. Un Capitano tedesco del Tribunale Militare e un Maggiore italiano della G.N.R. sono fermi da una parte, alcuni funzionari fascisti in borghese si avvicinano a Tommaso Moro che scende dalla cabina e si presenta salutando: -Tenente Aliberti, agli ordini!-. E’ il momento più rischioso, qualcuno dei fascisti potrebbe conoscere il vero Aliberti e scoprire il trucco. Ma non accade nulla: -I condannati sono pronti. Faccia scendere i suoi uomini e li inquadri-, dice un funzionario. Mentre gli uomini scendono e si allineano, Tommaso Moro, con uno sguardo, si rende conto della situazione. I Tedeschi sono soltanto due, compreso il Capitano venuto a controllare che l’esecuzione avvenga regolarmente; il pericolo è tutto nella trentina di militi del corpo di guardia, brigatisti neri, gente feroce e pericolosa. Tommaso Moro, però, conta sulla sorpresa, il suo asso nella manica. Il Capitano tedesco dà un’occhiata all’orologio e dice qualcosa all’Ufficiale della G.N.R.. Sono le 4 del mattino. Il brigatista nero fa schierare i suoi uomini sul lato sinistro del terrapieno, dovranno come L’ingresso di Forte Bravetta sempre assistere alla fucilazione. – Bene, così li ho tutti a portata di mano pensa Tommaso Moro. Lui e i suoi si schierano, come un vero plotone d’esecuzione. Alcuni militi fascisti, sbucando dalla porticina del Forte che dà sullo spiazzo delle fucilazioni, portano un gruppetto di persone legate tra loro e le piazzano davanti al terrapieno. C’è un prete, accanto ai condannati, che parla con loro e li benedice. – Perdio! – impreca Tommaso Moro dentro di sé, e in quello stesso attimo coglie lo sguardo di alcuni dei falsi militi della PAI che voltano la testa verso di lui. E’ ancora scuro, nel fossato del Forte, i contorni
dei volti si impastano nella penombra del mattino, ma i sette da fucilare non sono i suoi uomini. I Tedeschi hanno mutato le date, oggi tocca a quei sette che Tommaso Moro non conosce; ci sono, lo saprà poi, due Gappisti, tre militari del Fronte clandestino, due Azionisti. Ma il suo sbigottimento dura poco, gli basta uno sguardo e un breve cenno della testa per far capire ai suoi uomini che non cambia niente.- Procedere- ordina il Maggiore con la camicia nera. Tommaso Moro dà un’ultima occhiata intorno. Il prete si è allontanato dal terrapieno; tra i condannati, che hanno le braccia legate dietro la schiena, qualcuno prega, si ode distintamente quel mormorio di preghiere nel silenzio terribile sceso sullo spazzo erboso. Il gruppetto con i due Tedeschi, l’Ufficiale fascista e i funzionari in borghese, si sono piazzati sulla destra del plotone d’esecuzione. Tommaso Moro estrae la pistola, urla -Adesso!- e comincia a sparare insieme ai diciotto uomini del plotone: una ventata di colpi investe i due gruppi di Tedeschi e fascisti che cadano falciati, molti non si rendono neppure conto di quanto sta accadendo. Resta in piedi, illeso e atterrito, soltanto il cappellano del Forte. I sette legati davanti al parapalle sono sbigottiti e paralizzati, non credono ai loro occhi. Un coltello veloce taglia le loro corde, Tommaso Moro li spinge di furia verso il camion: -Presto, siamo Partigiani, vi riportiamo a casa!- urla. Altre raffiche abbattono tre sentinelle fasciste davanti al corpo di guardia, il portone viene spalancato, gli ultimi Partigiani saltano sul camion che parte alla massima velocità consentita dal suo motore sfiatato. Forte Bravetta, il mattatoio di Patrioti è violato; la
Resistenza romana ha aggiunto un’altra sanguinosa beffa ai nazifascisti. Tommaso Moro fila a tutto gas verso l’Aurelia, verso uno dei suoi rifugi a Cerveteri, mentre a bordo i suoi uomini si sfilano le divise del PAI e si infilano, ridendo, i loro panni: – Aho ! Ve ne sete presi ‘na bella caccarella , diteme la verità!- dice uno della Banda ai sette redivivi: – C’avevo creduto sì! C’avevate pure le facce, da fascisti!- risponde uno dei sette, tra le risate liberatorie di tutti.

Vincenzo Guarniera in seguito attraverserà più volte le linee nemiche sul Fronte di Cassino e compierà varie missioni a Napoli, rientrando sempre a Roma. -Vincenzo Guarniera era alto, bruno, molto magro e molto romano – scriverà di lui il Generale Roberto Bencivenga, proponendolo per la
Medaglia d’Oro al Valor Militare della Resistenza che gli verrà concessa alla Liberazione. Prima, però, sarà il Generale Harold Alexander in persona, con una cerimonia nell’Aula del Campidoglio, ad appuntargli sulla giacca la “Bronze Star Medal”, la medaglia assegnatagli dal Comando AngloAmericano “Per l’efficace, costante aiuto dato all’avanzata alleata verso Roma e per il prodigioso coraggio dimostrato”. Gli dirà il Generale inglese, stringendogli la mano dopo la consegna della medaglia: – Lei, caro Guarniera, è stato uno dei primi uomini della V Armata! -. Tommaso Moro continuerà ad operare anche dopo la Liberazione di Roma; la sua ultima missione sarà quella di attraversare le Linee nemiche per portare ai Patrioti fiorentini 716.000 Lire e 53 chilogrammi di medicinali. Ridiventato Vincenzo Guarniera, Tommaso Moro torna nella sua casa di via Ponte Parione e si mette a fare il meccanico. Non partecipa a cerimonie, è schivo, non ama parlare delle sue medaglie. Con la sua piccola officina non riesce a tirare avanti, così qualche tempo dopo si trasferisce a Milano e pian piano anche la gente del suo Rione lo dimenticherà.

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