Internati Militari Italiani ovvero la RESISTENZA DEGLI ITALIANI IN GERMANIA

Pubblichiamo  la bellissima nobile lettera di Roberto Taverna con la quale  rende pubblico un significativo scritto del 1964, del padre  deportato in Germania che giustamente  ascrive  alla Resistenza Italiana il rifiuto della stragrande maggioranza dei soldati italiani al nazifascismo a costo della deportazione e della prigionia in condizioni terribili in molti casi fino alla morte nei lager nazifascisti. Roberto Taverna al quale mi lega una antica affettuosa amicizia, è stato fra i protagonisti della battaglia per la democrazia e il diritto allo studio negli Atenei negli anni che seguirono la rivoluzione culturale del 1968 in Italia. a.f.

Pubblico questo testo, scritto nel 1964 dal mio Papà, riguardante la sua prigionia in Germania. Nel 1943 era in Croazia come militare (non di carriera) e dopo l’8 settembre fu fatto prigioniero dei Tedeschi. Furono due anni terribili. Ma non si piegò ai voleri dei nazifascisti. Tuttavia chi leggerà queste pagine tremende non troverà gli accenti violenti e volgari che oggi invadono così spesso il dibattito a qualunque livello. Chi ha combattuto davvero e ha resistito alla ferocia di chi allora sembrava invincibile guarda l’umanità e il suo doloroso cammino con gli occhi dell’uomo che sa essere libero, giusto e rispettoso degli altri.
Nonostante il dolore che provo ogni volta che rileggo queste pagine le pubblico:


perché i giovani sappiano,
perché tutti ricordino,
perché non si ripeta mai più,
perché sia diverso il ricordo di chi ha combattuto e resistito contro quella aberrazione e di chi ne è stato o protagonista o complice o spettatore inerte.
La libertà di oggi è frutto del sacrificio dei primi, ma è patrimonio di tutti.
Difendiamola uniti.

RESISTENZA DEGLI ITALIANI IN GERMANIA 

Nel marzo del 1944 dopo un penoso viaggio durato otto giorni, in vagoni piombati (come di consuetudine) provvisti di stufette ma non di combustibile, affollati bestialmente sì che non era possibile fare alcun movimento, con circa dieci centimetri di acqua ghiacciata sotto la schiena per tutta la durata del viaggio, mentre il «bugliolo» degli escrementi passava di mano in mano, con la legge che chi lo usava se lo teneva, la mia salma veniva scaricata alla stazioncina di Sandbostel – Soltau (Hannover) per essere avviata, a piedi, allo Stammlager XB distante una quindicina di chilometri.
Dopo sei mesi di Polonia (campo di Benjaminow – District Warschau denominato prima Stammlager 333, poi Offlag 73), pesavo circa 40 kg. Dal 3 settem¬bre 1943 non avevo notizie dei miei fino al 15 febbraio 1944 quando su una carto¬lina di un altro internato vidi una riga di pugno di mia moglie. Noi potemmo scrivere una cartolina soltanto 1′ 11 novembre 1943. Dicevo: «Sono prigioniero dei tedeschi…» La parola prigioniero fu cancellata dalla censura tedesca! Ci fu¬rono distribuiti moduli per scrivere in misura di due al mese e moduli per pacchi. Di una quarantina di pacchi speditimi dai miei famigliari, ne ho ricevuti sei, uno dei quali svuotato di ogni suo contenuto dalla sera alla mattina, penso ad opera degli ufficiali italiani addetti all’ ufficio posta. I tedeschi non prendevano nulla dai nostri pacchi. Altri cinque mi furono consegnati tutti insieme il 5 aprile 1945: erano quasi completamente inservibili perché rimasti giacenti all’ ufficio del campo, mentre io stavo tirando le cuoia e nessuno mi aveva cercato. Da questi particolari si può capire come funzionò il servizio pacchi. I moduli lettera erano di 24 righe e bisognava seguire rigorosamente le istruzioni e guardarsi da espressioni sospette: tuttavia queste frasi di mio padre in una lettera dell’11 dic. 1944 sfuggirono alla censura! «Noi stiamo bene; si vive un po’ pericolosamente! ma affrontiamo serenamente il crudele destino che ci han preparato i nostri cari Signori direttori d’orchestra! di pifferi! Ammirando in te e compagni di sventura il carattere d’Italiano sano di mente e di cuore…» Quanto coraggio mi diedero queste parole di mio padre che aveva sopportato senza un lamento 30 mesi di trincea nella guerra 1915-18 dal Carso al Trentino al Piave e che ora — come seppi al mio ritorno — era dovuto fuggire alla macchia per evitare l’ arresto da parte dei nazi-fascisti.
Quando arrivai a Sandbostel il mio abbigliamento era ancora quello della cattura, estivo e ridottissimo: ero senza scarpe e calzavo zoccoli di legno. A Ben¬jaminow avevo trasformato i miei stivali in qualche chilo di patate per sostenermi in una dissenteria durata una quarantina di giorni. A questo proposito occorre dire che nei lager tedeschi quella che si definiva infermeria era soltanto una ba¬racca che ospitava medici internati, dove però non c’ era ombra di medicinali né di assistenza. Gli ammalati, anche gravissimi non ebbero mai un trattamento anche minimamente differenziato. I morti erano portati via nudi, su carri da letame.
I tedeschi ostentarono per noi ogni forma di inumano disprezzo: la loro espres¬sione più gentile era «Traditori». La cosa ci lasciava indifferenti; sarebbe oltretutto stato sgradevole essere rispettati da un complesso così poco rispettabile. Individualmente qualcuno ebbe ammirazione per noi; ma lo diceva di nascosto per paura. Paura giustificata se si pensa che il Capitano Lohse, soprannominato «Armistizio» fu impiccato dai suoi soldati alla vigilia della nostra liberazione, solo perché nella zona erano arrivate le «SS». A Benjaminow il maresciallo addetto alla conta, dopo aver contato gli «aderenti», diceva: «E ora andiamo a contare gli Italiani». Non so nulla della sua fine.
Un trasferimento voleva dire disagi immensi e implicava la perdita di quei pochi stracci e strumenti di fortuna che il prigioniero, con ingegnosa pazienza e con molta parsimonia, riusciva a procurarsi. Le perquisizioni, particolarmente accanite, i bagni con disinfestazioni (docce che passavano di colpo dal gelido al bollente; camere-asciugatoio ad aria caldissima, poi fuori, nudi, sotto la neve, per qualche mezzora a cercare i nostri stracci) erano operazioni terribili. Se ne occupava la Gestapo.
I tedeschi cercarono fin dal primo giorno di farci aderire in ogni modo, con mille insidie psicologiche e torture fisiche e morali, a firmare dichiarazioni come la seguente:
«Dichiarazione d’impegno»:
«Aderisco all’idea repubblicana dell’ Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del duce, senza riserve, anche sotto il comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell’ Italia repubblicana fascista del duce e del grande Reich germanico».
In cambio di ciò avremmo avuto il pane, le sigarette ed altro. Era un pane sporco; ma per Natale, traditi da una debolezza d’ animo più che di corpo, molti ne mangiarono; e per tre mesi furono lasciati nel nostro campo a… farci invidia. Scoppiarono baruffe e gli «optanti» erano cacciati con male parole quando si presentavano alle nostre baracche. Molti di noi sdegnarono anche di posare gli occhi su quel foglio: e così, minuto per minuto, in quell’ angoscia mortale, passarono sui nostri corpi cadaverici, sempre più secchi, sempre più gelidi, diciannove mesi di prigionia; cinquecentosettanta giorni di fame; mentre in tutti i campi una buca delle lettere era pronta ad accogliere domande furtive di «optare» o per l’ esercito o per il lavoro. Ogni tanto arrivavano dei messi della repubblica sociale ad insultare la nostra miseria; oppure commissioni sedicenti di assistenza che finivano sempre con il ritornello del lavoro. Devo dire, ad onor del vero, che dalla repubblica sociale arrivò anche, nel gennaio 1945, un carico di gallette e latte con¬densato: ne toccò a ciascuno in ragione di un Kg. e mezzo di galletta e una scato¬letta e mezza di latte. Fummo incerti se rifiutare quel soccorso, ma non ci parve di averne il diritto.
Al campo XB (Sandbostel) la persecuzione delle adesioni si interruppe, per quaranta giorni, con 1′ epidemia di tifo petecchiale: il campo fu sprangato, sigillato e i tedeschi non si fecero più vedere. Ed era stravedere, in quella terribile mi¬naccia, una certa macabra allegria dipinta su gli occhi di tutti, per 1′ assenza dei nostri aguzzini. Dalle torrette però le sentinelle vigilavano ed erano pronte a sparare.
Ai primi di novembre 1944 fui trasferito, come «indesiderabile» al campo Offlag 83 di Wietzendorf. Questo trasferimento poteva costarmi la vita: non ricevetti più posta né pacchi. Avevo, parlando con un amico, pronunciato espres¬sioni poco benevole per la monarchia: un capitano dei carabinieri mi aveva sentito e mi denunciò al comando (cosiddetto) italiano del campo, tenuto da un certo colonnello Angiolini, proveniente da Rodi. Fui processato e mi dovetti difendere; e poiché il comando italiano fu incaricato di compilare gli elenchi dei trasferendi, il mio nome fu tra i primi. Wietzendorf, si vociferava, era un campo di smistamento al lavoro forzato, previa trasformazione degli internati militari in «civili». Era un campo dichiarato inabitabile da una commissione di tedeschi, ed era servito per lo smistamento degli italiani dopo la cattura. Là ero arrivato ai primi di ottobre del ’43 per ripartirne poi alla volta della Polonia. Il campo di Wietzendorf constava di 16 blocchi, che erano costruzioni basse con il pavimento in terra battuta, quasi senza luce e senz’ aria, ma gelide, per gli spifferi che entravano da una quantità di fessure; erano inadatte ad ospitare dei porci. Non disponevamo neppure di un metro quadrato di spazio per ciascuno; lunghe stalattiti di ghiaccio continuarono a pendere sui nostri corpi assiderati e sui nostri sguardi atterriti per tutto il terribile inverno 1944-45; gli allarmi aerei, quasi continui, impedivano le distribuzioni della ormai ridottissima razione, incapace di riscaldarci anche per pochi minuti; nell’ intestino si formavano piccole pietre che si evacuavano, con sofferenze atroci ogni otto-dieci giorni; non crescevano più le unghie, né i peli; i nostri crani erano stranamente rimpiccioliti; la tuberco¬losi faceva strage. Stetti mesi e mesi disteso, immobile su quei luridi «castelli», per risparmiare quelle poche forze che i lunghi appelli stremavano; dopo di quelli rientravamo intirizziti, senza fiato, disperati; la sera passava in lugubri maledi¬zioni; eravamo ormai degli agonizzanti. La mattina del 4 aprile 1945 fummo fatti uscire, repentinamente, dai blocchi 9, 10, 11, 12, «mit Bagage» e fatti passare nel precampo, sotto immensi tendoni: molti di noi non si reggevano in piedi; gli ufficiali tedeschi, al completo, avevano assistito alla manovra inspiegabilmente taciturni e guardavano i nostri corpi vaganti con un’ insolita ombra di compas¬sione negli occhi. Il Colonnello Testa ci rivolse un sermone a base di «abbiate fede» e «abbiate coraggio» che ci parve perfino eccessivo. Il fatto era che un tenente tedesco, fuggito poi dal campo gli aveva sussurrato con espressione ansiosa: «Finito… tutto finito… il campo. Non posso dirle altro»; e il capitano Jahn lo aveva preso in disparte dicendogli: «Se vi danno 1’ordine uscite, ma buttatevi per terra appena fuori dal cancello». Pare che fosse venuto 1’ordine di farci fuori e che fortuite circostanze e la paura di rappresaglie, minacciate dalle radio alleate, lo abbiano, all’ ultimo momento, impedito.
Scrive il Testa, nel suo libro Wietzendorf: «l’ indomani, all’ appello, coloro che hanno dormito sotto i tendoni sembrano lividi fantasmi; sono fradici di brina…».
Fummo liberati il mattino del 21 aprile durante una tregua concordata tra tedeschi e americani per farci uscire dal campo e raggiungere le linee alleate, do¬po aver passato giornate infernali, in ottanta per stube, tra bombardamenti di ogni genere (i tedeschi, ultima finezza, si erano fatti scudo del nostro campo, piaz¬zandogli attorno mortai potentissimi a sei canne) dopo anche una finta libera¬zione il 18 aprile con ritorno di SS inferocite. Molti non poterono incamminarsi. Ai più la disperazione, unita alla speranza, diede forza. In un bosco, in prossimi¬tà di Berghen, ci venne incontro una jeep montata da ufficiali in divisa scozzese, poi autocarri americani: era la liberazione. La libertà 1′ avevamo costruita giorno per giorno, dentro ai reticolati.
Una settimana a Berghen; poi rientrammo al campo di Wietzendorf, che divenne: «Italian Prisoner of War X – Offlag 83». Gli inglesi non capirono nulla della nostra condizione né del nostro sacrificio; per poco non ci classificavano collaboratori dei tedeschi. Il 16 luglio 1945 scrivevo a mia moglie: «per fortuna io non ho mai sperato nulla dalla mia azione, ma è certo che questa trascuratezza nei nostri riguardi suscita nei più un risentimento che distrugge tutto il frutto di questi due anni». Tutti i paesi mandavano commissioni a far rimpatriare i prigionieri; dall’Italia non venne nessuno e gli inglesi ce lo rimproveravano! come se fosse una colpa nostra.
Così si compiva una vicenda tristissima che aveva visto 1′ assoluto disinteresse di tutti alla nostra situazione; nessuno, dico nessuno, pronunciò una parola o fece un intervento a nostro favore. La croce rossa che a Lubecca aveva montagne di pacchi e ne aveva distribuito a tutti, a noi Italiani non diede nulla; nessuna potenza si dichiarò nostra protettrice; nessuna autorità si mosse, come nessuno si mosse in difesa degli ebrei, o dei russi condannati alle più dure fatiche tra le quali emergeva quella di trainare, larve d’uomini, carri pieni di sterco.
Oggi a vent’anni di distanza, quella realtà che fu così tragica sembra perfino comica; scegliere la morte lenta per non firmare una carta? Che cosa è una carta? Cipriano dice che tra i primi cristiani molti portavano in tasca una carta, un certificato che essi avevano sacrificato agli dei pagani, che non erano cristiani, per aver salva la vita: erano detti «libellatici». I Quattromila ufficiali superstiti di Wietzendorf che non accettarono di firmare quella carta furono consapevoli del loro dovere di fronte all’umanità travolta dalle tenebre della viltà, dalla tempesta della violenza. Nessuno può immaginare lo strazio di una lunga con¬sunzione per fame né altre pene di una così dura prigionia, ma nessuno potrà neppure immaginare la grande fierezza di quei quattromila straccioni che disob¬bedivano alla grande potenza armata del terzo Reich e la grande felicità nel vederli impotenti a sottometterli. «I potenti possono sì minacciare ma non comandare».
I mali peggiori della prigionia furono: la mancanza di notizie da casa; l’assenza del minimo filo d’erba in quell’inferno di filo spinato; il sudiciume perpe¬tuo; le interminabili discussioni sulle adesioni; la follia degli affamati, dei quali ciascuno lamentava di aver avuto la parte più piccola, guardando la parte degli altri con gli occhi sbarrati dall’ invidia; quel continuo parlare di cibi e di mangiare; quel rimescolare per ore nei gamellini vuoti come se l’ anima stesse tutta sulla punta di quel cucchiaio di stagno impotente. La promiscuità pressante, continua; la mancanza di acqua; le spie; gli interpreti altoatesini che con compiaciuta brutalità, comunicavano gli ordini dei comandanti tedeschi; i bambini tedeschi che ci insultavano.
Ci ha confortato l’amicizia di tutti coloro che avevano la nostra stessa fede; la parola coraggio scritta nelle lettere che venivano da casa; la volontà di non chiedere nulla; la certezza di non aver avuto nulla. Ma soprattutto il conforto di scoprire la libertà di una coscienza che sa dir di no, anche se ogni sera, per tante interminabili sere, sa di coricarsi con la morte al fianco.

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