In questa data, si ricorda non solo la shoah, come giustamente ricorda il testo della legge 211/2000 che riconosce il giorno 27 Gennaio data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giorno della Memoria onorando non solo le vittime della Shoah ma ricordando TUTTI gli aspetti delle vicende che hanno scosso l’intero mondo: la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, e tutti coloro che si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Quindi ricordiamo non solo la persecuzione e la deportazione degli abrei, ma anche il sacrificio di tanti partigiani, militari e “diversi” italiani.
Lucia Vincenti.
A proposito della giornata della Memoria, moltissimi siciliani si opposero al progetto di sterminio finendo i loro giorni nei lager. Vi fu chi morì proprio il 27 Gennaio, come Giuseppe De Marco, deceduto a Ohruff (Buchenwald) e Diego Lanza, morto a Dalum/Meppen (Neuengamme) (…)
Un eroe siciliano: Calogero Marrone
Tanti sono stati gli eroi siciliani che hanno combattuto per difendere la libertà contro la sopraffazione e, fra coloro che sacrificarono la loro vita nel tentativo di salvarne altre, spiccano due uomini: Calogero Marrone e Vincenzo Lastrina.
Nel 2005, Yad Vascem ha avviato l’istruttoria per il suo riconoscimento di Calogero Marrone come “Giusto tra le Nazioni”, per avere salvato molti ebrei e partigiani dalla morte.
Calogero Marrone nacque a Favara, in provincia di Agrigento il 12 maggio 1889. Fu, sin dall’avvento del fascismo, tenace antifascista. Nel ’31 si trasferì a Varese.
Il 26 luglio del 1943, un giorno dopo la caduta del fascismo, tenne un comizio in piazza Monte Grappa ed entrò nella resistenza aderendo al gruppo partigiano 5 Giornate di San Martino.
Il suo aiuto agli ebrei e ai partigiani – tra cui anche l’attuale presidente dell’ANED Gianfranco Maris che ricevette documenti falsi -, era stato intenso.
Maris fu informato dell’attività di Marrone da un altro siciliano, Salvatore Di Benedetto, dirigente del Pci a Milano (poi futuro parlamentare della repubblica). L’agrigentino Alfonso Montuoro, fratello della partigiana Maria Montuoro, poi scoperto e deportato insieme alla sorella nei Lager da cui non tornò, lo presentò a Maris.
Calogero Marrone fu arrestato e portato nel carcere di Miogni, a Varese. Fu torturato, ma non parlò. Il 25 gennaio, conosciuta l’intenzione partigiana di un piano d’evasione, fu trasferito nel carcere di Como. Nel luglio fu trasferito nelle carceri di Milano, a S. Vittore. Il 23 Settembre 1944 fu portato nel campo di Bolzano da dove partì, il 5 ottobre, per Dachau insieme ad altri 518 compagni di viaggio con il trasporto n. 90 . Non ne fece ritorno. Morì, ufficialmente di tifo, il 15 febbraio 1945.
“Pazienza portare in carcere le donne, pazienza ancora i vecchi, ma i bambini, poveri innocenti, alcuni ancora lattanti attaccati al collo della mamma, altri barcollanti sulle loro gambette malferme che si guardano attorno spauriti, e ad ogni passo, come per un misterioso presentimento, i loro occhi si riempiono sempre più di terrore…”
(Don Paolo Liggeri…. Sacerote siciliano deportato)
Dall’elenco dei deportati siciliani:
528. LO BELLO ROSOLINO nato a Campofelice (PA) il 26.7.1894. Liberato. Fonti LUVI
529. LO BUE GIOVANNI nato a Caccamo (PA) il 04.9.1906. Deportato a Mauthausen. Deceduto a Melk (Mauthausen) il 1.3.1945. Fonti LUVI.
530. LO BRUTTO ANGELO nato a Canicattì (AG) il 15.7.1907. Deportato a Dachau il 5.10.1944. matricola 112768. Trasferito a Buchenwald il 12.12.1944. Deceduto il 31.12.1944. Fonti D’AGI
brani da:
Il silenzio e le urla – Lucia Vincenti – La shoah in Sicilia
Le pagine che seguono sono state editate in occasione del conferimento della medaglia di onore alla memoria del deportato Antonino Lo Bello padre del nostro Pino Lo Bello già Presidente dell’ANPI Palermo 27 gennaio 2012
PER NON DIMENTICARE IL CORAGGIO,
LA COERENZA, LA SOFFERENZA E L’ANTIFASCISMO
ANTONINO LO BELLO
Internato Militare Italiano nello Straflager VI D
a Dortmund nei pressi di Böchum, Germania.
Dal 19.09.1943 al 23.08.1945
“Dimostraste che la patria non era
morta. Anzi, con la vostra decisione
ne rafforzaste l’esistenza. Su queste
fondamenta risorse l’ Italia”.
Carlo Azeglio Ciampi
INTERNATO MILITARE ITALIANO ANTONINO LO BELLO
PRIGIONIERO N° 154 STRAFLAGER VI D DORTMUND – BÖCHUM – GERMANIA
Antonino Lo Bello, familiarmente chiamato Nino, nato a Termini Imerese (Pa) l’8 aprile 1922, fu Giuseppe e fu Tranchina Provvidenza, quinto e ultimo di cinque figli: Ignazio, Leonardo, Giuseppe, Cosimo e Antonino, tutti chiamati al servizio militare obbligatorio e impegnati nei vari fronti di guerra.
Parte dalla stazione ferroviaria di Termini Imerese, accompagnato dalla madre, sola in quanto orfano di padre, destinato al 55° reggimento fanteria Marche costiera battaglione Macerata, era il 4 gennaio 1941.
Lo strazio della madre era incolmabile. Dalla guerra si vede portar via anche l’ultimo dei cinque figli, tutti contadini costretti ad abbandonare le loro campagne, unico sostentamento per la famiglia intera.
Dopo il periodo di addestramento il 13 luglio 1942 veniva trasferito al 122° reggimento fanteria mobilitato Treviso in territorio dichiarato zona di operazione “In Croazia”.
Dopo circa un anno di duri combattimenti in territorio croato si imbarcava a Fiume con la divisione Macerata ala volta di Venezia.
Con l’armistizio firmato dal maresciallo Badoglio 08 settembre 1943 le forze armate tedesche ex-alleate decisero di occupare il territorio italiano inviando in Italia, in aggiunta alle tre divisioni già presenti, altre nove divisioni; con l’obbiettivo di fare prigionieri tutti i militari italiani ufficiali, sotto ufficiali, soldati sbandati per mancanza di disposizione precise dal governo Badoglio.
Le forze armate tedesche riuscirono a fermare, dal rientro dalle zone di guerra, circa 900.000 militari italiani.
I tedeschi e i fascisti provarono a convincere i militari da loro fermati ad arruolarsi nell’esercito della repubblica di Salò e di collaborare con le forze armate tedesche ed impegnarsi a combattere contro gli italiani: alcuni reparti dell’esercito, gli antifascisti, i partigiani, a sua volta impegnati a cacciare i nazi-fascisti occupanti l’Italia.
Qui il primo atto di coraggio di tanti militari, dire no ai nazi-fascisti ed accettare l’alternativa che era quella di essere trasferiti in quanto prigionieri nei lager tedeschi.
La stragrande maggioranza decide di restare fedele al Re e respinge il progetto razzista ed espansionistico dell’accordo tra Hitler, Mussolini e il Giappone.
Si calcola che circa 50.000 riuscirono a fuggire e raggiunsero i partigiani e diedero vita alla resistenza armata, 80.000 si dichiararono disponibili a collaborare e arruolarsi nell’esercito fascista godendo per altro di benefici economici mentre 630.000, confermando il loro no, furono caricati nelle tradotte (treni merce) e spediti nei lager di concentramento costruiti nel 1941-42.
Antonino fa la scelta coraggiosa del “no” ai nazi-fascisti e segue la sorte dei prigionieri (I.M.I. Internati Militari Italiani).
Il rifiuto ai nazi-fascisti, l’onore militare, il desiderio di farla finita con il fascismo costò caro a tutti loro.
Così inizia l’odissea degli internati italiani, offesi, derisi come ex alleati.
Antonino viene spedito a Bochum campo VI B.
Non viene applicato loro il trattato di Ginevra per i prigionieri di guerra che pure la Germania aveva sottoscritto. Non viene mai coinvolta la Croce Rossa internazionale per la loro tutela.
Antonino segue tutti i percorsi della prigionia dei soldati semplici: mancanza di vestiario e conseguente freddo per un clima a cui non era abituato; tabelle dietetiche ridotte, 1900 calorie contro le 2900 necessarie per il lavoro svolto nelle fabbriche o nelle campagne; la vita nelle baracche in condizioni igienico sanitarie carenti e in sovraffollamento, circondati dal filo spinato, tenuti in condizioni disumane e di schiavitù.
I tedeschi con questa azione hanno sfruttato i circa 630.000 soldati italiani in stato di schiavitù per produrre armi nell’industria bellica, poi in agricoltura per la produzione di viveri, potendo così liberare i tedeschi addetti ed inviarli in guerra.
Per incrementare le 1900 calorie gli I.M.I. dovettero cercare altro cibo, lo trovavano tra i rifiuti: bucce di patate, altri scarti, radici trovate nel terreno, senza questo apporto calorico non avrebbero potuto superare i sei mesi di vita, malgrado ciò il peso medio di uomini di 19 ai 25 anni si ridusse a 35/40 kg al momento della liberazione.
Erano costretti a lunghi percorsi a piedi che dai lager li portava alle fabbriche o nei campi con freddo, pioggia, fame e mal vestiti senza alcuna assistenza della Croce Rossa. Umiliati e maltrattati hanno imparato sotto ricatto e minaccia delle armi a saldare, piegare il ferro, smerigliare, fresare, tagliare per 12 ore al giorno senza alcun compenso.
Venivano prodotti nell’industria bellica armi, bombe, utilizzate dalla forze armate tedesche poi contro gli italiani.
Tanti furono i compagni morti per denutrizione, per malattia, per punizioni subite, per carenze igieniche, assaltati dai pidocchi. Smettevano di sperare nella fine a breve della follia della 2° Guerra Mondiale.
Tutti i giorni Antonino, così come altri 600.000, ribadiva il suo NO ai tedeschi che non perdevano la speranza, visto le gravi condizioni di vita, di persuaderli a collaborare e arruolarsi nell’esercito nazi-fascista, solo in 30.000 cedettero alle lusinghe dei tedeschi e alle difficoltà di sopravvivenza accettando di passare con i nazi-fascisti.
L’avanzata degli alleati americani da Ovest, con lo sbarco in Sicilia, in Normandia ecc. e dei sovietici da Est, dopo aver ricacciato indietro l’esercito italo – tedesco che aveva raggiunto Leningrado, stringevano nella morsa l’esercito tedesco.
Il patto di Hitler con Mussolini per gli internati militari italiani, sottoscritto il 23 luglio 1944, che avrebbe dovuto consentire ai militari di diventare liberi lavoratori con l’apertura dei cancelli dei lager e migliori condizioni di vita e di lavoro, si è rivelato un bleff in quanto le condizioni dei militari prigionieri rimasero di schiavitù.
L’arrivo degli alleati che avanzavano a Böchum con gli aerei e i bombardieri, malgrado l’avviso preventivo con i volantini, fecero altre vittime poiché veniva impedito ai prigionieri di abbandonare le fabbriche, i dormitori e i lager.
La prigionia nelle forze armate tedesche di Antonino dura dal 19 settembre 1943 al 23 agosto 1945, due anni infernali che hanno messo a dura prova la sua resistenza psico-fisica.
Ferito in un bombardamento alleato con schegge fu curato in ospedale, l’unica volta che si presero cura di lui.
Le cicatrici che portava nella spalla e nell’avambraccio destro erano segni del rischio di perdere la vita anche sotto i bombardamenti.
L’8 maggio 1945 la festa per la liberazione, la capitolazione dell’esercito tedesco.
La voglia di acquistare la libertà, di mangiare a sazietà, di non cercare il cibo nella spazzatura, spinse alcune volte i prigionieri a recuperare nelle fattorie animali e altro cibo.
Ma anche questa era un umiliazione, militari costretti, come schiavi per oltre 2 anni, a cercare il cibo nella spazzatura prima e a rubarlo dopo per nutrirsi, considerati dal 3° Reich razza inferiore, traditori, vigliacchi, convinti, per un lungo periodo da 1939-44, di poter controllare e governare con le proprie leggi razziste, l’Europa da Est a Ovest, l’Oriente e anche gli Stati Uniti d’America.
Alla fine della guerra non tornarono a casa 130.000 italiani , di cui 30.000 militari caduti alla cattura (in combattimento, assassinati sul campo o subito dopo la cattura o affogati e decimati nei trasporti), 50.000 IMI ed ex IMI civilizzati ( morti per fame, inedia, malattie e postumi al rimpatrio, bombardamenti aerei fatti di guerra ed eccidi); 40.000 deportati civili e 10.000 lavoratori civili
Il 23 agosto 1945 Antonino raggiunge Milano per il censimento presso il centro di raccolta e riceve un acconto di Mille lire per affrontare le spese e il rientro a casa e viene inviato al distretto militare di provenienza Palermo.
Il distretto lo ha inviato in licenza straordinaria senza assegni in attesa di eventuale reimpiego.
Viene collocato in congedo illimitato ai sensi della circolare ministeriale n. 40001 dell’11 luglio 1946 con decorrenza 12 luglio 1946.
Sono trascorsi dalla partenza da Termini Imerese oltre cinque anni.
Il viaggio per il centro Italia, Marche, Treviso, Croazia, Fiume, Venezia, Germania, Böchum, Milano, Palermo è stato il primo e il più lungo dei suoi viaggi.
Per necessità aveva imparato a parlare tedesco. E le parole di quella dura lingua gli restarono sempre impresse nella memoria, forse come ferite mai rimarginate. Ricordava spesso i compagni che non ce l’avevano fatta, e I suoi occhi lucidi non potevano nascondere la commozione. Conservava tanti ricordi di episodi, pericoli, offese, la disperazione e i pianti, il rammarico di aver perso 5 anni della sua gioventù per una guerra che lui non voleva, che tanti non volevano e che è costata la vita a milioni di soldati e cittadini del mondo.
Tornato a Casa, trovati i campi incolti riprese subito a lavorare duro, a pensare come costruire il suo futuro, ricostruire ciò che era stato distrutto dai tedeschi, dai fascisti e dai bombardamenti alleati.
Occorreva una grande forza di volontà, tante energie.
Ritrovò a suo fianco la sua vecchia mamma, e I quattro fratelli anch’essi appena ritornati dal fronte.
Nel 1947, a pochi anni dal rimpatrio, Antonino celebrerà il matrimonio con Balsamo Cosima, matrimonio felice e con tante liete nascite, Enza, Pino, Ignazio, Salvatore e Roberto,
Nino, in ogni occasione, parlava e raccontava ai figli e ai numerosi nipoti, dell’arroganza e cattiveria dei fascisti della GESTAPO delle SS, degli orrori della guerra e commosso tacitamente pensava: “Mai più guerre, mai più prigioni, mai più fascismo, mai più morte e distruzione… mai più campagne abbandonate”.
Dopo ogni racconto, con gli occhi lucidi e le guance rosse, ti cingeva con le grandi mani, e con la forza di un colosso ti scuoteva come se volesse trasmetterti tutto il suo coraggio ed il suo più profondo affetto.
Grazie per aver resistito alle lusinghe dei nazi-fascisti, per aver detto tanti no a collaborare con loro, per non aver tradito l’Italia, per aver scelto di resistere per la libertà.
INQUADRAMENTO STORICO
L’8 settembre 1943 è una delle date simbolo del secondo conflitto mondiale. E’ il giorno dell’armistizio, della fine delle ostilità fra l’Italia e gli eserciti alleati. L’atto ufficiale fu firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa , dai generali Castellano e Bedell Smith, ma venne reso noto solo cinque giorni più tardi. A dare l’annuncio al paese fu il maresciallo Pietro Badoglio, a cui, il 25 luglio dello stesso anno, dopo la destituzione di Mussolini, il re aveva conferito l’incarico di capo del governo: «II governo italiano [questo il testo letto alla radio da Badoglio], riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
La notizia dell’armistizio fu accolta con gioia dalla popolazione.
Molti si illusero che segnasse la fine della guerra: dovettero ricredersi. Le parole di Badoglio gettarono l’Italia nel caos più completo e scatenarono l’immediata reazione della Germania nazista: mentre il re e il governo lasciavano Roma per rifugiarsi a Brindisi, i tedeschi (che avevano giù subodorato quello che essi definivano «il tradimento») scatenarono la controffensiva e procedettero all’occupazione delle regioni centro-settentrionali della penisola. Il nuovo corso degli eventi colse di sorpresa il regio esercito, acquartierato in Italia e in diversi angoli d’Europa. In pochi giorni le truppe italiane, prive di ordini precisi, furono facile preda delle ben più organizzate (e meglio equipaggiate) milizie naziste. La confusione del momento e il senso di sgomento provato dai soldati italiani. «Ci si interrogava l’un l’altro, ufficiali, sottufficiali e truppa. Era chiaro che la guerra era terminata e che non dovevamo più combattere chi, sino a quel momento, era stato il nostro avversario. Ma fu l’ultima parte del proclama di Badoglio che ci lasciò allibiti: verso chi reagire se non contro i nostri alleati? Le richieste via radio, le interrogazioni tra i vari comandi, fra arma e arma, i consigli, i suggerimenti contribuirono, minuto dopo minuto, a creare maggiore confusione. Ogni comando la pensava in modo diverso. Intanto, non lontano da noi, da Cefalonia e Corfù, si udiva il rombo del cannone… I tedeschi, in quel periodo non molti, per la verità, non persero tempo. Sebbene in numero irrilevante rispetto alle nostre forze, seppero destreggiarsi in una situazione che non sarebbe divenuta così precaria per i nostri comandi se fosse stata preceduta da informazioni tempestive e più avvedute, dando il tempo di prendere decisioni ragionate… Isolati, senza contatti, ogni reparto agì di propria iniziativa, nel modo che tutti oggi conoscono, con il sacrificio quasi totale, sopraffatti dalle truppe tedesche sopraggiunte in forze».
Oltre alla disorganizzazione, alle carenze strutturali del regio esercito e all’incapacità dei comandi italiani di gestire la situazione, in quell’occasione pesò anche il comportamento disonesto degli ufficiali tedeschi. «Un fattore determinante fu poi quello del mancare alla parola data da parte dei generali di Hitler, i quali promisero in perfetta malafede ai loro ex alleati che li avrebbero rimpatriati una volta avessero consegnato le armi. Fuori dalla madrepatria gli eventi non avrebbero preso il corso che presero senza il perfido inganno, l’imbroglio sleale e l’abuso vergognoso della fiducia che troppi ufficiali italiani ancora riponevano nei vecchi compagni d’armi».
Nella «retata» organizzata dai nazisti caddero migliaia e migliaia di soldati .
«Consegnarono le armi circa 416 mila italiani, nella zona di Roma e nell’Italia meridionale ne furono disarmati circa 102 mila, nella Francia meridionale non più di 59 mila e nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo orientale circa 430 mila. Complessivamente furono disarmati quindi 1 milione e 7 mila italiani. Il resto dell’esercito regio, per lo meno 2 milioni e 700 mila uomini, andò a casa, si unì ai partigiani o si trovava nell’Italia meridionale nel territorio occupato dagli alleati e rimase per il momento ancora sotto le armi».
Tra i disarmati una parte accettò di restare al servizio dei tedeschi o di passare alle milizie fasciste, un’altra riuscì in qualche modo a sottrarsi alla prigionia, mentre una terza, quella più numerosa conobbe la tragica esperienza della deportazione: tra soldati e ufficiali (26.500), circa 716 mila uomini, secondo il calcolo dello storico ed ex deportato Claudio Sommaruga, vennero internati nei lager del Terzo Reich .
IL TRASFERIMENTO
Subito dopo la cattura, l’efficiente apparato burocratico-militare nazista organizzò il trasporto dei militari italiani nei campi di concentramento. L’obiettivo di Hitler era duplice: eliminare dallo scacchiere di guerra uomini che, eventualmente schierati sul fronte opposto, avrebbero potuto creare problemi alle sue armate e, nello stesso tempo (elemento ancora più importante), recuperare braccia giovani e forti, a costo zero, da impiegare nella macchina produttiva tedesca impegnata allo spasimo a sostegno dello sforzo bellico.
L’8 settembre «si trasformò in un eccellente affare per il Terzo Reich. I tedeschi ricavarono infatti un enorme bottino: armi, materiale di ogni genere e uomini. Ironizzando si potrebbe parlare dell’ultima vittoria delle forze armate tedesche. Il guadagno più importante fu costituito proprio dagli uomini che come prigionieri di guerra o lavoratori coatti raggiunsero il Reich offrendo così la possibilità -cosa che stava particolarmente a cuore alla Wehrmacht – di rendere disponibili tedeschi da impegnare al fronte».
La Germania ha milioni di uomini disseminati sui vari fronti, e la manodopera scarseggia sempre più, sia nelle fabbriche sia nei campi. Il paese è impegnato allo spasimo e da tempo cerca forze qualificate, manovali da impiegare come braccianti o da istruire, donne e ragazze da sfruttare per fabbricare carri armati, aerei, proiettili, cannoni e anche prodotti alimentari destinati all’esercito e alla popolazione delle città bombardate dagli angloamericani. Da molti anni esiste un’organizzazione di lavoratori civili volontari di varie nazioni europee, ma ormai non bastano più. Pertanto, l’improvvisa apparizione sul mercato del lavoro dei nuovi schiavi italiani, che è possibile impiegare senza dover pagare loro alcuna mercede stabilita per contratto, viene salutata dagli imprenditori con cinica gioia .
La maggior parte dei soldati italiani fu deportata nei territori del Reich nei giorni immediatamente successivi alla cattura. Gli spostamenti avvennero via ferrovia e via nave, in condizioni disumane. Le numerose testimonianze di chi viaggiò in treno parlano di vagoni merci pieni fino all’inverosimile, che non venivano aperti per giorni e giorni, dove mancavano cibo e acqua e persino la possibilità di soddisfare i bisogni corporali: insomma, un incubo. Ma andò ancora peggio ai militari catturati nelle isole, che per raggiungere la terraferma dovettero sorbirsi anche uno o più spostamenti via mare con molti naufraghi. Furono emanati ordini precisi che stabilivano che lo spazio sulle navi dovesse essere utilizzato «fino ai limiti estremi senza tener conto di alcuna considerazione di comodità e sicurezza».
Le SS e la Feldgendarmerie portavano via gli zaini migliori, soprattutto quelli degli ufficiali, nella speranza di far bottino (anche le gavette e le coperte erano oggetto di preda) e chi tentava di difendersi o di resistere alle offese veniva legato, minacciato con le pistole, schernito. Nelle stive alcuni energumeni, armati di bastoni, stipavano fino all’inverosimile gli italiani via via che giungevano. Il carico era enorme: si stava in piedi uno accanto all’altro, stretti e pigiati, senza possibilità neppure di muoversi, e già dai primi momenti l’aria era divenuta irrespirabile… Sul volto dei più vicini si leggeva l’ansia per il pericolo incombente e silenzioso; ma più che il timore di poter morire in quella bara dava angoscia il pensiero di dover trascorrere ore e ore senza aria, senza luce, gli uni ammassati sugli altri, senza poterci muovere, nel lezzo che diveniva di momento in momento più orribile. Una fatalità si aggiunse. Quella medesima nave che li portava verso il Pireo era giunta alcuni giorni prima a Lero carica di viveri (farina, patate, piselli secchi, carrube…). Gli internati italiani l’avevano scaricata e, affamati , non avevano esitato a mangiare crudo ciò che riuscivano a sottrarre. Anche nella stiva, appena discesi , nonostante gli ufficiali si opponessero con tutte le loro forze, alcuni soldati racimolarono della farina che per la polvere e la sporcizia era divenuta completamente nera , la impastarono con un po’ d’acqua lurida ed ebbero la forza di mangiarla. Ne derivò che la quasi totalità dei soldati fu presa da coliche e diarree violentissime, né c’era alcun modo, naturalmente, di giungere ai gabinetti: l’accesso al ponte, oltre che vietato, era impossibile, le corde erano state tolte e una scaletta di ferro che portava a un boccaporto era divenuta già dai primi momenti un grappolo umano senza che alcuno potesse tuttavia eludere la sorveglianza della sentinella tedesca. E così le stive si mutarono in una specie di fetida cloaca.
IL RIFIUTO ALLA R.S.I
Immediatamente dopo la cattura, ma anche una volta giunti a destinazione, gli internati italiani, ufficiali e truppe, furono sollecitati a mettersi agli ordini dei comandi nazista o fascista: la scelta era tra una vita di stenti nei lager o il lavoro coatto e un «posto» da soldato regolare del Terzo Reich o della nascente Repubblica sociale (in quest’ultimo caso con la possibilità di ritornare subito in patria). Ma quelli che accettarono, i cosiddetti «optanti», furono una minoranza. Nel complesso, tra i 716 mila internati, i «sì» furono poco più del 14% (6% come combattenti SS o Rsi e 8% come ausiliari). Le adesioni maggiori furono raccolte tra gli ufficiali (40% circa , contro il 13% dei soldati).
Tante centinaia di migliaia di prigionieri italiani nelle mani dei tedeschi costituiscono un plebiscito negativo così imponente contro la nascente Repubblica di Salò da indurre i responsabili nazisti e fascisti a cercare di persuadere gli internati a continuare la guerra assieme alle forze del Reich . Nei primi giorni dopo la cattura sono gli ufficiali tedeschi a far leva sul preesistente patto di alleanza, sul cameratismo nato fra soldati italiani e germanici, per ottenere l’adesione al nazifascismo. In questa prima fase l’opera di persuasione tende ad avere il consenso all’inquadramento nei reparti SS, con la rinuncia alla divisa italiana… Il risultato appare insoddisfacente e i capi fascisti e nazisti si convincono a inviare personalità italiane della carriera militare e di quella politica, per convincere gli internati . Da quel momento un corposo numero di alti ufficiali fedeli a Mussolini comincia a girare per i lager che ospitano gli internati, ma nonostante gli sforzi della propaganda (e la dura vita in prigionia) gli «optanti» resteranno una minoranza .
Il regime nazista offrì la liberazione dai campi di prigionia e il rinvio in Italia a quei prigionieri italiani che si fossero arruolati nelle forze armate tedesche e soprattutto nelle costituende forze armate repubblichine. Una quota di prigionieri aderì a tale proposta, reiterata dal momento della cattura fino ai primi mesi del 1944, quando gli IMI avevano già fatto l’esperienza del durissimo inverno 1943 nei lager, sottoposti a una detenzione che li esponeva alla scelta fra l’eliminazione per fame nei campi e la morte per sfruttamento per lavoro coatto e militarizzato all’interno del sistema economico di guerra della Germania nazista. Ma il fatto che la stragrande maggioranza degli IMI, soldati e ufficiali, e percentualmente più quelli che questi, rifiutò di aderire alla Rsi costituì – per Berlino non meno che per Salò – un affronto e un disconoscimento di massa di altissimo valore politico .
Quella degli IMI che, a carissimo prezzo, non cedettero alle lusinghe naziste e fasciste fu una Resistenza non armata, altrettanto importante, almeno dal punto di vista simbolico, di quella armata che agiva in Italia. Sulle ragioni che spinsero la stragrande maggioranza di essi a dire «no», vi sono interpretazioni diverse. Credo che sia umano ammettere che ci sia stata una minoranza che rifiutò l’adesione perché suggestionata dalla corrente maggiore fermamente decisa a resistere. Anche così non diminuisce di molto il valore della scelta, dato che le prospettive che essa offriva erano tutt’altro che allegre. Ebbero gioco, senza dubbio, anche risentimento e rabbia per le molte umiliazioni subite. Ma è più giusto dire che gli IMI affrontarono da soldati quelle situazioni e seppero resistere come se si trovassero su una ideale prima linea. Una prima linea che ebbe il suo triste tributo di numerosi caduti, feriti, ammalati, invalidi e dispersi.
Uno studio statistico condotto nel 1994 su 431 IMI (23% ufficiali) ha dato i seguenti risultati: il 30% ha detto «no» per ragioni militari («non volevo combattere gli italiani», «ero stanco della guerra»), il 26% per questioni etiche («fedeltà» al giuramento, «dignità», «solidarietà di gruppo»), il 24% per motivi ideologici («anti-nazifascismo», «cattolicesimo», «liberalismo», «marxismo»), il 20%, infine, per valutazioni diverse . Tra di esse, va ricondotta la percezione, diffusa fra gli IMI, che il conflitto volgesse ormai al termine, con l’inevitabile sconfitta delle forze dell’Asse (percezione, come è apparso in seguito, corretta per quanto riguarda l’epilogo, ma errata rispetto ai tempi, più lunghi del previsto) e che quindi valesse la pena di sopportare il peso della prigionia in attesa della «vicina» liberazione. I soldati che fecero questa scelta subirono l’immediata ritorsione dei tedeschi: gli uomini di truppa furono avviati al lavoro coatto, gli ufficiali (che non potevano essere obbligati a lavorare, almeno fino all’agosto del 1944) vennero rinchiusi nei campi di detenzione, «costretti all’inattività e all’inedia, privati di ogni vestigia di ruolo e di status».
LO STATUS DEGLI INTERNATI
Appena arrivati nel lager di destinazione, spesso dopo averne attraversati diversi altri di smistamento, i soldati italiani si rendono conto di non godere dello status di prigionieri di guerra e quindi di non essere tutelati in alcun modo dagli accordi internazionali in materia. Hitler, il 20 settembre 1943, con un provvedimento, stabilisce che essi devono essere identificati come IMI, Internati Militari Italiani. Si tratta di una denominazione del tutto impropria (per internati si dovrebbero, infatti, intendere i militari che si rifugiano in uno Stato neutrale in attesa della fine delle ostilità… e la Germania non è certo uno Stato neutrale!), ma il dittatore nazista non bada a queste «sottigliezze». Nel testo originale si legge:
«Per ordine del Fùrher e con effetto immediato, i prigionieri di guerra italiani non devono più essere indicati come tali, bensì con il termine di internati militari italiani» .
Con questa decisione il dittatore tedesco si vendicava dei soldati italiani, considerati «traditori», e si garantiva mano libera sul trattamento da riservare loro. Gli IMI non potevano avvalersi delle protezioni previste dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra (27 luglio 1929) e non avevano diritto all’assistenza della Croce Rossa; in sostanza erano abbandonati a se stessi, schiavi nelle mani della Germania nazista, senza che nessuno (né il re e neppure Mussolini) muovesse un dito per salvarli. Su tutte le giacche indistintamente «tre lettere enormi sono scritte a biacca, una biacca giallastra, fosforescente: IMI, Internato Militare Italiano. Scendono dalle spalle alla vita… sembriamo scritte pubblicitarie ambulanti . Innumerevoli altri italiani si stanno trascinando dietro per l’intera Germania, la scritta pubblicitaria IMI, tutto un esercito vestito di tela che si porta sulle spalle, a biacca, fosforescente un trespolo di tre lettere: IMI. Ma IMI vuol dire infimo, profondità estrema, bassura infinita. Un esercito di schiena, sbandato, in stracci, con sulle spalle il peso di un’infamia beffarda, una signatura crudele e schernitrice .
Come detto i soldati vennero subito utilizzati nelle fabbriche e nei campi agricoli a sostegno dello sforzo bellico, mentre gli ufficiali restarono segregati nei lager. Lo status degli IMI cambiò, però, ancora una volta e sempre per volere del Fiirher. Il 20 luglio del 1944 Hitler e Mussolini strinsero un accordo in base al quale i militari deportati venivano trasformati in «lavoratori civili», anzi «liberi lavoratori civili» secondo il vocabolario capovolto de «La Voce della Patria», un foglio propagandistico stampato a Berlino, che veniva distribuito nei campi: era l’ennesima tragica beffa. La formalizzazione del nuovo status non produsse effetti particolari sui soldati (erano obbligati a lavorare da IMI e avrebbero continuato a farlo da «liberi»), ne modificò la situazione degli ufficiali i quali, volenti o nolenti, furono in buona parte anch’essi sollecitati a piegarsi alle esigenze produttive del Reich. Di fatto Mussolini non volle o non poté fare nulla per i connazionali internati, che rimasero totalmente alla merce dei nazisti. Né il Comitato Internazionale della Croce Rossa né la Young Men’s Christian Association né la Chiesa poterono occuparsi degli internati militari italiani, a cui tuttavia era assicurata assistenza spirituale da parte di sacerdoti. Chi dunque si interessava dei prigionieri italiani? Ufficialmente il compito spettava all’ambasciata di Mussolini a Berlino presso la quale fu allestito nel febbraio del 1944 un “Servizio assistenza internati militari italiani e civili” (SAI), allo scopo di soccorrere i connazionali fatti prigionieri dall’alleato. Ma i responsabili di questo Servizio non poterono far molto. Essi potevano si chiedere, proporre, insistere, sollecitare, ma non erano assolutamente in grado di agire efficacemente o meglio ancora di prendere qualcosa sotto la propria responsabilità. I primi soccorsi arrivarono con grande ritardo, solo nel maggio del 1944, e in quantità del tutto insufficiente. I prigionieri delle altre nazionalità ricevono settimanalmente qualche pacco contenente viveri di conforto, sigarette e altro. I prigionieri russi e gli italiani: niente! I tedeschi si giustificavano dicendo che, in virtù di un accordo fatto con Mussolini, i prigionieri italiani dovevano essere considerati volenti o nolenti, lavoratori volontari e, perciò, non aventi diritto a godere di nessun aiuto. Dall’altra parte, cioé dal Sud, il governo Badoglioo se ne lavò egregiamente le mani , con la scusa di non potere intervenire a causa fronte di guerra che lo separava da ogni possibile contatto coi l’attuale “nemica” Germania. E la Croce Rossa internazionale? Facilissimo. Visto che erano abbandonati da tutti, non fece altro che abbandonarli anche lei.
Nella sostanza , gli IMI, che avevano un pressante bisogno i conforto morale e materiale, furono abbandonati al proprio destino. Qualunque esso fosse. Gli unici aiuti, pur tra mille difficoltà, vennero dalle famiglie in patria. La vicenda dei pacchi e delle corrispondenze è, davvero, illuminante. Mentre, come sottolineato, i prigionieri di altri paesi ricevevano pacchi con una certa regolarità dalla Croce rossa o dai rispettivi governi, gli italiani potevano solo sperare nei propri cari. E ogni volta che arrivava una lettera o un pacco era una festa: «14 maggio» nota un ex internato: «Oggi grande giornata. Mi è arrivato un pacco. Non si può assolutamente descrivere la scena, bisognerebbe essere presenti quando arrivano questi pacchi. Siamo peggio di una muta di lupi affamati all’assalto. Il disordine sfocia sempre nelle legnate che i tedeschi ci somministrano tra grida e improperi. Quando finalmente riescono a metterci in linea, inizia la chiamata dei destinatali. Durante l’appello siamo irrequieti e le imprecazioni contro quelli che spingono sono terribili. Finalmente quando entriamo in possesso del nostro pacco, lo teniamo stretto con tutte e due le braccia: non farebbe con altrettanta gelosia e tenerezza mia madre col suo bambino! Lo teniamo, accarezzandolo con gli occhi; sognando e pensando intensamente a quanta manna vi si nasconda, con quale ansia si apre quel pacco, con quale delicatezza vi si dispongono le cose che vi sono dentro! La roba da mangiare sparisce assai presto. È troppa la fame arretrata: è come se entrasse in un buco senza fondo. Molti fanno indigestione e dopo un po’ si sentono male. Che importa? Basta mangiare almeno una volta a sazietà. Il nostro fisico, ormai debole e non più abituato a nutrirsi regolarmente, subisce un contraccolpo che ci porta a tristi conseguenze; ma quando si ha davanti, tutto d’un colpo, quella grazia di Dio, non si può fare a meno d’ingoiare continuamente e di dar fondo a tutto. Inutile dire che si fa di nascosto, per non farsi vedere da quelli che non hanno avuto il bene di ricevere qualcosa: si va via soli, come si sfuggisse a un’insidia».
E per chi non riceveva nulla (cibo, vestiti e notizie da casa) il senso di abbandono diventava insopportabile.
VITA E MORTE
I militari furono divisi in campi diversi: i soldati vennero rinchiusi negli Stammager/Stalag, alle cui dipendenze vi erano spesso gli Arbeitskommandos, distaccamenti di minori dimensioni ubicati nelle vicinanze delle fabbriche o dei luoghi di lavoro in cui venivano impiegati. Gli ufficiali furono, invece, internati negli Oflager. La «galassia concentrazionaria» era poi completata dai Dulag (i campi di transito o di smistamento), dagli Straflager (i campi di punizione) e dai Lazarett (i campi-ospedale, dove venivano ricoverati i militari gravemente ammalati). Gli italiani, secondo le stime, vennero distribuiti o smistati in 249 lager principali: 192 in Germania, 15 in Polonia, 15 in Russia, 14 in Francia, 11 in Iugoslavia, 2 in Grecia. All’arrivo a destinazione la tristemente efficace burocrazia del Reich procedeva all’identificazione dei prigionieri: i tedeschi compilavano una scheda con tutti i dati anagrafici, quindi assegnavano a ognuno un numero che poi veniva riportato su una piastrina metallica (da tenere sempre addosso). Il controllo doveva essere assoluto. «Il lager» era organizzato su un’area delimitata da una recinzione costituita da diverse linee di reticolati, alternati a fosse riempite con rotoli di filo spinato così fitto e aggrovigliato da non consentirne l’attraversamento neppure ai topi. In alcuni lager il reticolato era percorso dalla corrente ad alta tensione. Un semplice filo spinato, nel lato interno del perimetro, preavvertiva della fucilazione a chiunque l’avesse toccato o anche soltanto sfiorato accidentalmente. Il filo spinato costituiva così una delle preoccupazioni maggiori degli internati, e al tempo stesso era anche l’elemento più caratteristico dell’architettura del campo, poiché separava i vari settori, le viuzze e le baracche. La vigilanza era garantita da un sistema di garitte e di torrette ubicate ai lati e agli angoli del campo, e dalle quali era possibile controllare l’intera area interna al lager, illuminandola con un riflettore di notte, nonché le sue immediate vicinanze; sulle torrette prestavano servizio guardie armate di fucili e mitragliatrici, pronte ad aprire il fuoco sul malcapitato di turno che si fosse avvicinato troppo al filo.
Nel corso del periodo di detenzione fu abbastanza frequente lo spostamento da un campo all’altro. «Chi non l’ha provato difficilmente può immaginare la somma di disagi, di sofferenze e di umiliazioni che comportava un trasferimento da un lager all’altro». Accanto alle difficoltà in cui si trovava la rete ferroviaria tedesca per i bombardamenti, sabotaggi, intasamenti, mancanza di materiale rotabile, c’era la premeditata e ottusa volontà della scorta di rendere più dura possibile la vita degli internati. Mediamente un trasferimento durava una settimana, con lunghissime soste sui binari morti. I viveri della già scarsa razione erano distribuiti, freddi naturalmente, per tre o quattro giorni soltanto. Vagoni merci ghiacciati, 40, 50 e in certi casi perfino 100 uomini per carro, sprangato all’esterno. I portelli si aprivano una sola volta al giorno e per appena un quarto d’ora , per evacuare a comando.
L’acqua era distribuita quando faceva comodo alle guardie. Possibilità di riposare scarsissime, anche perché mancava letteralmente lo spazio per sdraiarsi. Si facevano i turni, in piedi e coricati. Diarree con tutte le conseguenze non difficili da immaginare in quelle bolgie. Orinare in un barattolo, che veniva poi passato di mano in mano per poterlo vuotare all’esterno, da un pertugio sbarrato dal filo spinato. E piuttosto spesso, bombardamenti e mitragliamenti aerei, con morti e feriti: ma i tedeschi non aprivano, rifiutavano aiuti e il viaggio continuava…
Le condizioni di vita nei campi erano, nella maggior parte dei casi, disumane: il cibo era cattivo e scarsissimo, le baracche in legno (e raramente in muratura) in cui dormivano i prigionieri (sui cosiddetti «castelli»: letti di due, tre o più piani in tavolaccio) malsane e sovraffollate, la situazione igienica terribile, dappertutto la facevano da padroni pidocchi, cimici, scarafaggi e topi; l’abbigliamento era spesso costituito di pochi indumenti laceri , assolutamente inadeguati per combattere i rigori del freddo pungente che d’inverno, in certe zone, toccava anche i 30-40 gradi sottozero; le malattie erano all’ordine del giorno, moltissimi internati morirono per sfinimento, denutrizione o tubercolosi , nella totale mancanza di assistenza medica.
«Nell’organizzazione dei lager tedeschi è previsto il funzionamento dell’infermeria del campo, nella quale vengono ricoverati i malati più gravi provenienti dai campi di lavoro, in teoria per essere curati, in realtà per lasciarli morire nei lager dove sono registrati… in tutti i lager manca l’assistenza sanitaria non solo per deficienze funzionali , ma perché quella è la direttiva. I malati gravi vengono abbandonati a loro stessi perché irrecuperabili per il lavoro. Varie testimonianze accusano come criminali di guerra i medici tedeschi perché ostacolano le cure degli infermi, non si curano dei malati, non mettono mai piede nelle infermerie e negli ospedali».
All’assenza di assistenza medica, si devono poi aggiungere le continue minacce, umiliazioni, violenze e pressioni psicologiche da parte dei nazisti: il lager è un autentico inferno .
La sporcizia come arma di ricatto. «I nazisti volevano i pidocchi , le cimici , le pulci; volevano che gli indumenti cadessero in brandelli , che maglie, mutande, calze e pezze da piedi si portassero per mesi, stagioni e interi semestri senza offrire i mezzi per lavarli o sostituirli. Non facevano nulla per evitare i malanni derivanti dalla sporcizia, dissenteria o peggio il tifo. L’interno delle baracche era lurido per l’impossibilità di tenerlo pulito. Se poi passiamo al capitolo gabinetti… quando andava bene consistevano in baraccacce di assi sconnesse che circondavano grandi buche malamente ricoperte con radi tavolati . Gli escrementi erano dappertutto.
Si effettuavano due appelli giornalieri, uno primo mattino, il secondo verso l’imbrunire. L’operazione teoricamente semplicissima: si trattava di fare qualche somma contando i presenti in riga e quelli che, indisposti, rimanevano in baracca. Viceversa era raro che i conti tornassero velocemente: essi venivano fatti e rifatti più volte, baracca per baracca, poi bisognava fare il computo totale. Conclusione, si doveva starsene all’aperto a lungo, a volte un’ora o due, con qualunque tempo, alla pioggia o sotto la neve, d’inverno con parecchi gradi sotto zero. Gelando. Denutriti e mal vestiti, la sofferenza si moltiplicava. In più, non di rado, i tedeschi esigevano formalismi assurdi, in quelle condizioni: posizione di attenti, niente coperte, passamontagna (chi li aveva) rialzati. Spessissimo erano urlacci degli addetti alla conta, e di tanto in tanto anche botte, schiaffi, e “carezze” coi calci dei fucili: anche in faccia. Da lontano, un azzimato ufficiale – il supercontrollore – assisteva, frustino in mano, caldo nel suo pastrano foderato di peto, pasciuto e riposato. Tutto questo serviva a farci spendere le poche calorie che ci venivano elargite dal Grande Reich, a moltiplicare i casi di congelamento, a favorire svenimenti e malattie, a demolire il morale .
Spoliazioni degli averi degli internati e commerci per procurare cibo, sono due aspetti di un unico proposito: quello di rapinare tutto ciò che era possibile a gente indifesa e in stato di estremo bisogno. L’operazione si attuò con fasi e metodi distinti: furti ufficiali, con cerimoniale che pareva rispettare certe norme internazionali . Essi avvennero nel primo lager dove furono portati gli italiani. I tedeschi dicevano che era streng verboten (severamente proibito) tenere oggetti come radio, bussole, binocoli, macchine fotografiche, pinze; pertanto li sequestrarono, con modi perfino cortesi, rilasciando quasi sempre delle ricevute che – dicevano – sarebbero servite per riavere gli oggetti stessi alla fine della guerra; perquisizioni nel corso della prigionia. I tedeschi si prendevano tutto quello che gli internati erano riusciti a salvare nella prima fase e, in più, andavano alla ricerca di cose di altro tipo: penne stilografiche, accendini, temperini. Senza ricevute. Durante le perquisizioni “pesanti” cercavano valuta, sterline, oro, quaderni, appunti; commerci all’interno dei lager, effettuati personalmente da militari e sottufficiali tedeschi, o tramite civili che bazzicavano nei lager. Questo tipo di furto poteva essere estremamente redditizio: un orologio d’oro di marca, scambiato per due o tre pagnotte di pane nero di segala, una fede matrimoniale per un paio di chili di fagioli, una catenina d’oro per poche patate. Qualche volta, nel corso di questi commerci clandestini, ci scappava il morto: la sentinella, avuto l’oggetto attraverso il reticolato, sparava .
Le regole internazionali prescrivono che ai prigionieri di guerra sia riservato un trattamento alimentare pari a quello che la nazione detentrice offre ai propri soldati a riposo. Col trucco di non considerarci prigionieri i nazifascisti elusero questa regola . La novità della qualifica di internati militari italiani offrì loro una comoda scappatoia per dosare come volevano i viveri. E il dosaggio fu estremamente parsimonioso… erano razioni teoriche che venivano decurtate in partenza, assai spesso, per trame dei quantitativi con i quali si alimentava il mercato nero. Inoltre bisogna tenere conto della qualità dei vari alimenti: ad esempio, era frequente il caso di fornitura di patate gelate, immangiabili; il pane conteneva una certa percentuale di segatura ed era sempre umido; la minestra (sbobba) era priva di grassi e di sostanze proteiche; i cosiddetti generi di conforto arrivavano molto saltuariamente, specie negli ultimi mesi dell’internamento. Comunque la razione teorica era questa: al mattino, un infuso caldo di erbe varie e fiori di tiglio; per il resto della giornata, 1 litro di sbobba di rape da foraggio, tagliate a fettucce, amare, disgustose; 300 grammi di pane, agli inizi del 1944 calò a 180 grammi e perfino a 150; 200 grammi di patate; 25 grammi di margarina; 20 grammi di zucchero.
Quello dell’alimentazione fu il problema principale per la sopravvivenza nei campi. I prigionieri erano denutriti, perdevano peso in maniera allarmante e le vittime per fame non erano affatto rare.
Secondo studi storici 24 mila dei circa 50 mila caduti nei lager, morirono di fame e di malattie conseguenti. La mancanza di cibo era tale che i prigionieri si nutrivano di tutto ciò che era masticabile: bucce di patate, ghiande, radici, erba, avanzi di cucina recuperati tra i rifiuti. Ma anche di peggio.
La dieta, per apporto calorico, era al di sotto del livello minimo di sopravvivenza. Lo ammette anche l’ambasciatore a Berlino della Rsi, Filippo Anfuso, che in un rapporto sul lager di Luckenwalde scrive; «Gli internati si lagnano del nutrimento assolutamente insufficiente. Effettivamente si riscontrano numerosi casi di edemi da fame e di grave deperimento organico, spesso seguiti da morte». La situazione era particolarmente tragica per gli internati utilizzati come lavoratori coatti nelle fabbriche (quelli che furono impiegati nelle fattorie se la cavarono meglio). E spesso sono le industrie stesse a farlo presente, lamentando che il precario stato di salute di molti lavoratori, provocato dalla denutrizione, condizionava il loro rendimento. «Una dipendenza della Mannesmannrohren-Werke» la Heinrich-Bierwes-Hutte di Duisburg, a cui nell’ottobre del 1943 furono assegnati 349 IMI, riferiva: “II medico aziendale si è occupato in particolare del cattivo stato nutrizionale degli internati militari italiani, ì quali al momento del loro arrivo in fabbrica erano talmente denutriti, che un certo numero di loro presentava già grossi rigonfiamenti (edemi da fame) sulle gambe”. Un altro impianto siderurgico della Rurh, la Gutehoffnungshutte di Oberhausen, che nell’ottobre del 1943 ricevette 1.227 IMI, ci offre un quadro simile: “La percentuale dì ammalati era straordinariamente alta fra gli internati militari italiani. La causa dì ciò va individuata nel fatto che gli italiani giunsero a Oberhausen in uno stato di totale debilitazione e denutrizione. All’inizio quasi tutti erano in condizioni tali da non poter essere impiegati al lavoro e soffrivano dei tipici sintomi della denutrizione”. La situazione si ripete uguale dappertutto.
Al peggio, però, non c’è mai fine. I tedeschi, infatti, per risolvere il problema della scarsa produttività degli italiani, diedero un’ulteriore prova del proprio sadismo: invece di aumentare la quantità delle razioni di cibo, inventarono il Leistungsernahrung, che tradotto significa alimentazione proporzionata alla produttività. Questo metodo, applicato a partire dall’ottobre del 1942 ai prigionieri sovietici impiegati nelle miniere di carbone, venne esteso rapidamente a tutto il settore industriale: «Esso» consisteva nel dividere i lavoratori stranieri in tre scaglioni: il primo costituito da coloro che avevano un rendimento pari o superiore all’80% di quello di un operaio tedesco di pari qualifica; il secondo costituito da coloro il cui rendimento oscillava tra l’80% e il 60%; e il terzo costituito da coloro il cui rendimento era inferiore al 60%. Questi ultimi subivano una decurtazione della razione standard e ciò che veniva tolto a loro veniva assegnato, come premio, a quelli del primo scaglione. Oltre alla riduzione del vitto erano inoltre previste anche altre punizioni, come lavoro supplementare e l’assegnazione a incarichi particolarmente sporchi. Il Leistungsernahrung ebbe poca efficacia, anche a detta dì molte direzioni aziendali: «Ci aspettiamo scarsi risultati da questa normativa» si legge in un rapporto «essa non farebbe altro che aumentare il numero degli ammalati fra questi IMI malnutriti». Ma i nazisti non se ne preoccuparono affatto.
IL LAVORO
Come già evidenziato, una volta giunti nei lager i soldati e i sottufficiali vennero rapidamente avviati al lavoro, mentre gli ufficiali furono chiusi in campi a parte e momentaneamente esclusi dall’obbligo di lavorare (ma subirono incessanti pressioni fisiche e psicologiche per convincerli a offrirsi volontariamente). Il tutto avvenne con le regole di un vero e proprio mercato degli schiavi. Un mercato di carne umana: giovani da sfruttare fino alla consunzione. È significativo ciò che scrive, già nel 1942, in una circolare l’Obergruppenfuhrer Oswald Pohl: «L’impiego della manodopera deve essere completo, nel vero senso della parola, al fine di ottenere il massimo rendimento… Il tempo di lavoro non ha alcun limite. La sua durata dipende dalla struttura del lager… Tutte le circostanze che possono abbreviare il tempo di lavoro devono essere ridotte al massimo. Spostamenti e pause di mezzogiorno soltanto per mangiare, che portano via tempo destinato al lavoro, sono vietati… Il direttore di fabbrica è corresponsabile per i danni aziendali o economici e gli insuccessi… Deve essere ampliato l’impiego di guardie a cavallo, cani da guardia, torri di controllo mobili e ostacoli mobili». Secondo un’analisi riferita al febbraio 1944, gli IMI furono utilizzati in diversi settori produttivi, con una netta prevalenza dell’industria pesante. I dati parlano chiaro: il 56% fu impiegato in imprese minerarie, metalmeccaniche e chimiche; il 12% in edilizia; il 10,8% nei settori energia, trasporti e comunicazioni; il 10,6% in altri comparti industriali, compreso quello alimentare; mentre solo il 6% in attività agricole o similari. In circostanze particolari, ma non infrequenti, gli IMI vennero anche utilizzati per rimuovere le macerie delle città bombardate, e qualcuno ci lasciò la vita. Il lavoro, nella maggior parte dei casi, era durissimo: in cambio di ore e ore di fatica, sotto la ferrea sorveglianza dei nazisti, gli internali ricevano un misero vitto e (non sempre) una paga in lager-mark, una moneta che circolava solo nei campi, ma non aveva alcun valore legale all’esterno. Sulle condizioni di lavoro è significativo l’orario: è tremendo, turni di 12 ore con una sola mezz’ora d’interruzione per cibarsi con una zuppa di rape. Un esempio: la sveglia al campo 1011, dove si costruiscono carri armati e componenti degli aerei, viene data alle 2-2.30 di notte. Fino alle 5.30 si svolge l’appello all’aperto, poi la colonna di forzati si mette in marcia, scortata dagli addetti alla sicurezza della ditta. Chi non è perfettamente allineato o non mantiene il passo, per qualunque motivo, viene segnalato al comandante del campo, un maresciallo tedesco, il quale gli nega la razione giornaliera di pane e in più lo fa bastonare. Il ritorno avviene alle 18; prima di andare a dormire, si beve un litro di rancio caldo di rape e si mangia un pezzo di pane, un filone di pane di circa 200 grammi viene suddiviso tra sette prigionieri con un bilancino, con pochi grammi di margarina, salame o marmellata .
Le fabbriche, le aziende, le fattorie e gli uffici che comprano gli schiavi sono autorizzati ad allestire alloggiamenti o piccoli lager nelle vicinanze dei posti di lavoro. Nascono in tal modo migliaia di centri. I lavoratori coatti fanno parte di quelli che la burocrazia definisce Arbeitskommandos, gruppi di lavoro . Restano isolati dagli altri, sorvegliati giorno e notte, e vengono sfruttati fino al midollo. Molti muoiono per l’esaurimento conseguente alla fame che riduce la loro resistenza al lavoro forzato, altri si ribellano e vengono subito fucilati.
In questo scenario orribile, i nazisti hanno anche modo di lamentarsi. Gli italiani vengono dipinti come lazzaroni, pigri, gente che non ha voglia di lavorare, che trova ogni scusa per darsi ammalata. Alcune testimonianze al riguardo (ma ve ne sono molte altre, dello stesso tenore): «Alla miniera David, su quarantadue lavoratori dichiaratisi malati e visitati dal medico, soltanto cinque lo erano veramente. Il medico di Cels dichiara che la maggior parte di coloro che si danno malati vuole solamente allontanarsi dal posto di lavoro. A Lausitz un lavoratore tedesco si è visto assegnare sette italiani per lavori stradali.
Il tedesco lavorava nonostante il freddo mattutino e il sudore della fatica, mentre gli italiani, con il colletto rialzato, le mani nelle tasche dei pantaloni o del cappotto, saltellavano su un piede e sull’altro, infreddoliti, intorno all’uomo che lavorava.
Questo pregiudizio e fanatismo anti-italiano è alimentato ad arte dalla propaganda nazista. Gli IMI, quando attraversano un villaggio per recarsi al lavoro scortati dalle guardie, vengono spesso insultati dalla popolazione civile, dileggiati con sputi e lanci di pietre, minacciati. Per i tedeschi gli italiani sono «traditori», «badogliani», «vigliacchi», «maiali», «vermi» e altre amenità del genere. Il disprezzo è profondo e condiviso.
In questa scala dell’orrore tra i prigionieri di guerra (escludendo ebrei , zingari e altre «razze» da eliminare) gli italiani occupavano il penultimo gradino: sotto di loro c’erano solo i russi .
LE VITTIME
La vita nei lager era durissima . La fame, il freddo, la pesantezza del lavoro, le violenze dei tedeschi, la mancanza di assistenza medica provocarono tra gli internati migliaia di morti. In mancanza di informazioni certe si stima che la deportazione costò la vita a circa 50 mila persone.
La maggior parte dei prigionieri visse il periodo dell’internamento letteralmente come un inferno. Alla fine delle sofferenze il bilancio fu deprimente: circa 20 mila morti nei lager – in base alle informazioni tedesche – una cifra che dovrebbe essere certamente incompleta; circa 5.400 internati morti o dispersi nella zona di operazioni dell’esercito sul fronte orientale; circa 13.300 che persero la vita nell’affondamento delle navi da trasporto; fino a 6.300 trucidati, senza tener conto dei caduti in combattimento si tratterrebbe già di 45 mila morti .
Particolarmente significativo è il caso di Dora , la «fabbrica più crudele d’Europa», un’immensa officina scavata nel cuore della montagna, dove si producevano le terribili V2, i missili a cui Hitler aveva affidato le ultime speranze di vincere la guerra. In queste officine i turni sono di 12 ore, giorno e notte, e dalle gallerie non si esce mai… la distruzione fisica dei prigionieri avviene attraverso il lavoro bestiale e l’alimentazione ridotta… Muoiono in media 200 prigionieri al giorno. “Ogni mattina” racconta un sopravvissuto “assistiamo alla raccolta dei morti e al loro trasferimento. Vengono caricati confusamente su carriole o vagoncini, con la testa penzoloni e le membra consunte da cui sporgono spaventosamente i muscoli irrigiditi per ì crampi o per la paura di una morte infame, senza conforto e assistenza. Talvolta dal mucchio spunta una testa con le ossa sporgenti e gli occhi che escono dalle orbite. Uno spettacolo che diventa per noi una visione crudele e indimenticabile, perché si ripete ogni giorno. Molti prigionieri vengono assassinati per punizione: un nonnulla e si finisce sulla forca .
Le cifre della mattanza sono impressionanti: dal 28 agosto 1943 all’aprile 1945, sui 60 mila prigionieri di circa venti nazioni che hanno popolato l’intero complesso di Dora , i morti furono oltre 20 mila. La situazione nei lager si fece particolarmente grave verso la fine della guerra, quando da Berlino partì l’ordine di cancellare le tracce della loro esistenza , distruggendo i documenti, le strutture e facendo scomparire i prigionieri. La decisione di Hitler colpì anche gli IMI, molti dei quali persero la vita in esecuzioni di massa. Come a Hildesheim, popolosa città della Bassa Sassonia, dove le vittime furono oltre 200. «I prigionieri» vengono radunati in una baracca , i nazisti li interrogano e li malmenano, dopo di che scelgono i condannati all’impiccagione che a gruppi di tre o quattro, vengono fatti salire su un tavolo. I carnefici pongono loro il cappio intorno al collo, e altri rovesciano quel tavolo su cui le vittime stanno ritte, le mani legate dietro la schiena, molte con un pezzo di legno in bocca per non gridare. Appena terminato con quel gruppo ne avanza un altro, mentre altri prigionieri, nell’attesa di morire, prelevano i cadaveri, li spogliano e li gettano in una fossa in cui si trovano già altre vittime della Gestapo o delle SS. Il massacro dura tutta la notte alcuni vengono uccisi anche con un colpo di pistola alla nuca.
LA LIBERAZIONE
Gli IMI furono liberati in momenti differenti . La liberazione dei lager avvenne in tempi diversi, con l’avanzare dei fronti, già nel 1944 in Ucraina e Prussia, per lo più tra il gennaio e i primi di maggio del 1945 in Polonia e Germania e prima ancora nei Balcani. Come è noto, esisteva l’ordine di Hitler e di Himmler di non lasciare tracce appariscenti dei lager, come a Treblinka, o perlomeno di evacuarli uccidendo i prigionieri, per non fornire al nemico prove dei crimini. Per fortuna, nella maggior parte dei campi le guardie fuggirono all’approssimarsi dei liberatori o non fecero in tempo a eseguire l’ordine. In alcuni campi vi furono eccidi .
I prigionieri vennero liberati dai soldati alleati (o si liberarono da soli, fuggendo dai nazisti man mano che avanzava il fronte di guerra).
La liberazione fu un momento di grande gioia. Per gli IMI significava la fine delle sofferenze e il ritorno a casa. Ma il rimpatrio non fu immediato. La gran parte di essi, prima di potere rivedere l’Italia, dovette attendere il proprio turno, anche a lungo, nei territori dell’ex Terzo Reich; non più da schiavi di Hitler, ma pur sempre con le fatiche e i dolori di venti mesi di prigionia sulle spalle. Moltissimi non riuscirono a rientrare prima di settembre, ottobre e anche oltre. Sulla vicenda pesarono il caos seguito alla guerra, i problemi di organizzazione e il colpevole disinteresse mostrato dal governo italiano. Gli IMI furono, sostanzialmente, abbandonati a se stessi .
La dispersione degli IMI liberati ritardò il loro raduno in centri di rimpatrio organizzato. Parecchi tentarono di raggiungere l’Italia per proprio conto… A complicare le cose, oltre al gran numero, era anche il particolare stato giuridico degli IMI, ignorati dalla Croce Rossa, classificati dagli inglesi come “displaced persons” (Dp, profughi, apolidi) e dagli americani come “prisoners of war” (Pow), prigionieri di guerra… Nell’estate del 1945 le vie e i mezzi di comunicazione erano ingolfati da milioni di soldati vittoriosi e sconfitti, ex prigionieri e profughi tedeschi e di tutte le nazioni, che si incrociavano da Est a Ovest, da Ovest a Est, da Nord a Sud e da Sud a Nord, con ponti di fortuna, ferrovie rabberciate, ingorghi stradali, carenze di mezzi di trasporto.
L’Italia, combinata com’era all’indomani del 25 aprile, non poteva fare molto, e fece ancora meno, per recuperare quel “milione” (come lo valutavano allora) di ex internati. Il rimpatrio si svolse soprattutto nell’estate e nell’autunno 1945, da Germania, Francia, Balcani e Russia. Quello dalla Germania fu particolarmente caotico e presentò ritardi per ingolfamenti e scarse sollecitazioni delle nostre autorità. Nessun rappresentante ufficiale del nostro governo si presentò nei nostri lager liberati. Dunque, nessun palese interesse dell’Italia e i “liberatori” alleati si meravigliavano di non vedere commissioni italiane tra le molte straniere in visita ai campi liberati .
Il rimpatrio, nella maggior parte dei casi, fu gestito dagli angloamericani e avvenne su camion o via treno, lungo percorsi spesso tortuosi e accidentati. Varcato il confine, gli IMI provenienti dalle regioni del Reich venivano solitamente dirottati verso Pescantina, nel veronese, dove era stato istituito un centro di smistamento e accoglienza , e dove si organizzavano i trasporti verso le destinazioni interne al paese.
Nella sostanza, nel caos dell’Italia del primo dopoguerra, la tragica vicenda degli IMI fu presto dimenticala. Di loro non si occupò e non parlò nessuno, istituzioni comprese, come se non fossero neppure esistiti. Sugli altari finirono i partigiani, i protagonisti della Resistenza in armi, ma la resistenza attiva degli ex internati, che pagarono il loro «no» al fascismo con venti mesi di durissima prigionia, non venne riconosciuta. All’indifferenza che li aveva accolti in patria gli IMI stessi risposero con il silenzio, facendo scattare un vero e proprio meccanismo di rimozione della realtà, come se quello che era successo, fosse capitato a qualcun altro.
Dal loro esilio volontario e da una resistenza attiva, anche se disarmata, dispersi al loro arrivo in Italia e politicamente non organizzati (e quindi non interessanti e rappresentanti un’incognita), essi furono accolti nel 1945 con indifferenza e diffidenza, se non con ostilità, da un popolo che non voleva più sentir parlare di guerra e stava in bilico tra il postfascismo della Resistenza, prerogativa dei partigiani e del Corpo di liberazione, l’anticomunismo strumentalizzato dalla “Guerra fredda” e l’agnosticismo comodo di chi sta alla finestra .
Delusi, gli ex internati ammutolirono, chi per decenni e chi per sempre, rimossero il “trauma del reticolato” convinti quasi dell’inutilità del sacrificio loro e dei caduti. Del resto – sottolinea i nazisti l’avevano previsto: “Se mai uno di voi sopravvivrà, qualunque cosa dirà, non gli crederanno”. E non parlando gli internati, gli “altri” li ignorarono: la stampa, l’opinione pubblica, la scuola, la generazione dei figli. Le ragioni che precipitarono questa vicenda nell’oblio furono molteplici. Detto, della volontà dei protagonisti di tacere, in qualche modo di farsi dimenticare, non si può non evidenziare il peso che in tutto ciò ebbe la politica: i diversi schieramenti in campo esaltarono (giustamente, ma anche appropriandosene per il proprio interesse) i meriti della lotta partigiana, quella con le armi, e il ruolo decisivo dei liberatori americani. Degli IIM, questo magma così composito di vite sperse, nessuno sapeva bene cosa farne, dove collocarli politicamente. Non solo, gli internati militari, nonostante il sacrificio personale e il fatto che fossero, nella stragrande maggioranza, dei «ragazzotti» trascinati loro malgrado in una guerra che non avrebbero voluto combattere, rappresentavano il passato, l’ombra lunga del regime che si stendeva sulla nuova Italia. «Gli IMI erano infatti i resti dell’esercito, prima protagonista e poi vittima della guerra fascista. Metterli al centro della scena avrebbe implicato una piena assunzione, nell’identità nazionale, del peso della guerra fascista e della quasi totale acquiescenza con la quale era stata portata avanti, senza entusiasmo, ma nemmeno senza apprezzabili forme di dissociazione, fino al disastro finale, ai bombardamenti, alla fame, all’8 settembre. Sono queste, probabilmente, le ragioni di fondo per cui per decenni gli internati militari hanno fruito, tutt’al più, dello status di “assenti giustificati” o di protagonisti di una “resistenza passiva”. L’enorme massa dei reduci è prima di tutto una massa di ex combattenti e, soprattutto, nel biennio 1943-45, di non combattenti. Nella guerra cui l’antifascismo militante ha affidato la rinascita morale e politica della nazione – guerra anche civile, di valori di civiltà , armata e sanguinosa – i militari internati non ci sono.
Giorni e mesi dopo la gloriosa insurrezione… finalmente tornano sulla scena. Gli stracci che li coprono sono i resti delle lacere divise del regio esercito, quelle che indossavano al momento della cattura, due anni prima. Incarnano la tragedia di un passato che nessuno vuole rivedere. Sono figure di difficile interpretazione; una marea, ma frantumata in mille rivoli, priva di un’immediata spendibilità politica .
L’oblio è durato a lungo, gli studiosi hanno cominciato ad occuparsi degli IMI solo dalla metà degli anni Ottanta: tardi, ma forse ancora in tempo per far conoscere questa pagina di storia e rendere il giusto omaggio ai «600 mila» che, con il loro sacrificio, contribuirono a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese.
(Fonte http://www.lager.it)
LA SEGUENTE DOCUMENTAZIONE E’ PARTE DELLE RICERCHE DELLO STORICO CLAUDIO SOMMARUGA ANCH’EGLI INTERNATO MILITARE ITALIANO
LAGER: SPERANZE DI VITA (C. Sommaruga, 1997/2002)
Come si verifica nei forni crematori, un corpo umano di 65-85 kg ha un potere combustibile di 1940 kcal/kg e una riserva calorica complessiva rispettivamente di 116/160.000 kcal delle quali solo 68-92.000 disponibili fino al decesso per inedia, ma-lattia, trauma psichico, verso il residuo inalienabile di 48-68.000 kcal (da sangue, cer-vello, organi vitali, residuo muscolare, ecc.) e un peso finale di 25-35 kg.
Per vivere un uomo deve rifornirsi, da cibo e ambiente, di 1450-1800 kcal/giorno (metabolismo basale a 35-42°C) necessari in assoluto riposo, fin verso le 2300 per una operatività minima e le 2800-7000 per lavori fino a pesantissimi.
Se il bilancio termico in/out, tra rifornimenti da cibo e ambiente e consumi da atti-vità e dissipazioni, è deficitario, si sopravvive consumando le riserve caloriche dispo-nibili (principalmente muscolari) fino all’indebolimento e morte verso le condizioni critiche minime vitali.
La sopravvivenza col digiuno assoluto non supera gli 8-10 giorni (se si beve) e i 3-4 giorni in ambiente secco senza bere.
NOTA: valori medi per un uomo alto 1,70m e del peso di 70kg.
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– Riserva calorica (Ru) unitaria (potere combustibile) = 1940 kcal/kg di peso
(RL) lorda = 136.000 kcal
(Rd) disponibile (=57% RL) = 78.000 kcal
(Rf) residua indisponibile (30 kg peso)= 58.000 kcal = decesso!
– Razione “Lager IMI” (A) 870 <1200 <1750 (+ <300 per lavoro) kcal/giorno (senza integrazioni)
– Consumo calorico (metabolismo basale) =1736 kcal/giorno (= tessera annonaria)
(metabolismo + attività minima) = 2300 “ (di cui 1/3 spesi per la gravità)
(C) (metabolismo + lavoro leggero) = 2800 “:
(metabolismo + lavoro pesante ) > 3000 “
– Deficit calorico (D) = A – C = >1600 “
MARGINE DI VITA = Rd : D
senza integrazioni (furti di cucina e patate, borsa nera, pacchi da casa, assistenza SA-IMI, rifiuti)
– programmata = 78.000 kcal :ca 300 kcal/g = 270 giorni = 9 mesi
– effettiva = 78.000 kcal : >1600 kcal/g = < 50 giorni = <2 mesi
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Caso del “coatto” IMI 750/368 (S .Ten Claudio Sommaruga) altezza 1,82m, peso 81 kg)
(AEL/KZ (Gestapo/Buchenwald) K