Partigiani di Collesano

Articolo di Nino Cicero da Espero , rivista del comprensorio Termini-Cefalù-Madonie,  che riferisce i risultati di una esemplare ricerca sul contributo dei siciliani alla  Resistenza e alla lotta di Liberazione,  dettata dalla esigenza di un recupero “partecipato” della memoria storica. 

Un partigiano siciliano è quasi un ossimoro. Di solito si tratta di soldati nati e vissuti al nord. Gente del nord, di quelli che al primo vagito hanno ingoiato la nebbia e non l’hanno più abbandonata. In questa storia è difficile pensare al sole di Sicilia. Eppure c’è.

Ogni guerra ha i suoi ritornelli e tra i tanti “O partigiano, portami via, …” lo cantano i più e a giocare con le associazioni vengono in mente occupazione, liberazione, aprile, guerra civile, armistizio, angloamericani, tedeschi, Salò, via Rasella, Fosse Ardeatine… Viene in mente pure che la guerra è uguale. O forse no. È il drammatico gioco delle parti, quello sì. Presupposti diversi, guerre diverse, protagonisti diversi. Eppure, alla fine, rimane solo la conta dei morti. Uomini. Tutti. E che siano uguali non c’è dubbio; che mutino condizioni e certezze ideologiche, anche lì non c’è dubbio. E ancora, senza dubbio, c’è che senza i partigiani la guerra avrebbe avuto un esito diverso. L’Italia, in fondo, venne liberata (anche) grazie a loro. Per primi ad entrare, anticipando gli Alleati, in molte città, su, nel profondo Nord.

Tra questi, tra i partigiani del nord, in lotta al nord, strano che sembri, ci sono stati pure dei siciliani. E tra i siciliani, pure i madoniti e tra di essi cinque collesanesi (due, Salvatore Gulino e Angelo Indulsi, opereranno nell’ex-Jugoslavia accanto ai soldati del maresciallo Tito). Nomi e cognomi (in ordine alfabetico): Rosario Gargano (le cui notizie, dei cinque, sono in numero maggiore: ci occuperemo in questo articolo solamente di lui, lasciando ai successivi due la storia degli altri sei), Illuminato Liberti, Salvatore Passafiume, Vincenzo Sabbatino, Salvatore Sapienza. Operano in zone diverse, ma escono tutti (tranne Sabbatino di cui le notizie raccolte, purtroppo, si limitano a ben poco) dagli archivi piemontesi. Che ve ne siano altri, mobilitati in altre regioni o in altri teatri di guerra, è probabile, ma ad oggi non ci risultano.

In Val Sangone solo Rosario Gargano. Contatto Mauro Sonzini, vicepresidente dell’Anpi locale e mi faccio descrivere il luogo. Che è in provincia di Torino.

La valle (Giaveno è il centro di riferimento) è piccola, chiusa tra Pinerolo e Susa: sono le montagne più vicine al capoluogo e che durante la Resistenza si raggiungevano con un trenino, di quelli che oggi sanno di collezionismo andato a male, una sorta di tramvia che sa di bianco e nero. Partenza: stazione di Porta Nuova.

In quelle montagne, dal settembre del ’43, prende piede una banda armata, a struttura militare, che coordinerà anche la 41a “Carlo Carli” (una brigata Garibaldi) e la divisione “Campana” di Giustizia e Libertà legata al Partito d’Azione. Il richiamo della lotta partigiana in quelle valli è forte e i numeri creano legami. Gli uomini della banda diventeranno presto circa 3.000 e la promozione sarà sul campo: la stessa banda diverrà brigata prima e divisione (“De Vitis”) poi, iniziando la liberazione di Torino con l’occupazione delle fabbriche Fiat di Mirafiori e del Lingotto (e che lasceranno a liberazione avvenuta).

La valle, di fatto, è una zona franca, libera dalla presenza stabile dei tedeschi e dei repubblichini di Salò, che scenderanno lì in occasione di eccidi (come quello di Cumiana), di incursioni e di rastrellamenti (pesanti quelli del 10 maggio e del 27 novembre 1944). È territorio partigiano in guerra, comandato dal maggiore Milano, da Sergio De Vitis (quello della denominazione della divisione), dai fratelli Nicoletta e Tallarico, da Felice “Campana” Cordero di Pamparato, da Nino Criscuolo, da Carlo Asteggiano, da Eugenio Fassino (il padre del politico Piero), da Giuseppe Falzone, da Guido Usseglio Mattiet (detto il “Prufe”, il Professore: era medico e docente universitario) e da Guido Quazza.

Rosario Gargano nasce (13 novembre 1920) e muore (30 ottobre 2009) a Collesano. Un quasi novantenne che si è portato dietro la “sua” storia. La moglie Cenzina (Vincenza) ricorda davvero poco. E così anche il fratello Salvatore che, rosso in viso, ci accoglie in casa. La foto di Rosario è lì accanto a quella del terzo fratello, Domenico (oggi deceduto) che dalla guerra passò alle fila dei Carabinieri.

Il partigiano della Val Sangone (alla fine della tragica giostra, nominato “partigiano benemerito”) sta sul campo per circa cinque anni e in quei cinque anni vede scivolare sulla propria pelle tutta la parabola del conflitto. Chiamato alle armi nell’ottobre del 1940, entra in Aviazione. Lustra la matricola numero 1243 e stanzia in Puglia, all’aeroporto di Bari. Fino al ’43 prende parte alle operazioni di guerra nel Mediterraneo, per poi passare in Abruzzo. Quando viene annunciato l’armistizio si trova a Lucca, in Toscana, ma non riesce a prendere contatto con i partigiani locali. I tedeschi lo braccano e lo arrestano. La sua prigione sarà il castello di Rivoli, su in Piemonte.

Il giorno dell’armistizio, quella fine d’estate, è la rottura. Sarà dichiarato “sbandato” fino alla Liberazione (25 aprile 1945). Lì attorno, in quelle valli piemontesi, c’erano il verde delle montagne (che non erano poi tanto diverse dalle sue Madonie) e i partigiani. Ritornare giù non era semplice e bisognava scegliere. I soldati furono lasciati soli dai comandi: niente ordini precisi, ma solo confusi. Né un sì, né un no e non c’è peggior cosa per un soldato che essere lasciato libero, da solo con la propria coscienza, mentre il vecchio alleato tedesco diventava il nuovo nemico e stava lì accanto. Alcuni aderiranno a Salò e continueranno a combattere con i nazifascisti. Altri saranno impacchettati e spediti in Germania, ai lavori forzati (i cosiddetti IMI, gli Internati Militari Italiani: tra i collesanesi, per citarne alcuni, Salvatore Ficcaglia, Giovanni Failla, Filippo Mogavero, Sebastiano Puccia, Vincenzo Di Marco). Altri ancora staranno dall’altra parte, con gli angloamericani, con un pezzo di esercito e di Corona. Principalmente saranno monarchici (scontenti pure loro del re) e repubblicani, quelli del Patto di Salerno. E saranno cattolici, liberali, socialisti, azionisti, comunisti. Tutti col denominatore comune dell’antifascismo. Anzi, dell’antinazifascismo. Soldati che restano e soldati che vanno. Ed al centro la guerra d’occupazione che per altri è guerra civile.

Rosario Gargano resta. Fugge dal castello con un compagno di cella (primavera del 1944) e si mescola tra i partigiani rivolesi nella zona di Coazze (è documentato che, tra gli altri, suoi compagni d’arme furono Giuseppe Rebecchi e Giuseppe Lazzarotto, detto “Frisot”). Entra nella banda di Eugenio Fassino e proprio uno dei suoi vice, Augusto Piol (Medaglia d’Oro alla Resistenza), prende informazioni sul suo conto presso la famiglia Picelli (con cui il collesanese è in contatto). Atto dovuto, per evitare infiltrazioni di spie tra le fila della Resistenza.

Rosario Gargano rimane in Val Sangone fino al 24 maggio 1944 (secondo i dati in possesso dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea e del Centro di documentazione sulla Resistenza in Val Sangone); infatti, a seguito del pesante rastrellamento che i tedeschi iniziano il 10 maggio, le formazioni partigiane si sgretolano e il partigiano collesanese filtra le maglie nazifasciste che hanno circondato la valle e si dirige verso la Val di Susa. Attraversa la Dora Riparia e sull’altro versante trova riparo. Lì opera la banda del Colle del Lys (futura 17a brigata “Felice Cima” della 2a divisione Garibaldi: uno dei commissari di brigata ancora oggi vivo e che risiede a Cremona è Enrico Fogliazza detto “Kiro”). Vi rimarrà fino a liberazione avvenuta (7 giugno 1945).

Il 26 giugno 1944 prenderà parte all’attacco al seminario di Rivoli, per subire un nuovo rastrellamento il 2 luglio. In quell’occasione si ritrova a Favella insieme a due russi. Secondo il suo diretto racconto, riportato in “Testimonianze sulla Resistenza in Rivoli”, i tre avevano in consegna un prigioniero tedesco e venne loro incontro una ragazza del luogo per avvertirli dell’avanzata dei tedeschi (che di lì a poco avrebbero rastrellato la zona). I tre si separano: i russi si dirigono verso il pendio della montagna insieme al prigioniero senza Rosario Gargano. Che non può seguirli per via di una distorsione al ginocchio. Ha con sé solo un fucile e la ragazza. Individuato un nascondiglio tra le rocce montagnose, la stessa ragazza, prima di correre via, ne copre la via d’accesso con rami e fogliame. E proprio lì i nazisti piazzeranno una mitragliatrice e stazioneranno per delle interminabili ore. Solo sul far del tramonto i tedeschi smobiliteranno la postazione ed il partigiano collesanese potrà ritornare in formazione.

E ancora: nel rastrellamento successivo (novembre 1944), in Val di Viù, con tutte le ossa ed i muscoli in ordine, riuscirà a resistere da solo all’avanzata di una squadra tedesca. A stare al suo racconto infatti, coprendo la ritirata dei suoi compagni di battaglia, posizionerà il mitragliatore tra una parete rocciosa ed un precipizio e da dietro un masso bloccherà il cammino dei nazifascisti fino all’ultima munizione. Terminate le cartucce, ripiegherà pure lui, ricongiungendosi al suo gruppo in territorio francese (valle dell’Avérole).

Al suo rientro dalla guerra prese (per poco) la via della campagna, come i tanti suoi coetanei, ma non si interessò di politica, a differenza di molti altri partigiani. E intanto giunsero l’arruolamento nel corpo della Polizia di Stato (appuntato dal 1950 al 1975) a Roma e le due concessioni (prima e seconda) della Croce al Merito di Guerra.

Questa la storia breve di un combattente. Di più: di un partigiano collesanese.

 

Antonino Cicero

 

 

(Il racconto degli altri partigiani collesanesi continuerà nella seconda e terza parte che saranno pubblicate nei successivi due numeri della rivista. Nella terza parte si parlerà anche del gruppo dei partigiani degli altri comuni madoniti)

 

 

Il presente articolo è stato pubblicato su:

Espero – Rivista del ComprensorioTermini – Cefalù – Madonie

Anno VI, n. 62-64, Giugno-Luglio-Agosto 2012, p. 6

Questa voce è stata pubblicata in ANTIFASCISMO, memoria e contrassegnata con , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.