RACCONTI BIOGRAFICI DI INTERNATI NEI LAGER NAZISTI

RACCONTI BIOGRAFICI DI INTERNATI NEI LAGER NAZISTI

SALVATORE CASCIO, FRANCESCO PAOLO BARRANCOTTO, LEONARDO PINTACUDA

di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro

Il pericolo sempre in agguato di un becero revisionismo che da più parti tenta di mistificare e misconoscere fatti storici di fondamentale importanza per la comprensione del nostro passato, del nostro presente e della natura umana artefice di gravi atrocità, ci obbliga, oggi come sempre, a rileggere il nostro passato, a ricercare le”vittime” di una delle pagine più atroci che si sia abbattuta sull’umanità, a dar voce alle storie e ai ricordi individuali per ricostruire la memoria di quella che la grande Storia ha etichettato con il termine “sterminio nazista”.

L’art. 1  della Legge 20 luglio 2000, n. 211 (pubblicata su GU 31 luglio 2000, n. 177), con cui il Parlamento Italiano ha riconosciuto il 27 gennaio “Giorno della Memoria”, ci invita a ricordare non soltanto la shoah, ma anche gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte.

E in queste pagine vogliamo dare voce proprio a quei  militari siciliani arrestati dopo l’8 settembre nei vari fronti di guerra (in seguito all’armistizio firmato da Badoglio con gli Alleati il 3 settembre 1943 a Cassibile), che, posti nella illusoria scelta di alternativa “il nazifascismo o la prigionia”, scelsero quest’ultima. Vennero così internati, dopo un lungo e massacrante viaggio in vagoni ferroviari spesso destinati al trasporto degli animali o in nave in condizioni disumane, nei campi di lavoro nazisti, classificati inizialmente come prigionieri di guerra e, dopo il 20 settembre 1943 (data in cui Hitler intervenne affinché la condizione giuridica degli italiani fosse ridotta da “prigioniero” ad “internato”), come Internati Militari Italiani (IMI), con il beneplacito della RSI che li considerò militari temporaneamente dislocati all’estero, in attesa di impiego. Considerati dai tedeschi come traditori, non usufruirono nemmeno del sostegno della Croce Rossa Internazionale che garantiva ai prigionieri di guerra assistenza ed ausili. In seguito, con gli accordi del 20 luglio 1944 fra Hitler e Mussolini, i militari internati vennero smilitarizzati dalla RSI e riconosciuti come lavoratori civili.

Ciò ha consentito lo sfruttamento senza limiti dei soldati, sottoufficiali e ufficiali italiani internati (il loro numero ammonta a oltre 700mila), che vivevano nei lager nazisti in una condizione di schiavitù, senza alcuna tutela internazionale (la categoria IMI era ignorata dalla Convenzione di Ginevra sui Prigionieri del 1929), obbligati al lavoro forzato, che venne presentato al mondo e agli stessi interessati come “lavoro volontario/obbligato”. Vennero impiegati nelle fabbriche, nella ricostruzione delle case e delle linee ferroviarie, nei lavori agricoli, nella costruzione di fortificazioni, nello sgombero di macerie, nel carico e scarico merci, nelle miniere di carbone  e di ferro, nell’industria bellica.

Di fatto la produzione industriale e agricola della Germania degli anni del secondo conflitto mondiale è  fortemente dipendente dal lavoro di milioni di lavoratori stranieri prigionieri di guerra, deportati politici ed ebrei, costretti a lavorare in condizioni disumane (metodico, sistematico e scientifico sfruttamento di prigionieri che decretò l’”orgoglio” della nazione tedesca nella ricostruzione del dopoguerra). .
Purtroppo gli IMI, nonostante il numero consistente, ancora oggi non vengono degnamente ricordati: la loro memoria viene spesso sacrificata di fronte al ricordo dei deportati politici o razziali morti nei campi di sterminio. Lo storico tedesco Gerhard Schreiber li  definisce “traditi, disprezzati, dimenticati“, e in effetti questi protagonisti della storia dello sterminio nazista  vissero per tanti anni una sorta di oblio e di isolamento, abbandonati alle loro storie individuali che spesso si riducevano ad un silenzio rassegnato. La ragione del silenzio in cui furono relegati per decenni, quasi considerati  deportati di serie B, è da ricercare, oltre che nella vergogna di una nazione, nella vasta portata e nella mancata chiara definizione del fenomeno, nella difficoltà di identificazione del loro ruolo, della loro identità, del numero preciso: troppe incertezze e approssimazioni che rivelavano  l’insufficienza e l’incapacità di un governo, sia nella conduzione della guerra che nella sua conclusione.

Solo nel 2006 la Repubblica Italiana si ricorda di loro, istituendo la Medaglia d’Onore ai deportati e agli internati nei lager nazisti destinati al lavoro coatto.

Purtroppo non tutti riuscirono a ritornare nei loro paesi (circa 50mila morirono nei lager); sul fronte orientale, per esempio, la liberazione fu drasticamente marcata da atroci eccidi da parte dei tedeschi: l’esecuzione di circa 200 soldati tra il 27 e il 28 marzo a Hildesheim, la fucilazione di circa 30 soldati nel mese di aprile a Bad Gandersheim, e ancora di 150, nello stesso mese a Treunbrietzen.

E’ esaustiva , a tal proposito, la pubblicazione di Loreto Di Nucci, storico specialista, in Ultimi fuochi di ferocia nazista. Il massacro degli internati militari italiani di Hildesheim nel marzo del 1945, in «Ricerche di Storia Politica», a. XIV, n.s., n.1, Bologna, il Mulino, 2011, che analizza una delle più importanti forme di violenza nazista successiva alla capitolazione di Hitler. In un articolo riprodotto in AA.VV. “Schlage, fast nichts zu Essen und schwrere Arbeit. Italienische Zwangsarbeiter in Hildesheim 1943-45”, Hildesheim, Verlag, 2000 si legge:In particular, it focuses on the case of a group of Italian prisoners of war, who had been captured by the Nazis and detained in several concentration camps. While the American and British air forces were bombing the main industrial and urban German sites, provoking the collapse of industrial production and, ultimately, the breakdown of the regime, Nazi frustration increased and degenerated into indiscriminate violence against «internal enemies», such as looters, foreigners and, specifically, Italians, their formers allies who had been redefined as traitors. Arrests, deportations and mass executions multiplied, as in the case of Hildesheim, a tiny city in Lower Saxony, where approximately two hundred Italians were executed”.

Riportiamo di seguito le testimonianze di Salvatore Cascio, Francesco Paolo Barrancotto e Leonardo Pintacuda, in rappresentanza dei tanti internati nei campi di lavoro come IMI.

 

SALVATORE CASCIO

 

luogo di nascita: Polizzi Generosa

data di nascita: 15 dicembre 1919

data di internamento: 12 settembre 1943

motivo: IMI

luoghi di internamento: Hildesheim – Lager Bezeichnung – Arbeith K.D.o. 6099 M. Stammlager XI B – Deutschland,

lavoro coatto: Tishler vicino Hannover

luogo e data della registrazione: Polizzi Generosa, 29 dicembre 2011

durata: 120’

Nome del Ricercatore: Carmelo Botta e Francesca LoNigro

 

Trascrizione intervista

Arriviamo a Polizzi Generosa, a casa del Signor Cascio Salvatore in un pomeriggio freddo di dicembre. Ci accoglie la nipote che,  chiamando dalle scale “Zù Totò!”, ci indirizza al secondo piano di una’antica palazzina nei pressi della piazza principale del paese. In una stanzetta calda e accogliente il figlio Angelo ci presenta Salvatore che, seduto su una poltrona, attaccato ad una stufetta con un plaid sulle gambe, ci attende con ansia e con simpatia. Ci saluta con un largo sorriso e ci invita a sedere. Ha voglia di parlare, di raccontare, di mostrare tutti quei documenti, fogli, fotografie, oggetti che ha gelosamente conservato e custodito in una carpetta e che ha preparato per l’incontro.

Gli spieghiamo il motivo della visita, ma egli sa bene perché siamo lì. Aspetta le nostre domande e vuole rispondere.

Adesso accendiamo questo registratore, così la sua voce verrà registrata per poi trascrivere l’intervista. Innanzitutto, qual è il suo nome?

Mi chiamo Salvatore Cascio e sono nato il 15 dicembre 1919

A Polizzi Generosa?

Si, in questa casa

Ci vuole parlare della sua esperienza di militare durante la seconda guerra mondiale e della sua prigionia in Germania?

Mi ripete la domanda? Piano, piano. Non posso parlare bene.

Come mai è andato a finire in Germania?

Ah, come mai sono andato a finire in Germania? Per mezzo di Vittorio Emanuele III, quando lui fece l’armistizio l’8 settembre 1943.  Lei vuole sapere “la mezza vita dove camminai”. Ora le racconto e le faccio vedere tutte le mie cose. Io partii da Polizzi il 19 marzo 1940, a venti anni e fui chiamato a Torino come recluta. In questa città sono rimasto per il periodo del servizio militare. Il 10 giugno 1940 cominciava la guerra contro la Francia  e fui inviato verso il fronte occidentale. I primi paesi dove sono stato li ho scritti qua.

(Ci mostra un foglietto sul quale sono riportate le località nelle quali è stato operativo).

Queste sono le località che girai nelle Alpi. Sono tutte scritte qui: Valle Stretta, Valle delle Rocce,  Valle Rosnio, Forte Bramafam, Punta Guglia Rossa,   Passo Mulattiera, Guglia della Menzo, Rocca di Melnie, Tre sorelle, Punta Nera, Lago Baltoier. Queste sono le montagne che abbiamo attraversato. E  le ultime sono queste qua:  Sara Bersana, poi Savignana sul Rubicone. Quando siamo arrivati qua, nel mese di giugno, il lago Bersaglieri, dove c’era il fronte della Francia,  era ghiacciato (mostra le foto: 22 giugno 1940: 12 giorni dopo che Mussolini aveva dichiarato guerra). Sul fronte occidentale era tutto neve e ghiaccio (mostra una foto di gruppo di militari, con la data e la località sul retro:  lago Bersaglieri  1940. I ricordi sembrano diventare realtà: comincia ad indicare i luoghi).

Qui e’ Bardonecchia e qui è l’alto della Suta, dove cominciavano le stelle alpine sul fronte occidentale.

(Con frenesia comincia a cercare fra il mucchio di documenti che va selezionando e tira fuori un pezzetto di carta trasparente ripiegata in quattro che, a mo’ di busta, conserva un’importante reliquia).

La vedete questa qua? Indovinate cos’è? Una stella alpina di 70 anni fa. L’ho raccolta io questa qua.  (Tirata fuori delicatamente dalla carta una minuscola stella alpina essiccata, la mostra ai presenti, facendola girare da mano in mano, con estrema cura).

Era il 13 agosto 1940, sul fronte occidentale c’erano quelli con la pinna, gli alpini, in prima linea. La mia compagnia era accampata con la tenda a Bardonecchia. Avevamo il compito di portare i viveri a quelli che erano in prima linea. Portavamo i viveri sulle spalle, dato che i muli non potevano passare con la neve ghiacciata. C’era un passaggio stretto e i francesi con i mortai colpivano proprio quel punto preciso dove dovevamo passare noi. Un soldato stava attraversando quel passaggio proprio davanti a me: una cannonata lo ha squartato. Toccava a me ed io me la sono fatta franca: la sorte! Ad ogni modo, dopo un periodo è arrivato l’ordine della mia compagnia di Bardonecchia di levare le tende. In quella sera di luna piena, abbiamo preparato gli zaini, con gallette, carne in scatola, roba da bere e caricati a spalla: bisognava andare a piedi a dare il cambio a quelli che erano in prima linea.

Il suo battaglione che numero era?

Aspetti che glielo dico: 92^ reggimento fanteria Casale, 1^ battaglione, 1^ compagnia. Tutto con il numero 1. C’è scritto. (Così dicendo, mostra il foglio sul quale sono riportati questi riferimenti). Sentiamo una voce altissima e colpi di cannone, il nostro tenente andò a vedere cosa era successo: la Francia si era arresa, non c’era più guerra e quindi non dovevamo andare più in là. Il tenente ci venne incontro e con commozione ci baciò uno per uno, dicendo “Andavate tutti a morire!”

A quel punto siete tornati indietro?

No, il mio plotone  con il reggimento doveva dare ugualmente il cambio a quelli che si trovavano in prima linea, però non si sparava più. Noi per prendere un po’ d’acqua, facevamo con la baionetta un buco nel ghiaccio e dissetarci.  Siamo stati là circa otto giorni: in una tenda stavamo in otto per stare più stretti,  perché faceva freddo. Chi era più coraggioso piangeva. Prendevamo la legna per cuocere il rancio e per scaldarci in attesa di nuovi comandi.

A Bardonecchia è arrivato l’ordine che i militari di ogni reparto dovevano  portarsi  a Savignano sul Rubicone. Mentre prima ero nel 92^ reggimento, adesso ero comandato nel 12^.

So che lei è stato anche in Grecia. Mi racconti anche questa esperienza.

Da Savignano siamo andati a Imola. Lì il comandante in fureria mi mandò a chiamare. Mi volevano tutti bene, sembrava che avessi il miele! Ad ogni modo, mi dicono <<Cascio, ti vuole il comandante  in fureria>>. Quando arrivai là, mi disse: <<Vuoi fare il mio attendente?>>. Risposi: <<Si, se lei me lo chiede, lo faccio>>. E me la sono passata meglio. Dopo mesi di questa vita, in cui avevo il permesso di uscire ed entrare quando volevo (sembrava fossi suo fratello da come mi rispettava!) arrivò l’ordine di smontare da Imola e fare gli zaini perché si doveva partire. Sopra i treni per Bari. Ho conservato pure il nome della nave. Sul foglio matricolare c’è scritto.

Può darmi il suo foglio matricolare?

(Salvatore si rivolge al figlio Angelo, sempre presente, affinché gli prenda il foglio matricolare. Con estrema precisione dà al figlio dettagliate indicazioni per la ricerca: all’interno di una carpetta celeste con su  scritto “Servizio Militare”, dentro una busta bianca quadrata.

Leggiamo il foglio “Tale presso il 12^ Reggimento Fanteria mobile. Tale imbarcatosi a Bari con la motonave Città di Savona il 14 marzo 1941. Tale sbarcato a Durazzo il 15 marzo 1941”).

Quando vi chiedevano di partire, vi informavano sulla destinazione?

No, non sapevamo niente noi. Ci siamo imbarcati sulla nave, e da Bari siamo approdati a Brindisi, perché c’era molto vento e la nave si muoveva troppo. L’indomani si ripartì. E siamo sbarcati a Durazzo e da lì a Valona in Albania, dove abbiamo messo le tende. Dopo alcuni mesi siamo arrivati alla frontiera con la Grecia a Iannina, dove c’era un lago.

Si ricorda il periodo? Era prima dell’8 settembre?

Si, adesso non ricordo bene la data.

Cosa successe a Iannina?

A Iannina abbiamo proseguito, non ricordo con precisione per quanti mesi, la memoria a volte non mi accompagna, ho 92 anni (sorride con tono ammiccante). Ad ogni modo, c’era la guerra con la Grecia e noi cominciammo a camminare ed attraversare varie località. Noi stavamo sempre in campagna. Io ora non ho più presenti tante cose, perché ci spostavamo sempre da un posto all’altro.

Ha avuto conflitto a fuoco contro i greci?

Abbiamo sparato ai ribelli. Ricordo che c’era una strada così con tanti alberi, ci siamo levati gli zainetti;  io, i compagni e i bersaglieri siamo rimasti a guardare gli zainetti di tutti. Ad un tratto i mortai cominciarono  a sparare, puntando proprio sul punto dove eravamo noi. Eravamo 20 soldati. Ci siamo distesi a terra, così, con il fucile spianato davanti (mentre racconta simula i gesti e le posizioni, con l’enfasi di chi sta rivivendo con emozione quegli istanti drammatici). Io avevo  un soldato di qua e  un soldato di là, mi trovavo al centro; non erano della mia compagnia, erano bersaglieri; eravamo mischiati, di ogni tipo. I mortai spararono e colpirono proprio quel punto preciso (si richiude su se stesso, come se stessero arrivando i colpi). Io messo così , sentivo le schegge delle bombe che cadevano, sentivo fare boom. Mi girai al lato e vidi il mio compagno morto al mio fianco, lui là ed io qua. Nel mentre sentii fare un altro rumore e vidi l’altro al mio lato morto, nel mezzo stavo io. Mi sono sentito scoppiare la bomba proprio su di me e i rami e le schegge sopra di me. Era il ‘43 e io penso ancora chiaramente le parole che mi sono detto: <<Ma che faccio, muoio!>>. Mentre mi dicevo queste parole mi accorgevo che ero sano; vado per prendere il fucile e mi accorgo che era spaccato a metà, mi sono alzato e sono scappato. Vedevo le schegge, senza che io fossi toccato. Avevo il pastrano come mangiato dai sorci, perché le schegge lo avevano bucherellato, ma io un graffio non l’avevo. Essendo il mio fucile rotto a metà, ho preso il moschetto del bersagliere morto, la pistola e mi sono organizzato così. Di una ventina che eravamo, solo sei siamo riusciti a salvarci, la maggioranza morì.

Poi ci fu l’armistizio e lei fu arrestato dai tedeschi  il 12 settembre del 43, come riporta il suo foglio matricolare,  e fu portato in Germania. Ci parli della sua esperienza in Germania.

Ora le racconto quella della Germania. Sto pensando una cosa!

(Prende altri foglietti, due  libretti di lavoro in lingua tedesca con l’aquila e la svastica, uno verde con la scritta <<Deutsches Reich – Areitsbuch fur Auslanderb >> e uno rosso con la scritta << Deutsches Reich – Vorlaufiger Fremdenpass N. 72378 S/43>>, qualche vecchia foto e qualche oggetto. Tira fuori da un involucro una piastrina di metallo, la piastrina di prigioniero, divisa in due parti: in entrambe sta  inciso << Stalag XB 196739>>. La mostra, posizionandola, automaticamente, sul petto, raccontando di essere ritornato con quella piastrina al collo che per due anni, dal 12 settembre 1943 al 15 agosto 1945 (anno del suo rientro dalla prigionia) lo ha identificato. Continua a mostrare le foto del Lager Bezeichnung – Arbeith K.D.o. 6099 M. Stammlager XI B – Deutschland, in cui si trovava, e una cartolina indirizzata al fratello).

Questa è la baracca dove dormivamo quando eravamo prigionieri; qui è dove ballavamo quando sono arrivati gli americani. Questa è la lettera che ho scritto  al mio fratello maggiore, Cascio Antonino: <<Carissimo fratello, ti informo che la mia salute è ottima, come spero di te, Mamma e Gandolfo. Ieri con gioia ho risposto alla lettera di Mamma, ero molto in pensiero, ma adesso sto più contento, voglio sperare che adesso si riceve più spesso le notizie. Un forte abbraccio te Gandolfo Mamma e fratelli. Cascio Salvatore>>.

Ma come è arrivato in Germania?

Quando ci fu l’armistizio, i tedeschi ci disarmarono e siamo andati a piedi per tante località.

(Trova, dopo una convulsa ricerca, un piccolo foglio ingiallito sul quale sono segnate una serie di località greche, con a fianco  un numero che riporta il chilometraggio percorso a piedi ogni giorno: S. Nicola, Amphilokia, Missolungi, Lepanto, Amplissa, Gravia).

Abbiamo percorso circa 40 chilometri al giorno e poi abbiamo preso il treno che ci ha portato in Germania. Appena arrivati, siamo scesi dal treno e i soldati tedeschi ci vigilavano con i fucili e i cani come se stavamo rubando qualcosa. Ma noi non stavamo rubando niente! C’era un locale grande, una caserma; abbiamo deposto gli zaini e tutto ciò che avevamo. Io non avevo niente, del tipo rivoltella, coltello; ci hanno fatto alzare a poco a poco, perché eravamo tanti. Provvisoriamente ci hanno registrato, assegnandoci quel numero che ci segnò per tutto il tempo della permanenza in quel campo. Siccome avevamo  capito che saremmo stati impiegati come schiavi per lavori duri, alla domanda <<Che mestiere fai?>>, rispondevamo tutti : <<Contadino>>, nella speranza di un lavoro all’aperto.

Come eravate sistemati nel campo?

Nella baracca dormivamo in venti: c’erano 10 castelli con  i materassini, avevamo tutti un posto.  C’era una stufa a legna, ma faceva molto freddo. Le stanze erano tante.

Che tipo di lavori svolgeva?

Io e altri quattro prigionieri siamo stati portati dove  si costruivano baracche di legno: dovevamo aiutare a montare listelli, assi e pareti. Siccome io sapevo lavorare il legno, dato che era il mio mestiere prima del servizio militare, organizzavo i miei compagni. Io dicevo <<Nino, prendi questo martello e lo porti a quello>>, <<Peppe prendi questa cosa e la porti a quello>>. Io parlavo italiano, loro non mi capivamo, ma ci capivamo lo stesso. Mi fecero fare il caposquadra.

Cosa vi davano da mangiare?

Un filone di pane di due chili per otto giorni, da dividere in quattro. Minestra, cavoli, rape, con poca verdura e molto liquido.

 Ha qualche ricordo particolare?

Ricordo che un giorno, all’alba, quando ho visto fuori tanta neve, ho pensato <<Oggi non  andiamo a lavorare!>>. Ma così non è stato, lavoravamo anche con tanta neve.

Eravate solo italiani?

No, c’erano russi, polacchi, di tante nazioni, internati lì per lavorare; c’erano tante officine meccaniche, ma noi non andavamo lì, noi lavoravamo fuori. Un giorno venne un camion, ci misero sopra e ci portarono a caricare materiale per costruzioni da un posto all’altro, in campi dove c’erano uomini e donne. Il lavoro era particolarmente duro! Un giorno un compagno disse <<Picciotti, chi ha un mestiere, anziché scaricare vagoni e fare questi lavori duri, è meglio che lo dichiari!>>. Allora io fui il primo a dire che facevo il falegname. Non passarono due giorni che, ci chiamarono. Eravamo in quattro: due ci arrangiavamo con il legno, altri meno. Ci misero sull’autobus e ci portarono nella fabbrica di legname a Hildesheim, in un laboratorio. C’era un signore anziano che si chiamavamo Antonio, bravo di mestiere e mi hanno assegnato a lui e un altro compagno anziano. C’erano macchinari che qui non avevamo. C’era una stanzetta dove ci levavamo e posavamo il pastrano prima di iniziare a lavorare, e una stufetta a legna.

Come eravate vestiti?

Con gli stessi abiti militari con  i quali siamo arrivati, loro non ci hanno dato vestiti. Ci fornirono il libretto di lavoro e ci passavano qualcosa di soldi.

 Come si svolgeva la vostra giornata di lavoro?

Avevamo il biglietto per tutta la settimana per l’autobus. Io tutte le mattine arrivavo, salivo per la scaletta e cominciavo a lavorare. Nella fabbrica c’era il padrone, la sorella e altri due ragazzi. Col tempo ho cominciato ad usare le macchine, Non c’erano più militari che ci sorvegliavano. Noi quattro andavamo e venivamo da soli con l’autobus. Quando arrivavamo in fabbrica e scendevamo dall’autobus timbravamo la cartolina in una macchina grande e quando finivamo bollavamo la cartolina e salivamo sull’autobus per il ritorno nella baracca.

Mangiavate in fabbrica?

Si, lì ci arrivava il rancio. (rivolgendosi al figlio) Devo dirgli pure quella del rancio che ci arrivava un po’ di più?

(Ad un cenno di assenso del figlio, continua).

Mi stimavano davvero, ma mangiare sempre poco. Io andavo a prendere la marmitta all’orario.

(Comincia a gesticolare, indicando con le mani la disposizione degli edifici che conosceva molto bene e ricordava con molta chiarezza).

Come qua c’era il laboratorio, la strada, là le case e lì c’era la stazione. Quando potevamo passare durante l’orario di riposo, uscivamo fuori dalla porta, passavamo all’altro lato, andavamo sotto i vagoni dei treni quando scaricavano le patate, nella speranza che ne scivolasse qualcuna sui binari, che prendevamo e mangiavamo arrostita.

Perciò, stavo dicendo che lavoravo con un signore anziano con i baffi. Io ero qua nella macchina che facevo buchi,  e questo signore più in là che con la pialla faceva spessori. Nel fare la manovra, un nodo della manica della giacca gli impedì il movimento e il braccio stava andando sotto la  macchina. Quel signore cominciò a gridare. Io, quando mi sono accorto, ho spento la mia macchina, e sono andato a spegnere l’interruttore della sua macchina, salvandogli il braccio. Quel signore mi ha baciato. Questo episodio l’ha raccontato pure alla sorella del titolare.

(Il figlio, ridendo, interviene):  E questo gli ha procurato il panino con la marmellata

Com’era il rapporto con i prigionieri di altre nazionalità?

Ottimo, anche se parlavamo lingue diverse. Ma ci capivamo lo stesso. Dei russi si diceva che non erano bravi, ma io ne frequentai tanti, e posso dire che erano brave persone, anzi, se un russo trovava tanto di sigaretta (indica con il pollice e indice il mozzicone di sigaretta) e c’era un italiano che fumava, la divideva con lui; se la trovava l’italiano, la nascondeva.

Le bastava quanto le davano da mangiare?

No, ero giovane e il cibo era poco e non mi bastava mai. Per buscarmi un pezzettino di pane in più mi ero industriato: facevo delle piccole cassettine con gli avanzi di legno che trovavo, poi un signore mi faceva le cerniere e le barattavo in cambio di cibo. Una cassettina di queste sono riuscito a portarla a casa.

Vuole raccontarci qualche episodio particolare?

Si, (comincia a ridere). Un giorno, mentre stavo lavorando, è venuta la sorella del titolare, che era un poco zoppetta, insieme ad una ragazza più piccola, e mi chiamava: <<Kal, Kal>>, perché Cascio non lo sapevano dire bene, e mi fanno segno di seguirle. Comincia a parlare. Io non vi posso dire la parlata come la diceva lei, vi posso dire come la capivo io: io domani vado a Berlino, la fraulein signorina fa una lettera e te la consegna; tu  la devi portare al caporeparto della baracca. Le dissi ja, ja, avevo capito tutte cose, ma non avevo capito niente. Mentre se ne andavano nel corridoio, la ragazzina si girava e mi faceva gesti di saluto. Quello a cui avevo salvato il braccio mi ha detto di stare attento con queste persone. Io devo dire la verità, ho capito Berlino, ho capito lettera, ma la precisione non l’ho capita. Dopo pochi giorni  arrivo alla stazione e trovo la ragazza;  salgo sull’autobus (se c’erano i tedeschi noi dovevamo stare in piedi, se non ce n’erano, potevamo sederci) e mi siedo, lei dietro di me, gira la mano e mi dà la lettera, dicendo che devo portarla al maestro Muller, il caporeparto (con il termine “maestro” Salvatore intende “Meinster”, che erano capisquadra, capireparto, civili esentati dal servizio militare, spesso invalidi o vecchi). Io ho fatto finta di niente perché c’erano i tedeschi e avevo paura che mi dessero legnate, perché facevano così. Ho nascosto la lettera e l’autobus è partito. Ad ogni modo, quando arrivo alla baracca, cerco il maestro, ma non c’era. Pensando che fossero cose d’ufficio, lo cerco a casa nel campo e dò la lettera alla signora, la moglie che non poteva vedere noi italiani, ci portava odio. Quando arrivo in baracca quella notte, pensando alla lettera capisco di avere sbagliato, provando tanta paura da non dormire. L’indomani, mentre sto bollando la cartolina, alla fine del lungo corridoio vedo affacciare Muller che comincia a fare con il dito così (solleva imperioso l’indice, sferzando l’aria). I tedeschi hanno questo vizio. Non sapendo cosa fare, io sollevavo le mani con le palme rivolte verso l’alto, stringendomi le spalle. Quando sono arrivato lì, invece di darmi botte, mi fece entrare nel suo ufficio e mi diede un po’ di panini imbottiti, facendomi capire che quando arrivavano quelle lettere  dovevo  consegnarle solo a lui. Io gli ho fatto capire che ora avevo capito tutto e che avrei fatto così. Gli ho fatto capire anche a gesti che i panini erano buoni e che il rancio che ci mandava era poco. Il giorno dopo ci arrivò la marmitta piena piena di minestra. Sono stato, senza saperlo, un messaggero amoroso.

L’hanno mai picchiato?

No, un graffio così  non l’ho mai avuto, ma so di altri prigionieri picchiati.

 Non ha mai visto picchiare i militari? Nemmeno quando era in Grecia?

No. In Grecia ho visto solo due omicidi bruttissimi: uno quando i militari che (con i quali) facevo ricognizione hanno preso un ribelle:  il tenente l’ha fatto sedere sulla sedia e gli ha sparato con la pistola; un altro l’ho visto in un paese: un uomo bendato, messo davanti un muro, fu fucilato da un plotone di soldati i cui fucili erano caricati metà con cartucce vuote e metà con cartucce piene . Un terribile gioco!

Com’è finita poi in Germania?

Sono arrivati gli americani. Fu bombardata la stazione, fu distrutto tutto il quartiere dove lavoravamo e noi non siamo andati più a lavorare. Ho visto durante i bombardamenti uomini che sollevavano morti e li caricavano sui camion. Prima di arrivare gli americani, tanti tedeschi con le mitragliatrici vennero per ucciderci, ma non ci trovarono: ci siamo nascosti nei sotterranei e ce la siamo fatta franca. Ci volevano fare trovare morti. Gli americani sono arrivati  con i cioccolatini e altre cose buone.

Come siete ritornati a casa?

Ci rimpatriarono. Ci hanno portato prima a Bologna. Per arrivare a Polizzi ci volle un mese (26 agosto del 45). Il congedo illimitato l’ho avuto il 25 ottobre 1945 a Palermo.

Ci racconta del suo arrivo a Polizzi?

Si, sfinito, dimagrito, sporco e distrutto sono arrivato qui sotto, al piano terra dove voi siete entrati e dove ora c’è la sartoria. Mi aprì mio fratello Antonino, quello della lettera, che quando mi ha visto mi ha detto : <<Ma tu chi sei? Che vuoi?>>. Non mi aveva riconosciuto, cinque anni e mezzo di servizio militare mi avevano cambiato completamente!

 

 

FRANCESCO PAOLO BARRANCOTTO

 

luogo di nascita: Polizzi Generosa

data di nascita:  24 novembre 1921

data di internamento: 12 settembre 1943

motivo: IMI

luoghi di internamento: Osnabruck, nella Prussia orientale, Lager Rezeikonung, numero 32.92

luoghi di lavoro coatto/imprese: minatore e fabbrica di baracche

luogo e data della registrazione: Polizzi Generosa, 29 dicembre 2011

durata: 120’

Nome del Ricercatore: Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro

 

Trascrizione intervista

Superata la piazza principale del paese ci immettiamo sul corso che ci conduce all’abitazione di Barrancotto Francesco Paolo. E’ già buio; una fitta nebbia e una pioggia leggera, l’illuminazione gialla e gli addobbi natalizi rendono l’atmosfera ovattata. Arriviamo, dopo aver oltrepassato una vecchia chiesa ed un’antica fontana, in casa del signor Barrancotto, che ci riceve personalmente.

Ci fa accomodare in un salotto-studio e ci disponiamo attorno ad una scrivania sulla quale ci sono libri, documenti e manoscritti.

Lei lo sa perché siamo qui?

Si, sono stato informato da un amico polizzano con cui ha parlato lei.

Lei è stato insignito con la medaglia d’onore dal Presidente della Repubblica, vero?

Si, in presenza del Prefetto di Palermo.

Allora, se è disponibile, volevamo farle delle domande sulla sua esperienza in Germania, ma, se vuole, può fare un accenno anche al periodo precedente.

Io ho già scritto un libro sulla mia esperienza: “La stanza dei ricordi”. L’ho ristampato tre volte. Lì c’è tutta la mia vita in Germania e quella di altri prigionieri che sono stati con me. Ho scritto un secondo libro che sarà stampato i primi di gennaio.

(Con orgoglio ci mostra la bozza del libro, che si trova sulla scrivania).

Adesso ci interessa la sua testimonianza per dare agli studenti, insieme alle testimonianze di altri reduci dai lager tedeschi,  la possibilità di usufruire di questo patrimonio di memorie che non si deve perdere.

Si, è importante, io ho parlato sempre agli studenti, ho girato varie scuole della provincia di Palermo e di Messina.

Allora, quando è partito militare?

Nel 1941, il 5 gennaio, avevo appena 19 anni.

Quindi a guerra già iniziata

Si, quando sono partito io eravamo in piena guerra. Mio fratello Gaetano è partito prima.

Dov’è stato?

In Piemonte e poi, dopo circa quattro mesi, per raggiungere il mio reparto, 101^ battaglione mitraglieri, sono stato in Albania. Mi caricarono in piena notte su un treno alla stazione di Asti, con lo zaino sulle spalle attrezzato per la guerra: nessuno di noi conosceva la destinazione. Abbiamo fatto una sosta a Bari e, saliti su una nave, abbiamo raggiunto Durazzo.

Sapevate quale fosse il vostro compito e il vostro obiettivo in Albania?

No, ci dissero soltanto che non dovevamo fare amicizia con nessuno, perché albanesi e greci erano nostri nemici. Combattemmo in quei luoghi per circa tre mesi, fino a quando si disse che avevamo sferrato un’offensiva in un centro abitato di nome Crocias.

Come si concluse l’esperienza albanese?

Si sparse la voce che i greci e gli albanesi si fossero arresi e che la guerra l’avevamo vinta noi. Ci rimandarono a casa, dato che, dopo un anno di prima linea, ci toccava un periodo di riposo: una licenza di 15 giorni.

Ritornò al suo paese, quindi. E cosa trovò?

Una situazione di povertà diffusa; mancava il pane e si faceva la fila con la tessera annonaria. Solo qualche piccolo gerarca locale stava meglio.

Dopo la licenza premio, ritornò in Piemonte?

Si, ritornai ad Asti e, dopo alcune vicende, lasciammo l’Italia con destinazione Grecia. Attraversammo la Jugoslavia, la Bulgaria, l’Albania, la Macedonia, per giungere al porto del Pireo, dove montammo le tende e bivaccammo per 15 giorni. La nuova destinazione fu  Rodi, una delle isole conquistate dall’Italia nel 1911. Eravamo 120, 130 reclute. Siamo stati 17 mesi.

Durante tutti questi spostamenti avete affrontato situazioni particolarmente difficili?

Certamente, ma l’esperienza più tragica, che non cancellerò più dalla mia mente fu quella della traversata per l’isola di Rodi: ci sdraiammo sulla nave “Città di Genova” con i giubbotti che ci avevano dato alla partenza, in silenzio. Ad un tratto sentimmo un forte boato, sembrava avessimo urtato qualche scoglio. Ci tranquillizzarono, dicendo che si stava riparando il guasto alla nave. Si sentì un altro boato e sulle nostre teste cominciarono ad incrociarsi spari . Il comandante continuava a parlare di guasto e a rassicurarci. Dopo un paio d’ore di inferno, i fuochi cessarono e la nave riprese la rotta.

Quanto tempo siete rimasti a Rodi?


Circa  quattordici mesi, tra costruzioni di avamposti di guerra, camminamenti e rifugi. La mattina dell’8 settembre, data che poi seppi dell’armistizio, inaugurammo della postazione.

E quando fu arrestato dai tedeschi?

Quella mattina stessa aerei cominciarono a sorvolare i nostri cieli lanciando volantini sui quali c’era scritto che i nostri nemici non erano più gli anglo-americani, ma i tedeschi.

Quindi iniziarono i combattimenti contro i tedeschi?

Sii, loro erano pochi: noi eravamo 47 mila e loro 15 mila. All’inizio avevamo avuto la meglio e li avevamo fatti prigionieri, ma poi ci fu la resa, perché l’esercito, i “capocchi” di là si sono arresi e noi da vittoriosi siamo passati prigionieri.

In che senso? Ci chiarisca questa situazione.

Semplice, i gerarchi presenti sull’isola avevano aderito alla Repubblica di Salò di Mussolini  e quindi l’intera penisola balcanica cadde sotto le forze dell’Asse.

Così siete stati presi prigionieri dai tedeschi.

Non prigionieri, ci siamo arresi; l’esercito nostro si è arreso ai tedeschi dopo questi fatti che vi ho raccontato.

Il suo trasferimento da Rodi in Germania come è avvenuto?

Sugli aerei tre motori fino ad Atene e da lì in treno, con varie soste. Il viaggio verso la Germania durò 27 terribili giorni. Tutto questo perché non abbiamo voluto aderire alla Repubblica Sociale.

In quale città siete arrivati?

A Francoforte, dove fummo immatricolati: ad ognuno di noi venne data una medaglia con un numero inciso.

Lei che numero aveva, se lo ricorda?

18963, come si fa a dimenticare queste cose!

La mia era una domanda retorica.

18963: questo numero sostituì i miei dati anagrafici per tutta la permanenza in Germania

Avevate altri segni di identificazione?

Si, sulle spalle del pastrano e sulla giacca ci impressero con uno smalto rosso fosforescente le lettere “K.G.F.”, che in tedesco significava “prigionieri di guerra”. E anche sui pantaloni, sul gambale sinistro, ci tinsero un triangolo rosso.

Dopo Francoforte, dove è stato?

Mi hanno spedito nei campi di lavoro forzato a Osnabruck, nella Prussia orientale, Lager Rezeikonung, numero 32.92

Arrivati al campo di lavoro, che cosa vi attendeva?

Ci hanno portato nei campi di lavoro, come loro li chiamavano; eravamo 500, sistemati in due baracche di legno, in letti a castello con materassi di paglia; nella baracca c’era una stufa. Tutt’attorno al campo c’erano dieci fili di ferro spinato collegato alla corrente elettrica. I servizi igienici non erano dentro la baracca, erano fuori: a un lato, accanto la baracca, scavavano un fosso, ci mettevano una trave, noi mettevamo i piedi sulla trave e ci accovacciavamo. Una latrina all’aperto. Caldo, freddo, neve era lo stesso.

Eravate solo italiani?

Si, eravamo i russi con i russi, i greci con i greci, di tante nazionalità, non ricordo, c’erano anche americani, inglesi, ciascuno per conto nostro.

Che tipo di lavoro ha fatto lei quando si trovava nel campo di concentramento? Che mansione svolgeva?

Come prigionieri eravamo destinati ai lavori forzati: subito mi hanno portato in miniera, ho lavorato 8 mesi in una miniera di ferro a 1000 metri di profondità, dicevano lì, noi non lo potevamo sapere.

E come si svolgeva la giornata di lavoro? Eravate sorvegliati da uomini armati?

La giornata di lavoro iniziava la mattina molto presto: dalle 7 di mattina fino alle 19, a turni di 12 ore. L’unico vantaggio per noi lavoratori della miniera, vista la fatica delle mansioni, era il cibo più abbondante: 300 grammi di pane, 1 litro di zuppa e 50 grammi di marmellata o di burro.

Ma cosa mangiavate, vi davano solo questa minestra?

Questa, e un pane: quando eravamo in miniera un pane di un chilo e mezzo, per 6 persone, un pane nero, che tagliavamo fino fino, come la carta; noi abbiamo fatto le bilancine con i coperchi delle scatole per pesare i grammi e fare parti uguali. In miniera ci davano anche un litro di zuppa di rape, patate, poche patate, un po’ di acqua calda, ce la davano la sera per mangiarla l’indomani; se ce la mangiavamo la sera dovevamo aspettare un altro giorno.

E la pagavano per il lavoro che faceva?

Pagare? Si, i padroni ci pagavano, ci facevano la busta paga. I marchi tedeschi che ci davano erano particolari: avevano solo un lato stampato, l’altro no … erano soldi dei prigionieri e potevano girare solo dentro il campo. Poi ci davano una busta dove c’era scritto: tanto di coperta, tanto di guardia, tanto di mangiare …  che dovevamo “buscare”? Io non “buscavo” neanche una lira, quasi dovevamo darle noi a loro.

Lei ha lavorato in miniera; ma la sua professione qual era? Quando le hanno chiesto “Cosa sai fare”, lei cosa ha risposto?

Tutti dicevamo che eravamo contadini, tutti. Io ero contadino, facevo il carbonaio e il contadino. In miniera facevo buchi, mi hanno dato pure legnate perché non imparavo subito. Era uno stampo più grosso di un dito e si metteva lì per fare i buchi dove poi veniva inserita la dinamite. Ci davano una specie di martello pneumatico. Loro ci indicavano i punti e come li dovevamo fare. In breve tempo quello stampo si rompeva e giù legnate. Una seconda volta mi prese a calci e pugni, mentre la terza volte mi picchiò a sangue, dandomi calci anche nella pancia.

Questo accadeva soltanto a lei?

No, anzi io ne ho prese di meno. Ricordo un prigioniero russo di 25 anni circa, robusto (da questo si capiva che era arrivato da poco), che venne affidato a me affinché gli insegnassi a usare il demolitore. Lui non voleva imparare, rompeva una bacchetta d’acciaio al minuto. Capitava sempre. Era regolarmente pestato a sangue. Per 15 giorni si fece pestare con i piedi e poi lo rialzavamo noi. Mi chiamavano “Franz  e mi chiedevano di insegnargli a usare quell’attrezzo. Io gli dicevo: <<Guarda!>>. Lui in un primo tempo mi guardava male, mi vedeva con la tuta di lavoro, il berretto di carta che ci facevamo noi, e immaginava che fossi come i tedeschi. Non ci capivamo. Poi gli ho detto : <<Ohu, guarda che io sono prigioniero come te!>>. I russi erano forti, perché nel loro esercito mangiavano; noi eravamo sempre stati digiuni e per questo non morivamo;  perché lo stato italiano  non ci faceva mangiare neanche qua, ci dava una pagnottina tanta (stringe un piccolo cerchio con le mani) al giorno! A 20 anni! Noi eravamo abituati al “pititto”  (ride), quindi la guerra l’abbiamo sopportata meglio.

In miniera eravate sorvegliati dalle guardie armate?

No, dentro la miniera no; eravamo accompagnati nella miniera dalle guardie armate, circa 50, 60 con fucili spianati con pallottole in canna. No, dentro no, non potevamo scappare.

(Sorride pensieroso)

Eppure io l’ho fatta la scappata, ho tentato … sono stato scappato per 17 giorni

Come si è svolta la fuga? Dov’era quando è fuggito? Stava andando in miniera? Era in miniera?

No, da lì non si poteva scappare! Invece si poteva scappare, durante i bombardamenti:  questa fu poi l’unica cosa che ci fece persuadere di scappare … perché la libertà dov’era?  Anzi grazie che ci vennero ad arrestare, perché nel campo di concentramento almeno ci davamo qualcosa da mangiare. Da questo campo di concentramento sono fuggito quando eravamo nell’ultimo periodo della guerra in Germania: ci furono  bombardamenti a tappeto in tutte le città;  non solo Osnabruck, ma anche Berlino, Francoforte, tutte quante rase al suolo. La fuga avvenne proprio quando ci furono i bombardamenti. C’era un rifugio antiaereo a monte della città di Osnabruck, ci andavamo là dentro migliaia e migliaia di persone, tra civili, militari e prigionieri. Prima dovevano entrare i civili, poi i militari e i prigionieri. E quello fu il momento giusto. Preparammo tutto a puntino. Ci siamo procurati prima i vestiti, perché con gli stracci che avevamo addosso ci avrebbero riconosciuto. Avevamo gli indumenti messi sotto la divisa. Insieme a me c’erano Carlo un compagno di Bolzano che parlava tedesco, e  Michelangelo, un compagno di Casteldaccia. I vecchi vestiti li abbiamo buttati là e siamo scappati. Mancammo 17 giorni.

E dove siete stati?

Non lo so, perché non capivamo dove eravamo! A occhi chiusi …  non sapevamo dove andare.

Cosa accadde durante questa fuga?

C’era freddo, eravamo affamati e allo stremo delle forze, quando ad un certo punto, un pomeriggio ci avvicinammo ad una casa dove viveva un contadino da solo. Grazie a Carlo, che parlava tedesco, ci fece entrare, mangiare una polenta calda e ci fece dormire nella stalla con gli animali. Fu l’unica notte calda e sicura di tutta la fuga e l’unica occasione di incontrare un tedesco con un briciolo di umanità.

E quando vi hanno ripreso, vi hanno portato nel posto dove eravate prima?
Si, nello stesso posto.

E avete avuto punizioni?

Si, ci fecero il processo, una forma di processo

Vi hanno picchiato?

Noo, a noi no, nel campo di concentramento sii. Lì basta che c’era cattivo odore di piedi oppure ci vedevano con la barba lunga … Dovevamo lavarci con l’acqua fredda. Se sentivano puzza di piedi ci bastonavano.

(Cerca qualcosa … delle foto)

E lei ha subìto violenza nei campi di concentramento?

Si, ne ho avuto meno degli altri perché ero uno che “scappava” subito, sempre, quando mi chiamavano, mi mettevo dove dicevano loro. Per esempio, a volte di notte, decidevano di fare l’appello … se la vedevano loro perché lo facevano. Ci mettevano fuori in giro alla baracca, al freddo: io ero uno dei primi ad arrivare e se qualcuno ritardava gli davano pedate e  schiaffi. Una volta uno mi ha dato un calcio nel  sedere, ma poi diventò amico mio.

Ha lavorato sempre in miniera?

No, dopo 8 mesi mi hanno portato a lavorare in fabbrica: costruivo case prefabbricate, perché i bombardamenti distruggevano i palazzi e noi gli ricostruivamo le case per dormire. Poveracci pure loro!

Durante la sua prigionia, ha mai avuto problemi di salute?

Io no, ma il mio compagno Michelangelo sì. Ricordo che aveva la febbre e continuava a lavorare, per paura che lo portassero in ospedale. Dall’ospedale non si ritornava più. I tedeschi avevano paura dei contagi, avevano paura della tubercolosi, e le guardie nostre non avvicinavano nessuno che diceva che si  sentiva male.

 E la liberazione come è avvenuta?

E’ avvenuta così, con l’arrivo dell’ottava armata inglese. Era il mese di maggio del 1945

Prima della liberazione i tedeschi hanno tentato di  usare violenza contro di voi?

Si, Hitler ha diffuso un volantino che diceva: non fate scappare i prigionieri, ogni prigioniero che passa aldilà del fronte (scritto in italiano, inglese, francese), è un nemico … perciò, ammazzateli tutti, và …

(Riflette e deduce con tristezza).

‘Sta gente non doveva nascere proprio! E intanto sono nati.

(Mostra la bozza del nuovo libro pronto per la pubblicazione, con un’integrazione di un paio di pagine scritte a mano).

Il ritorno della Germania come è stato? Come vi hanno rimpatriato?

Con il vagone bestiame, scoperto, non coperto. Eravamo cose da buttare

E quanti anni aveva quando è rientrato?

Io partii il 5 gennaio 1941 e ritornai il 25 settembre 1945. “Ho portato 33 chili di carne”. Dopo una sosta a Bolzano, il treno ripartì attraversando tutta l’Italia. Il viaggio durò una ventina di giorni, fino a che arrivai finalmente a Campofelice di Roccella. Da lì raggiunsi il mio paese a piedi.

Come è stata la sua vita a Polizzi al rientro?

Quando sono tornato da prigioniero, per una ventina di anni non mi sono affacciate mai le lacrime né nei momenti di gioia, né in quelli di dolore …

(Interruzione per la telefonata del figlio).

Al suo rientro, cosa ha trovato nella sua terra?

La miseria, una vera miseria, eravamo poveri per natura, perché qua erano pochi i ricchi: quei quattro baroni che avevano i terreni, qualcuno che aveva un poco di terra in più e se la passava un po’ meglio … se la passava! Mangiava, ma poi niente, eravamo un poco tutti “la stessa cosa”. Come le dicevo io sono stato una ventina di anni senza che mi affacciava una lacrima, perché le avevo buttate tutte … Eravamo come gli animali! Distrutti.

Lei è riuscito a mandare lettere durante la prigionia?

(Interruzione per un’altra telefonata di un amico).

Io ho mandato tante lettere, ma ci avevo messo qualche parola in più e … dovevamo solo mettere “Sto bene e me la passo bene” … In guerra c’è sempre la censura! Le parole erano sempre quelle”Sto bene e me la passo bene”. E poi nella cartolina mettevano: “prigioniero di guerra”. Quando erano più lunghe le censuravano.

Ai suoi nipoti ha mai raccontato la sua storia?

Io veramente non la raccontavo mai a nessuno! Mia moglie ancora adesso mi dice:<<Ma io che sapevo tutte queste cose?>>. Che le dovevo raccontare tutte queste cose!

Cosa ricorda, in modo particolare, di questo terribile periodo della sua vita?

Ricordo che un giorno, durante i bombardamenti a Osnabruck, mentre scappavamo, sentiamo una voce; io e un mio compagno ci siamo avvicinati e abbiamo visto sotto le macerie due bambini: uno di 7/8 anni e una di 13/14 anni, biondi tutti e due. Li abbiamo tirati fuori.

Quando sono rientrato al mio paese, dopo un po’ di anni, queste persone sono venute a trovarmi, mi hanno telefonato, ma io non sono riuscito a riceverli. Mi hanno scritto delle lettere in italiano, ma non sono riuscito a rispondere. Non riuscivo più neanche a vedere una divisa in televisione, spegnevo subito.

Ma come hanno fatto a sapere che era stato lei a salvare i loro figli?

Mi vennero a trovare nel campo di concentramento qualche tempo dopo i bambini con il nonno e la mamma. Come le dicevo, io non sono riuscito per tanti anni a sentire parlare il tedesco. Ricordo che una volta, dopo qualche anno dal matrimonio (mi sono sposato nel 48), ero a Villa d’Orleans a Palermo con mia moglie Santina e il mio primogenito che allora aveva quattro anni e, mentre passeggiavamo, si avvicinò una coppia di tedeschi 50enni. Mi fecero qualche domanda; io qualcosa la capivo, perché qualcosa l’ho imparata, così risposi in tedesco. Subito dopo ebbi un collasso: la voce tedesca mi aveva sconvolto, riportandomi a quegli anni. Io i tedeschi non li posso sentire parlare, ho ancora quei ricordi che mi porto addosso.

Ci parli del suo libro

Come vi dicevo all’inizio, tutto quello che vi ho raccontato l’ho scritto in un libro. Io cominciai a scrivere quando avevo 80 anni, ora ne ho 90. Ho provato se sapevo scrivere, perché a scuola non ci sono andato. L’ho fatto per i ragazzi, perché altrimenti non lo possono capire. Ho girato tante scuole, a Cefalù, Castelbuono, Palermo, soltanto nelle scuole. Sono stato anche sindaco a Polizzi e consigliere alla Provincia nel 75.

Quindi la sua vita al rientro è stata molto intensa!

Si, ho combattuto altre guerre, dall’occupazione delle terre, all’impegno politico e sociale.

Ma questa è un’altra storia … non meno importante … torneremo a sentirla!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LEONARDO PINTACUDA

 

luogo di nascita: Bagheria (Palermo)

data di nascita:  13 settembre 1919

data di internamento: ottobre 1943

motivo: IMI

luoghi di internamento: Stalag VI C/Z Fullen

luoghi di lavoro coatto/imprese: Schmidding Werke, fabbrica bellica di produzione di mine subacquee

luogo e data della registrazione: Palermo, 2012

durata: 120’

Nome del Ricercatore: Carmelo Botta e Francesca LoNigro

 

Trascrizione intervista

In un freddo pomeriggio di gennaio arriviamo nell’abitazione del Signor Pintacuda. Dopo aver suonato il campanello al cancello di ingresso, saliamo le scale e troviamo, al secondo piano, lui stesso ad accoglierci, presentandosi come un “giovanottino di novant’anni”. Sorridente e accogliente, ci fa entrare in una stanza calda e ben sistemata; sul  tavolo è già pronta la carpetta dei ricordi: è lì che lui prende posto.

Comincia subito a parlare, presentandosi e riferendoci la sua data di nascita.

Lei è insegnante di tedesco, vero?

Si, ho insegnato mi pare 35 anni: alla scuola elementare, media e al liceo Cannizzaro.

E la conoscenza del tedesco le è stata utile durante il suo arresto in Germania?

Sii, è stata utile a me e ai miei compagni, perché quando siamo stati chiusi nel lager, che non era un vero e proprio lager, era una fabbrica, io aiutavo i miei compagni, perché l’unico a saper parlare il tedesco ero io. Io all’inizio conoscevo bene il latino, poi il tedesco.

Ci parli un po’ della sua vita militare prima della guerra.

Io sono partito nel marzo del ’40, prima che fosse dichiarata la guerra … la guerra è stata dichiarata il 10 giugno1940, 19 marzo del ’40, sono partito tre mesi prima circa della dichiarazione di guerra. Ho fatto il servizio militare. Quando scoppia la guerra il 10 giugno io ero a Piasco, vicino Cuneo. Sono stato mandato in Francia, sul fronte occidentale: una guerra cretina, perché non eravamo preparati per fare la guerra. L’Italia non era preparata per fare la guerra, eravamo.. io veramente avevo un mortaio a spalla, che diciamo era … ,  ma tutti gli altri, la maggior parte, avevano il fucile modello 91, quello della prima guerra mondiale. In Germania sì che i tedeschi erano preparati a fare la guerra, avevano carri armati e tutte le armi moderne! Mussolini dichiarò guerra: il 10 giugno scoppia la guerra verso le 6 di sera, così, e ci mandarono al fronte occidentale. E sa come? A piedi, fanteria, io ero caporal maggiore: un’ora di cammino e un quarto di riposo, un’ora di cammino e …  Siamo arrivati al fronte l’indomani sera, dalle 18 del pomeriggio. I francesi quando ci hanno visto hanno cominciato a .. si erano sentiti traditi! Già i tedeschi l’avevano invasa, però non ci furono tanti morti, forse due, tre.

Lei ha avuto conflitto a fuoco? Ha sparato?

No, no, no. I francesi hanno sparato. Io mi sono messo dietro un costone e non ho sparato.

Dopo l’esperienza al fronte occidentale, cosa avvenne?

Ritornai in Italia. Quando entrarono in Sicilia gli americani, nel ’43, io ero a Modena. Mussolini pensò di trasferirci tutti lontani dalla Sicilia … aveva un’accortezza questo qui! E così andai a finire  in Dalmazia, a Zara. L’8 settembre, quando Badoglio dice che la guerra continua, ci siamo sentiti abbandonati: non sapevamo più che fare, non c’erano ordini, il re era scappato! Un giorno, io e un commilitone messinese, mentre eravamo in libera uscita, passeggiavamo, diciamo, non si può dire “passeggiare”, camminavamo a Zara. Poi siamo andati un po’ fuori Zara … c’era  chi scappava di qua, chi scappava di là, noi non avevamo intenzioni di scappare, né potevamo scappare e ci hanno incontrato i tedeschi: << Ihre spaziren?>> significa “passeggiare?”. <<Sentite o continuate a combattere per noi, al nostro fianco o vi facciamo prigionieri in Germania>>: ci dissero. E noi abbiamo scelto di lavorare per loro.

In che data è stato internato?

In Germania? Mi pare a settembre. Quando fui catturato era settembre. Ci mostra il suo foglio matricolare: settembre 1943

E dove vi hanno portato?

Ci hanno portato a  Bihac, (gli chiediamo di scrivere il nome su un foglio) nella Bosnia per fare l’aeroporto: dovevo pianeggiare un terreno per fare un aeroporto. Dopo un po’ di tempo le scarpe erano finite. Allora abbiamo detto <<Schuhe, kaputt, le scarpe sono finite>>. Ci hanno risposto: << Morgen, domani fatevi trovare davanti al bureau, all’ufficio, che vi diamo le scarpe>>. Invece di darci le scarpe ci imbarcarono (eravamo alla stazione) in un treno: cavalli otto, uomini quaranta (ride). Meta Germania. Quindici giorni di viaggio, da lì, dalla Jugoslavia per arrivare in Germania, quindici giorni di viaggio bruttissimo, perché ogni due, tre giorni ci fermavamo per i bisogni.

E dove siete arrivati?

A Meppen, che è a vicino all’Olanda. Lì ci hanno levato i vestiti e li hanno messi nei forni. (Fa una battuta e sorride). A noi no, non ci hanno messo nei forni. Eravamo pieni di pidocchi, perché in quelle condizioni igieniche! Insomma, poi ci hanno allineati a petto nudo, ad alcuni facevano la croce sul petto, ad altri no. A me la croce non l’hanno fatta.

Cosa significava quella croce?

Quelli con la croce dovevano andare in miniera a lavorare e gli altri in fabbrica. Io fortunatamente sono stato assegnato in fabbrica.

E questa scelta come veniva fatta?

Guardando soltanto.. si vede che io ero mingherlino, a quei tempi là. Allora, quindi, arrivammo in fabbrica e lì facevo mine subacquee: c’era un maglio fortissimo, il doppio di questo (indica con le mani la dimensione), e lì si ci metteva la polvere …

Industria bellica?

Mine, mine marine. Per quasi due anni ho fatto questo lavoro qui.

Quale era il nome di questa fabbrica?

Schmidding-Werke 2 (scrive il nome su quel foglietto che ha davanti e sul quale ormai appunta, senza che lo richiediamo, i nomi tedeschi).

Ricorda il suo numero?

Ah, il mio numero era stammlager … aspetti un minuto, io non me lo ricordo più … gefangenennummer (gefangen vuol dire prigioniero) 101799

Cosa può dire di questi anni di prigionia?

Insomma la prigionia per me non è stata male, male, perché sapete io, sapendo parlare il tedesco, mi arrangiavo, ma per i miei compagni però sì, è stata dura! Eravamo 48 poverini e patirono la fame. E io no? No, io no, perché mi davano l’incarico di vendere orologi, penne stilografiche e poi mi davano per  provvigione un pezzo di pane e io avevo sempre … quel pane che durava mesi.

I tedeschi le davano quest’incarico?!

No, i compagni italiani! E vendevo  queste cose. Io parlavo bene il tedesco a quei tempi lì. Vendevo tutto ai russi, perché c’erano in Germania anche i russi civili,  li chiamavano “ostarbeiter, che significa lavoratori dell’est  (lo scrive).

Dove vivevate nel campo?

Nelle stammlager, nelle costruzioni di legno, tutti nelle baracche, riscaldate da una stufa.

Come si svolgeva la vita all’interno del lager?

Lavoravamo in fabbrica otto ore, insieme agli operai tedeschi

Ma il trattamento era uguale?

Gli operai ci trattavano bene, ma anche il soldato di sentinella ci trattava … una volta sola c’è stata una minaccia di sparatoria, perché nel sotterraneo della fabbrica c’era un tunnel dove cadeva tutta la cenere del riscaldamento e lì si respirava malissimo con questa cenere. Ogni tanto bisognava togliere la cenere. Ma chi potavano mandare per levare la cenere? I tedeschi? Ci mandavano noi a turno. E noi ci andavamo con santa pazienza! Si sbatteva la testa là sul tetto! Ricordo che c’era un calabrese che non ci voleva mai andare. <<Digli di andare come gli altri, perché … Kaputt, gli sparo>>.: mi disse la guardia, la sentinella. E questo calabrese: <<No, un ci vaju>>. Però, mano a mano, si avviava perché capiva che lì non si scherzava. Solo questo fatto brutto ci fu.

Non ha mai assistito a violenze?

No, no, da noi no.

Quindi la mattina vi spostavano dal lager alla fabbrica?

Si, dalla baracca raggiungevamo a piedi la fabbrica che era lì accanto; c’era una sola sentinella armata, aveva perso un occhio in Russia e quindi stava lì a controllare noi. Perché aveva perduto un occhio, sennò andava al fronte pure lui.

Vi pagavano per il lavoro che svolgevate?

No, niente … Veramente ci davano una specie di denaro, ma con quello dovevamo pagare il latte, chi voleva comprarlo … da spendere lì dentro.

E il cibo ve lo portavano in fabbrica?

No, andavamo noi al refettorio, c’era una specie di refettorio

Cosa vi facevano mangiare?

Ah, quello che mangiavamo era una schifezza. Di solito ci davano rape, pane nero che doveva bastare per una settimana, un pane di un chilo per una settimana. Oltre ci davano un cucchiaino di marmellata e uno di margarina. C’era un napoletano che scherzava: <<Ohe Pintacù, oggi si mangia co’ chesto, dimmi na’ cosa, ma  tu la vedi? A occhio nudo la vedi?>> (ride).

E la sera a cena?

La stessa cosa, sempre quella zuppa lì.

Ma voi eravate consapevoli della vostra condizione? Vi sentivate prigionieri, schiavi, lavoratori, militari?

Hitler, sa cosa combinò? Invece di considerarci prigionieri di guerra, ci definì militari internati. Perché? Così non ricevevamo pacchi della Croce Rossa. Invece tutti gli altri prigionieri, americani, inglesi, polacchi, russi, ricevevano pacchi dalla Croce Rossa. Noi niente … noi siciliani no. Ma ricevevano pacchi quelli del nord che erano della Repubblica Sociale, ricevevano pacchi ogni tanto: pane biscottato …

E voi della Sicilia … nulla!

No, eravamo proprio staccati dalla … (non conclude la riflessione)

Quale era il vostro stato d’animo? Pensavate di ritornare un giorno a casa vostra?

La guerra doveva finire prima o poi. Lei mi chiede quale era il mio stato d’animo! Qui c’è una lettera che mandai allora a mia madre di quand’ero là. (Legge la lettera datata 26/6/44): <<Cara mamma. E’ già trascorso più di un mese da quando ho ricevuto posta da voi e mi son fatto il conto che per ricevere l’altra dovrò aspettare per lo meno altri tre mesi. Se tu mi scrivessi con lettera comune, e qui ai siciliani arrivano anche lettere comuni, io potrei più spesso avere tue notizie. In quanto a me la salute mi va bene e il morale mi si è rialzato dall’avere avuto posta da te e da Marietta per cui stavo in pensiero. Il lavoro che fo’ ora non è pesante e poi quasi tutti i giorni trascorro due ore all’infermeria per fare l’interprete ai compagni malati che non sanno parlare il tedesco. Insomma, anche se Iddio m’à punito, mi vuole ancora bene. Come ti ho scritto sono in corrispondenza con Titina e Gino (spiega che Titina era una sorella suora che viveva a Belluno e Gino era  il fratello che era lì in giro, sbandato e che era andato a stare con lei) che si trovano in Alta Italia a Belluno, e stanno bene. Titina mi  ha spedito dei pacchi, ma sinora non ne ho ricevuto. Se tu in seguito potrai mandarmeli, mandali. Bacia per me … Bacioni affettuosi a te e rispondimi subito. Ciao. Tuo affezionatissimo figlio”.

(Mostra con delicatezza altre lettere precedenti, leggendoci qualche stralcio della lettera del 26/3/44). << … Ma non c’è nessun diavolo che si preoccupi per noi prigionieri senza aver fatto niente di male a nessuno? … Spero sempre che questa maledetta guerra finisca e invece si prolunga sempre. Ho perso anche la voglia di scrivere dato che non mi rispondete.>> (O ancora della lettera del 6/2/44). << Cara mamma, e ti scrivo ancora una volta. Non so quando potrò ricevere posta da te e vivo sempre in ansia perché non so nulla della famiglia dal giugno scorso … Comunque io sto bene, mi trovo in Germania, prigioniero, lavoro in una fabbrica e aspetto che la guerra finisca presto per rivederti. Speriamo che Dio perdoni i nostri peccati e faccia cessare la guerra. Prega per me …>>.

Ma in questa lettera scriveva proprio quello che voleva o alcune cose non le scriveva per paura della censura?

La censura c’era. Questa qui è censurata, vede … (mostra la lettera con il timbro della censura).

(Arriva la moglie e saluta sorridendo. Si sofferma a scambiare qualche parola, lasciando scivolare con affetto una mano sulla sua spalla del marito. Va via).

E poi, dopo i due anni?

Poi mi mandarono da un’altra parte. Perché i tedeschi le macchine le mandavano col vapore della legna, dato che non c’era più benzina e noi prigionieri di guerra dovevamo andare a fare questa legna. Una volta, di notte, verso le 5 così, o ci bombardarono, o ci fu un incidente con un carro armato, non l’ho capito,  il camion dove ero io e altri prigionieri ungheresi e …, si spezzò in due, sicché fui ferito … Ma questa fu una cosa buona, perché mi portarono all’ospedale. Prima mi domandarono <Ma tu deutscher Soldat, sei soldato tedesco?>>. <<Sono impiegato, lavoro per la Wehrmacht>>: non gliel’ho detto che ero prigioniero di guerra, perché sennò, chissà dove mi mandavano. E questo era vero … Wehrmacht era l’esercito tedesco.

E quanto tempo è rimasto in ospedale?

Sono rimasto all’ospedale da gennaio fino a marzo, aprile mi pare, dal gennaio del ’45 fino ad aprile.

Come ha trascorso quel periodo in ospedale?

Parlavo tedesco e mi trattavano come un tedesco che veniva dal fronte. Lì mangiavamo, dopo due anni di fame! Mi davano la pasta, ma con le prugne, come la facevano loro. In ospedale sono stato trattato bene. Però c’era una cosa: che uno all’ospedale doveva guarire a comando.

In che senso?

Il primo mese sono stato con le stampelle e me lo dovevano dire loro: <<Morgen, domani niente stampelle>>. Uno doveva guarire a comando del capitano. Poi arrivarono gli americani e mi trovarono coi tedeschi e mi presero prigioniero loro. C’era un napoletano:  gli ho spiegato tutto. Mi disse: <<Ah, tu sei dei nostri, sei italiano! Mo’ ci penso io, parlo io con il capitano>>.  E mi mandarono in un campo dove c’erano altri prigionieri italiani. Sono stato lì fino a settembre, dove facevo l’interprete per gli italiani. Poi a settembre mi hanno rimpatriato e sono arrivato a casa nel settembre del ‘45. Hanno preso prigionieri tutti quelli che erano dentro l’ospedale, gli americani!  Per non fare uscire nessuno, compreso io. Se non era per questo napoletano! Questo mi ha fatto uscire e sono andato dov’erano tutti gli altri italiani in attesa di partire. Fino a settembre sono stato lì.

Alla fine della guerra, lei si trovava quindi in Germania?

Ricordo che mi  trovavo lì. Ci sono state tante cannonate.

Non bombardamenti aerei?

Bombardamenti aerei? Sii, ce ne sono stati tanti, sempre, forti, quasi ogni notte, e una volta un povero soldato che era ricoverato con noi, tedesco però, … noi andavamo tutti nel ricovero e questo qui invece no, dice: <<No, io me ne vado in campagna>>. È andato in campagna e c’è stata una bomba: la sabbia lo ha seppellito, si è fatto un gran fosso e lui è rimasto coperto dalla sabbia.

Quando è finita la guerra, come siete arrivati in Italia?

Un giorno gli italiani sono venuti a prenderci con un camion e ci hanno portato alla stazione e lì in treno, direttamente al confine. Lì ci hanno fatto delle domande per sapere se eravamo in regola, se avevamo tradito.

E da lì in Sicilia, come?

Sempre col treno

Quando è tornato in Sicilia, cosa ha trovato?

Ho trovato più miseria. Io, durante il servizio militare, a Modena, avevo fatto gli esami di magistrale. Prima di partire avevo frequentato il 5^ ginnasio a Bagheria e poi a Modena avevo pensato di fare gli esami magistrale. A Bologna ho comprato dei libri e ho fatto gli esami, però solo la parte letteraria, perché il capitano mi aveva detto: <<Andiamo in guerra e tu vai pensando a queste cose?>>. Non ho potuto fare la parte scientifica. La parte scientifica l’ho fatta nel  ‘46 quando sono tornato a casa, pensi un po’!

Quindi, qual era la situazione economica, sociale della Sicilia del secondo dopoguerra?

Terribile, il pane si comprava con la tessera, lo zucchero … Palermo era stata bombardata parecchie volte! Ho trovato le case distrutte, ma meno della Germania, perché la Germania è stata distrutta il 70 % dai bombardamenti. In Germania c’erano intere città bombardate. Io stavo nel ricovero. Ho imparato anche a cucire! La fabbrica aveva un ricovero dove c’erano russi, ungheresi e noi italiani.

C’erano anche siciliani?

Si con me c’era uno di Messina. Biondo si chiamava, ma era così peloso che  sembrava una scimmia, intanto però le ragazze polacche lo guardavano ….  Ah, c’erano anche polacchi.

C’erano anche donne?

Non con noi, nella baracca accanto: polacche e russe

Che lavoro facevano le donne?

Lavoro di fabbrica

Lei è più tornato in quei posti?

Si, io sono tornato lì nel ‘51. Ah poi è successo che sono stato collaboratore di una rivista tedesca per diciassette anni, ora la prendo e ve la faccio vedere, una rivista turistica di  viaggi, che pubblicava in tedesco, francese, spagnolo e italiano. Si chiamava Contact International. Mi pagavano bene, i tedeschi sono buoni pagatori. Sono tornato in Germania in diverse occasioni, perché poi in Germania ho fatto parte di una certa associazione culturale,  si chiamava Sonnernburg, che organizzava ogni anno delle conferenze culturali e io ci andavo sempre. A Colonia sono tornato tre volte e sono rimasto amico con uno che è diventato regista alla radio di Colonia. Parlavamo in latino con lui. Si chiamava Wolfram Rosemann … serve questo? L’amicizia con lui è durata per tutta la vita.

Un caso davvero singolare quello di Leonardo Pintacuda! Nonostante le condizioni di privazione della guerra, della prigionia e del dopoguerra, è riuscito, con tenacia e forte volontà, ad approfondire lo studio delle lingue, assecondando la sua naturale propensione e passione. Come dice in una sua lettera alla madre, la conoscenza del tedesco, approfondito durante la prigionia, grazie all’ausilio di una grammatica che era riuscito a procurarsi, è stata messa a disposizione dei compagni nel campo e in ospedale durante il suo ricovero. Dopo la guerra, ha continuato i suoi studi, coronando il suo sogno di iscriversi all’Università, laurearsi in lingue, insegnare inglese e spagnolo, collaborare con un giornale letterario tedesco, e mantenere legami con la Germania e con i compagni che lo avevano aiutato.

 

 

 

 

 

 

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