Pubblichiamo con piacere la relazione di Mauro Sonzini, studioso di Resistenza e Democrazia, vicepresidente ANPI Giaveno-Valsangone “Sergio De Vitis”, al convegno “Partigiani siciliani nella lotta di Liberazione. Pompeo Colajanni” che si è tenuto a Torino il 4 novembre 2011. Al convegno ha partecipato l’ANPI di Palermo con Angelo Ficarra il quale ha tenuto le conclusioni. Nella relazione di Mauro Sonzini al quale va il nostro ringraziamento, c’è in calce un elenco di partigiani siciliani che hanno partecipato alla lotta di Liberazione in Valsangone. Nel percorso del recupero partecipato, collettivo, della memoria, esemplare l’esempio di Isnello, le loro storie umane vanno riscoperte e riscritte, quì nei luoghi dove hanno avuto le loro radici. Questo è l’appello che ha fatto e che fa l’ANPI Palermo a tutti (vedi le pagine Memoria – Antifascismo di questo sito) per recuperare la memoria e la storia dell’antifascismo siciliano.
SICILIANI E RESISTENZA
Relazione di Mauro Sonzini
Torino, 4 novembre 2011
Ci sono due aspetti del rapporto Sicilia/Resistenza che a mio parere vanno indagati e approfonditi. Il primo, a tutti più noto e che trova esemplificazione nell’opera stessa di Pompeo Colajanni, è il contributo che i Siciliani offrirono alla Resistenza. Il secondo, assai meno conosciuto ma ben più intrigante, è quello che la popolazione siciliana offrì al crollo del fascismo e alla cacciata dei nazifascisti. Il primo aspetto si sviluppa nel centro-nord Italia fra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, il secondo invece si svolge in Sicilia, grosso modo fra 10 giugno e 17 agosto 1943, quando i nazifascisti sono via via fatti evacuare dallo sbarco alleato in Sicilia. Non vi sono legami apparenti, al più contiguità temporale e spaziale. E’ possibile – io mi chiedo invece – che qualche correlazione vi sia?
Procediamo per gradi.
L’8 settembre 1943 è il giorno chiave della nostra storia civile: nessun altro giorno finora è stato così carico d’inquietanti problematiche essenziali per la nostra Nazione. L’armistizio con l’ignominiosa fuga a Brindisi del re, della corte e del governo, lascia il nostro popolo privo dello Stato, privo cioè dei vincoli che legano insieme fra loro i membri della sua società. L’ignominiosa fuga a Brindisi fa di peggio: lascia i brandelli abbandonati di questo Stato, cioè di tutti noi, nelle mani di un esercito e di una potenza straniera, quella nazista, di cui sino ad allora siam stati alleati ma nei cui confronti proprio l’armistizio si pone come palese atto di rottura: è come – mi si passi il parallelo – molestar il leone e immediatamente dopo mettergli nelle fauci la testa.
Lo Stato Italiano non c’è più. Ci son però gli Italiani, che non si sono ancor fatti – per usar il celebre enunciato risorgimentale – ma, se vogliono, possono scegliere. Non sceglier se star con o contro i nazisti. Sceglier d’esser Nazione, intendo, sceglier di costruir legami sociali e politici coi propri connazionali e, al posto dello Stato che li ha abbandonati, rendersi essi stessi Stato. Aver la lucidità di sceglierlo in quella condizione non è facile, non c’è davvero da invidiarli: pare persin poco facile a noi oggi che fruiamo del senno di poi.
Son davvero pochi gli Italiani che l’8 settembre scelgono, che sanno scegliere, che vogliono scegliere: lo fanno molti nostri soldati all’estero che, essendo compressi in un reggimento o una compagnia, restano uniti ma, essendo deboli e sguarniti come nazione, vengono subito disarmati e internati nei campi di prigionia in Germania. Oppure – peggio – vengono sterminati, come accade non solo a Cefalonia dove insieme ai suoi compagni, democraticamente, come fa una Nazione, il capitano messinese Vincenzo Saettone vota di non arrendersi ai nazisti e proseguir la Resistenza: per questo con tutti i suoi compagni merita, soprattutto in questa giornata dedicata al buono fatto dalle nostre Forze Armate, tutto il nostro ricordo e riconoscimento.
No, la stragrande parte degli Italiani sceglie d’attendere, di guardar cosa succede, di mettersi in un angolo ad aspettare. La mia non vuol esser critica, è constatazione: scegliere in quella condizione, l’ho già detto, è difficile. Si sceglie meglio se si può riflettere a fondo, soprattutto se si può accedere ad informazioni chiare e approfondite ma non è cosa di quei giorni dove tutto appare parziale e contraddittorio. Si sceglie meglio se si trova il conforto e il confronto di qualcuno di cui davvero ci si fida: in genere è la famiglia. Emerge qui evidente la sfortuna dei Siciliani: a partire dal 10 giugno le loro famiglie son state risucchiate al di là del fronte della guerra e risultano impossibili da raggiunger se non ponendo ripetutamente e scriteriatamente a repentaglio la propria incolumità. Per questo i Siciliani al centro-nord devono sceglier da soli, al più insieme ai propri compagni d’arme, neppur tutti però, solo quelli che non han potuto tornar verso casa, oppure quelli che han casa vicino. Ma questi ultimi, se vogliono, possono tornar a casa, raggiunger amici o conoscenti quasi in ogni momento, per qualsiasi evenienza. I siciliani invece non possono veder nessuno perchè subito destano sospetti e son perciò obbligati alla macchia: per questo la loro scelta è ben più impegnativa, anche perché va considerata la scarsa conoscenza del territorio, le assai diverse condizioni climatiche e sociali, l’impossibilità di trovar lecite e regolari fonti di reddito e, conseguentemente, di sostentamento. Per questo – accanto alle lodi ai partigiani siciliani – occorre obiettivamente riconoscere, in una società altamente e volutamente razzista, la propensione all’apertura e alla solidarietà da parte della popolazione settentrionale soprattutto montana.
Ma, quando ci sono, le lodi per i siciliani devono esser apertamente dichiarate. Come nel caso di Pompeo Colajanni, il comandante Barbato da Caltanissetta, che, forte di un saldissimo credo e d’un ancor più concreto agire comunista, già all’indomani dell’8 settembre sceglie la strada della Resistenza. Come nel caso di Vincenzo Modica, il comandante Petralia da Mazara del Vallo, che farà altrettanto, con la sola differenza di temere, a dichiararsi comunista, di spingersi troppo oltre, essendosi in passato già troppo compromesso con il fascismo. O come il capitano medico nativo di Palermo Giuseppe Scagliosi, responsabile sanitario della 1a divisione di Giustizia e Libertà, medaglia d’oro della Resistenza caduto in combattimento il 19 settembre 1944 a Turiny in val Vesubie in Francia. Ma fra gli alfieri della prima ora non posso tralasciare il prof. Concetto Marchesi da Catania, all’epoca rettore dell’Università di Padova e futuro membro della Costituente, che il 1° dicembre 1943, all’atto d’entrar in clandestinità per sottrarsi all’arresto, infiammò i suoi studenti con un appello che ancor oggi, alla luce della nostra attuale condizione, suona di straordinaria attualità: “Una generazione d’uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili d’episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e coperto col silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dall’inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. … Studenti, … per la fede che v’illumina, per lo sdegno che v’accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo”.
I dati di cui mi servo per questa prima parte della relazione, sono in gran parte frutto dello studio di una microsituazione specifica, quella delle formazioni resistenziali della val Sangone che ho avuto modo d’analizzare a fondo, ma i cui caratteri e dinamiche sono in gran parte riconoscibili in tutte le formazioni resistenziali del nord Italia. Se s’individuassero per il centro Italia lievi variazioni, per ciò che concerne i partigiani siciliani esse tuttavia deriverebbero realisticamente, più che dalla minor distanza dalla terra natale, dal progressivo avvicinamento e superamento della linea del fronte. 142 sono i partigiani siciliani attivi in val Sangone. Di loro solo 35 risultano emigrati dalla Sicilia antecedentemente alla guerra di Liberazione: ciò significa che la stragrande parte di loro si ritrova bloccata al nord per ragioni dipendenti dalla guerra. Ciononostante tra settembre e dicembre 1943 solo pochi bloccati al nord entrano nella Resistenza: la ragione credo stia nel fatto che, in assenza di forti convinzioni, i meridionali preferiscono cercarsi un quieto lavoro che consenta loro d’occultarsi in attesa di condizioni favorevoli, come a Cumiana fa un tale Peppino che fino alla Liberazione scaverà sabbia nel torrente Chisola. Forse allora non è un caso che fra i pochi a salire in montagna in questo periodo vi sia chi dalla sua ha radicati legami sociali, come il ventiduenne Alfonso Messina, nativo d’Agrigento ma da tempo emigrato a Torino con la famiglia che commercia tessuti di pregio. Alfonso è infatti parte della borghesia torinese ed è iscritto alla facoltà di legge. Contro il volere del padre, come lui dice “per un particolare incrocio di genetica, ambiente e esperienza” il 27/28 ottobre 1943 sale in montagna. Non vuol ruoli di rilievo: vive nei ranghi, per la prima volta a contatto con altre classi sociali, affidandosi con ponderazione a chi ha maggior esperienza di lui. Durante il rastrellamento del maggio 1944 un proiettile gli traverserà la gola, per una decina di giorni resisterà stoicamente salvandosi solo grazie a un’incredibile consonanza di sforzi, e a settembre, malgrado l’opposizione del padre, rientrerà in banda e vi resterà sino alla Liberazione guadagnandosi la medaglia d’argento al valore militare.
Fra gennaio e giugno 1944 è invece, oltre alla generale crescita di consapevolezza politica, il serrarsi delle maglie intorno, fra rastrellamenti nazifascisti e bandi d’arruolamento della RSI, a indurre i siciliani a entrar nella Resistenza. La consapevolezza che non v’è scampo, che è necessario schierarsi, che entrar nel gruppo e mettersi a disposizione, accresce la forza collettiva e, conseguentemente, anche le possibilità individuali di farcela, son motivazioni pratiche che spingono all’adesione chi la lotta l’ha già nel sangue, come il ventottenne pastore nicolosita Filippo Mazzaglia, nipote di Giuseppe, fondatore della locale casa del popolo e che a colpi di tegole la difese dal tetto quando i fascisti si presentarono a occuparla, o come il ventiquattrenne sancataldese Salvatore Lunetta salito a Giaveno perché lì aveva la ragazza e che in banda, entrato perché per lui la vita militare era ormai indigesta e senza sbocco, scopre l’autodisciplina: “la disciplina, per esempio, erano i problemi che tu, quando avevi da fare il tuo lavoro o il tuo turno o la tua azione, dovevi decidere, non eri obbligato a farla. Era una decisione che dovevi prender come … in famiglia”. Salvatore terminerà la Resistenza come comandante di distaccamento, poi entrerà nella polizia del Popolo, sarà assunto in R.I.V., diventerà segretario della sezione comunista della fabbrica e nel febbraio 1965 finirà licenziato nella grande epurazione per rappresaglia dei quadri operai. Filippo invece morirà fucilato il 16 maggio 1944 nella giornata della grande mattanza di Forno di Coazze. Ecco, ai siciliani, come ai meridionali, impossibilitati a raggiunger la propria, la banda partigiana appare come una nuova e grande famiglia. Al punto che, quando in azione contro il nemico qualcuno muore, come il 1° aprile 1944 a Cumiana l’agrigentino Calogero Moncada, in segno d’affetto, ancor prima che di ricordo, gli s’intitola l’intera formazione, cosa che accadrà a molti siciliani come il caltagironese Angelo Alliotta nell’Oltrepò o in Ossola ai fratelli palermitani Alfredo e Antonio Di Dio a cui presto verrà intitolata anche la sezione universitaria ANPI a Pavia. Non solo. Il comandante Giulio Nicoletta, meridionale pure lui e perciò altrettanto sensibile allo spirito di famiglia, chiede e ottiene dal comando nazista di recar il suo saluto ufficiale alla tomba di Calogero, guadagnandosi e facendo guadagnare al movimento di Liberazione rispetto, dignità e considerazione. Rispetto, dignità e considerazione che, con i loro raccapriccianti teschi, i militi della R.S.I. mai hanno cercato, né mai si son visti riconoscere e che oggi invece i loro epigoni bramano invano di fargli ottenere a mo’ di salvacondotto per una verginità d’intenti che mai hanno posseduto e che negli altri ripetutamente hanno insultato meritandosi spesso il biasimo degli stessi nazisti. Ciò mi spinge allora a dar merito anche a coloro che, imprigionati dopo l’8 settembre, internati in Germania e costretti ad arruolarsi nella R.S.I., una volta riconosciuta l’infame ruolo repubblichino, diserteranno e accorreranno fra le fila della rivolta morale della Resistenza, a volte con fortuna come il trentaduenne catanese Giovanni Vintaloro che libererà Torino con la brigata Sandro Magnone, a volte senza fortuna come il ventiquattrenne messinese Giuseppe Mondello che, confidando nella lealtà nazifascista, a dicembre 1944 accetta il bando che gli consente d’andar a lavorare come guardia al capannone Fiat a Borgonuovo di Rivoli ma viene arrestato, portato al suo battaglione SS italiano di stanza a Canzo in provincia di Como e, dopo varie malversazioni, alle 4,30 del 13 aprile 1945 fucilato assieme ad altri suoi compagni tra cui il catanese Domenico Pittari, le cui spoglie credo giacciano ancora a Canzo. Chissà se la sua famiglia ha mai saputo della sua sorte?
Certo, non tutti i siciliani premono per la prima fila. Vi è anche chi come il ventiduenne vicarese Sebastiano Canzonieri, entrato nella Resistenza già dal 19 settembre 1943 ma, innamoratosi pressochè subito d’una locale ragazza la cui famiglia lo prende sotto tutela e lo protegge risparmiandogli i terribili disagi della vita partigiana: dopo una vita insieme Sebastiano è mancato l’anno scorso, la ragazza, divenuta sua moglie, pochi mesi dopo di lui. Ma anch’egli fu una freccia in meno nell’arco nazifascista e una in più in quello resistenziale: in una storia dove anche la singola individualità ha il suo peso, anche questo ha valore. O come fu per i tanti siciliani o campani o toscani o piemontesi dell’ultima ora, pronti a salir sul carro del vincitore o magari, più semplicemente, bisognosi di più lenta maturazione o di maggior pressione da parte degli eventi.
Nella vicenda dei partigiani siciliani non si può tuttavia tralasciare la controversa pagina del ritorno. Dopo la liberazione di Torino il caterinese Carmelo Fiandacca, favorito guardiaspalle dei comandanti partigiani Guido Usseglio Mattiet e Michele Ficco della divisione GL Campana, partigiano dal temibile epiteto Carmelo il boia, dall’aspetto terrificante ma dal carattere umanissimo, dopo venti interminabili mesi di Resistenza e qualche mese da contadino rientra finalmente in famiglia a S. Caterina Villarmosa in provincia di Caltanissetta ma a ciel sereno viene raggiunto da un mandato d’arresto per la paurosa strage di Villarbasse. Ciò che Carmelo ignora è che, con notevole razzismo di ritorno, nel Torinese è stato sollevato nei suoi confronti un vero e proprio linciaggio mediatico che l’ha trasformato in ladro crudele e spaventoso, raccapricciante assassino, già in precedenza condannato a morte dai partigiani. Per sua fortuna proprio il giorno della rapina degenerata in strage, Carmelo s’è sposato al suo paese. Ciononostante viene tradotto a Torino, rinchiuso alle Nuove e solo tempo dopo liberato. Ma anche per gli altri partigiani il ritorno in Sicilia non è in genere tenero. Nelle sue forme più popolari la Resistenza è cultura del centro-nord Italia: poco d’essa trova spazio nell’immaginario siciliano. A casa, chi ha cambiato il Paese, soprattutto nel clima di restaurazione e separatismo da guerra fredda dietro cui s’agitano interessi mafiosi, pare non aver fatto nulla: il contadino isolato nelle campagne torna contadino isolato nelle campagne. Oppure emigra. Accadrà a Carmelo Fiandacca che diventerà imprenditore di scarpe in Venezuela. Accadrà persino al comandante Petralia che deciderà di tornare in Piemonte.
A qualcuno però non accade perché in quei venti mesi di Resistenza ha imparato a combattere e continuerà indefesso a combattere per quegli ideali. Il suo nome è Placido Rizzotto, da Corleone, partigiano divenuto segretario della locale Camera del Lavoro, infoibato il 10 marzo 1948 dalla mafia per le popolari battaglie a favore delle occupazioni delle terre incolte. Oppure si chiama Leonardo Speziale, da Serradifalco, partigiano protagonista di mille battaglie civili per i braccianti e le zolfare. E su questo retroterra s’innesta l’apporto d’un grande come Danilo Dolci che siciliano non è, e neppur partigiano, ma è perseguitato dal fascismo e a partire dal 1952 si trasferisce a Trappeto e a Partinico dove dà vita a grandiose lotte civili non violente. E non è forse un caso che proprio da tale retroterra in quegli stessi anni nasca un resistente straordinario come Peppino Impastato. Così come non è un caso che alla base dei successi sindacali degli anni 60 delle grandi città del nord vi siano quegli immigrati che nel sangue avevano la calda stagione delle lotte per la terra.
In realtà ciò che ho detto a proposito dei partigiani siciliani è ancora poco perché molto di più si potrebbe capire e dire se solo ci fosse la possibilità di poterci lavorare seriamente. Di tutti i partigiani siciliani si sa poco, di molti si sa molto poco. O persino nulla. Di Domenico Pittari ho già detto. Di Calogero Moncada si sa solo che era agrigentino. Di Cataldo Russo si sa solo che era siciliano, che s’era rifugiato a Grandubbione insieme a un altro siciliano di Villadoro di nome Vincenzo Ferrigno passato poi in val Sangone, che il 10 maggio 1944 è stato fucilato a Pinasca e la sua salma è sepolta tra i 98 protagonisti dell’Ossario dei Caduti Partigiani di Forno di Coazze. Di Sebastiano Latone, fucilato il 18 luglio 1944 a Nus in Valle d’Aosta, si può solo supporre che sia siciliano, forse nisseno. Tutti protagonisti della nostra storia verso i quali siamo debitori del nostro presente e che con esso lasciamo vergognosamente e quotidianamente tramontare nella trascuratezza e nell’oblio.
Ma nell’oblio e nella trascuratezza vi è da sempre un’altra importante pagina che riguarda la Sicilia. Ancora pochi giorni fa fra le mani m’è capitato un volume curato dall’ANPI zona 5 di Milano in cui si legge che in Sicilia e nel resto del Sud non vi fu Resistenza. Non è solo dimenticanza o errore, è insulto a tutti coloro che vi misero in gioco la proprie e le altrui vite. La Resistenza in Sicilia vi fu, eccome. Certo, furono forse episodi isolati, reazioni spontanee, non collegate fra loro. La differenza con la Resistenza del centro nord è che avvenne troppo presto, non ebbe la possibilità di dar vita a una vera e propria organizzazione popolare, non vi nacquero – per intenderci – i CLN. Ma indiscutibilmente vi fu.
Procediamo anche qui per gradi.
Le battaglie di Stalingrado e El Alamein capovolgono totalmente lo scenario della seconda guerra mondiale trasformando gli aggressori in aggrediti. In più ci troviamo improvvisamente a far fronte allo sbarco in nord Africa dell’esercito americano che alle Midway s’era nel frattempo sbarazzato del pericolo giapponese. Rapidamente e inesorabilmente va in pezzi l’invicibile e spocchioso modello fascista, processo già in atto da diversi anni, almeno dall’inizio degli anni ‘30 ma che nessuno ha finora voluto seriamente considerare. Men che mai Mussolini, autore il 24 giugno 1943 di quel ridicolo sketch che è il discorso del bagnasciuga: “Bisogna che non appena il nemico tenti di sbarcare sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra. E se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che hanno occupato un sol lembo della nostra patria ma rimanendo sempre in posizione orizzontale, mai verticale”. Per tutta risposta sabato 10 luglio 1943 gli angloamericani cominciano l’operazione Husky: al comando del generale Patton la VII armata statunitense sbarca tra Scoglitti e Gela mentre l’VIII armata inglese sbarca tra Pachino e Siracusa. Sono 180.000 uomini, 3700 aerei, 280 navi da guerra, 320 navi da trasporto, 2125 mezzi da sbarco: si tratta, scrive Giorgio Rochat, della più grande operazione anfibia realizzata sino ad allora. Preoccupato d’incontrar accanita resistenza da parte delle truppe naziste e italiane, Eisenhower spinge Patton ad esser molto duri e decisi ma dinanzi egli si trova una popolazione sfinita, affamata, in preda a miseria e arretratezza, conscia dell’inesorabilità di ciò che avviene. D’altronde la stessa presenza dell’esercito italiano è fonte d’imbarazzo per i Siciliani: maggior resistenza significa maggior danno per il loro territorio e maggiori danni per quei poveri ragazzi assolutamente non responsabili di tale situazione. Per questo non riservano loro molte attenzioni. Dinanzi alla manifesta inferiorità, diversi nostri ufficiali invitano le proprie truppe a attender gli eventi senza prender iniziative avventate: Felice Cordero di Pamparato, il comandante Campana della nostra Resistenza, si limita a operazioni d’artiglieria atte a tener il più possibile in stallo lo sbarco. E chi s’azzarda a sfoggiar condanne a morte per diserzione, deve far loro fuoco al posto del plotone che si rifiuta di sparare. L’accoglienza agli angloamericani è per contro calorosa ma, scrive Antonio Costanzo, “perché quegli elmetti a forma di padella significavano la fine delle privazioni e della fame. Rappresentavano anche la fine del fascismo ma era l’ultima considerazione … dato che, per prima cosa, quei soldati significavano cibo”.
La mancata difesa dell’isola produce un effetto sgretolante sul fascismo con reciproche accuse di tradimento, incompetenza e viltà tra comandi delle forze armate italiane, gerarchi fascisti e comandi nazisti, e inevitabilmente si riflettono sui rapporti tra Italia e Germania. Sempre più i nazisti intuiscono che agli Italiani la guerra non interessa più, che se la devono sbrogliar da soli e ne traggono le logiche conseguenze. Ne deriva una situazione tanto complessa quanto confusa, con tutto un carico di precarietà: a fronte della lusinga di marca angloamericana di ricchezza e abbondanza fatta di generi alimentari, sigarette, persino di ballo, avvengono razzie, furti a mano armata, violenze su donne e anziani, spacconate riservate alle truppe ubriache, che si sommano ad appropriazioni e saccheggi prodotti dal disfacimento e dalla fuga dell’esercito nazifascista. A svolger funzione mediatrice fra gli interessi degli occupanti e le esigenze della popolazione sono i militari italoamericani. E, in assenza di locali forze dell’ordine in grado di salvaguardar la vita civile, non vi è contesto migliore in cui la mafia possa infiltrarsi e radicarsi con tutto il suo potenziale di malaffare, offrendo su un piatto d’argento agli Americani ciò che a loro più serve: la quiete locale. D’altronde è noto che a tal fine settori dello Stato Americano li hanno deliberatamente contattati.
Ma non tutto va bene. Martedì 13 luglio a Piano Stella presso Acate in provincia di Ragusa soldati americani e soldati italiani in fuga passano ripetutamente dinanzi alle case, a volte in modo amichevole, a volte aggressivo: gli abitanti non sanno come comportarsi e i quadri di Mussolini vengono in fretta bruciati pur se è stato il fascismo a assegnar loro le terre. Non è chiaro cosa succeda. Un paracadutista americano, ferito, è curato da coloro che poco dopo diverranno vittime. Le camicie nere indossate per lutto sarebbero state confuse con quelle fasciste, carnagione e capigliatura chiara di alcuni locali avrebbero indotto gli americani a scambiarli con militi nazisti, vi sarebbero sospetti di sciacallaggio a carico delle vittime. Di fatto il quattordicenne Giuseppe Ciriacono assiste all’uccisione di papà Giuseppe e quattro altri contadini catturati nei pressi della loro abitazione. Poco lontano nello stesso pomeriggio altri due coloni vengono uccisi. Dubbia è anche l’uccisione di diversi prigionieri italiani all’aeroporto di Biscari. Le stragi finiscono rimosse: da un lato pesa la fatalità della situazione, dall’altro l’urgenza d’allinearsi alla posizione atlantica. Intanto pian piano procede la presa di possesso dell’isola: giovedì 15 luglio gli Alleati occupano Augusta, sabato 17 luglio entrano ad Agrigento, giovedì 22 luglio prendono Palermo.
Martedì 20 luglio un fonogramma del questore di Catania segnala: “Senza farina e senza acqua 30.000 persone che s’addensano nei malsicuri rifugi, son sottoposte giorno e notte a incessanti terrificanti bombardamenti aerei e navali che vanno trasformando la città in un cumulo di rovine. Dovunque sono imprecazioni e invocazioni perché si risparmi la totale rovina della città. A questo stato doloroso e pietoso delle cose aggiungansi le violenze dei tedeschi che non riconoscono più alcuna autorità italiana e si sentono padroni assoluti. Armi in pugno s’impossessano delle macchine maltrattando tutti e dichiarando che in caso di ritirata dalla piana di Catania e paesi etnei, lasceranno un mucchio di rovine”. Già, i nazisti: traditi dai proclami fascisti e dalla mancata resistenza italiana allo sbarco, da giovedì 22 luglio prendono a organizzarsi da soli. Il generale Hube schiera ogni forza (la 1a divisione paracadutisti, la divisione Goering, la 15a divisione corazzata Granatieri e la 26a corazzata) lungo l’Etnastellung, la linea dell’Etna, il fronte che descrive un grande arco intorno alla base dell’Etna con la sinistra che arriva alla costa jonica e la destra a quella tirrenica: natura del terreno e fronte non troppo ampio consentono resistenza prolungata e ordinato ripiegamento su Messina in vista del definitivo abbandono dell’isola. Inframmezzati ai nazisti reparti italiani continuano a combattere.
L’ennesima picconata arriva da Roma: la sbruffonata del bagnasciuga costa cara a Mussolini perchè Dino Grandi chiede al Gran Consiglio del Fascismo la restituzione dei poteri di Mussolini al re: alle ore 3 di domenica 25 luglio il suo ordine del giorno è approvato con 19 voti favorevoli, 7 contrari e due astenuti. Alle ore 17 a malincuore Mussolini, certo in cuor suo della riconferma, reca la decisione al re che invece lo informa che sarà sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio: a fine udienza finisce pure agli arresti. Il fascismo è caduto e i nazisti sentono ancor più venir meno la terra sotto i piedi. Come già rilevato dal questore di Catania, essi non riconoscono più alcuna autorità e considerano tutto in funzione della propria salvezza se non della propria sopravvivenza. In primo luogo muli e cavalli, strumento primario di trasporto per la fuga sugli accidentati terreni delle province di Catania e Messina. Son proprio i furti di tali animali a determinar le prime forme di Resistenza siciliana e, perché no, italiana. A Mascalucia martedì 3 agosto l’ennesimo furto da parte di soldati della Wehrmacht attizza prima lo scontro coi soldati italiani, poi quattro ore di rivolta armata di decine di cittadini e militari con quattordici soldati nazisti e tre italiani morti: solo la mediazione del comando dei carabinieri estingue il fuoco della ribellione. Lo stesso giorno anche a Pedara il podestà Gaetano Scandurra si pone alla testa di un centinaio di cittadini pronti a scontrarsi coi nazisti. Ulteriori episodi si verificano mercoledì 4 agosto a S. Giovanni Galerno e giovedì 5 agosto a Belpasso e a Valverde dove soldati della divisione Goering invadono la tenuta dei monaci eremiti di S. Anna, saccheggiano la fattoria, s’impadroniscono di frutta e carne, fanno strage d’animali da cortile e da stalla e poi spingono il fattore frate Arcangelo in una grotta, e, strappato di mano il rosario, lo abbattono a colpi di pistola. Ad Adrano i nazisti della 15a divisione granatieri corazzata, in ritirata da Regalbuto a Troina lungo la valle del Simeto, seminano razzia e distruzione fra i piccoli poderi della campagna, bruciano magazzini, asportano provviste alimentari e animali da soma celati fra gli alberi: per frapporre ostacoli i contadini cominciano ad abbattere i muretti delle strade vicinali che i loro padri avevano strappato alla lava e trasformato in frutteti. Improvvisato un campo in contrada Martina, a Biancavilla i nazisti saccheggiano a piacere il paese abbandonato e le case di campagna dove però incontrano resistenza: due di loro sono uccisi dopo aver rubato bestie da soma. Tre nazisti che requiscono muli, sono uccisi a colpi di fucile a Ragalna: il comando nazista rastrella dodici ostaggi da passar per le armi ma il capitano della milizia riesce a evitare il massacro convincendoli a cercar subito la fuga piuttosto che perdersi in atti dimostrativi dato che premono alle loro calcagna i primi soldati dell’VIII Armata. Il carrista austriaco Marwan-Schlosser riferisce il commento del colonnello Heilmann: “Stamane alcuni nostri uomini son stati uccisi in agguato. Come abbiam saputo, l’azione non era dovuta a partigiani ma a proprietari d’asini e muli che avevamo sequestrato per portar in montagna i nostri rifornimenti. Alla maniera siciliana i proprietari hanno attuato la sanguinosa vendetta contro i tedeschi considerati come una famiglia, una stirpe. … In genere i siciliani non amano gli animali, piuttosto li maltrattano, ma in questi luoghi di montagna ne hanno bisogno per aiutarsi nella loro vita faticosa. Essi giudicano le confische come rapine che possono far espiare solo con la vendetta”.
Non son solo i beni siciliani a interessar ai nazisti. Anche ai siciliani possono interessar beni dell’esercito nazista, come indennizzo dell’occupazione o semplicemente come benefici a fronte della propria necessità acuita dalla guerra: mercoledì 11 agosto qualche abitante di Cesarò infligge un’imboscata o un furto ai nazisti accampati in ritirata sulla strada per Randazzo.
Alle 7.30 di giovedì 12 agosto una trentina di nazisti al comando d’un ufficiale entrano in Castiglione su alcuni autocarri e un carro armato: gli abitanti che sono sul soglio o sui balconi di casa ad attendere l’imminente arrivo degli Inglesi, credono sian di passaggio in ritirata. Ma all’ingresso scassinano senza motivo una casa, poi avanzano verso la parte alta del paese dove c’è il municipio sparando in tutte le direzioni, uccidendo e buttando bombe a caso: un albergatore è ucciso mentre apre la porta, a un uomo una bomba recide di netto la testa sul marciapiede dinanzi casa. Esigono che le porte sian spalancate e poi, puntando fucili e pistole, ammassano uomini d’ogni età in tre botteghe, una accanto all’altra. Al mattino dopo i prigionieri son caricati sui camion e portati in campagna in una vecchia fortezza adibita ad ovile: l’arciprete Giosuè Russo tenta invano la trattativa. Intorno alle ventitrè e trenta non scorgon più sentinelle e in lontananza odono le mine distruggere i ponti sulla strada che circonda il paese. Venti sono i feriti ma ben sedici sono i morti. E di stragi ce ne son altre, di cui ancora poco o nulla si sa. Sabato 14 agosto 1943 a S. Alessio Siculo vengono uccisi il parroco del paese rev. Antonio Musumeci e i coniugi Cosimo Scarcella e Lotteria Melandri. Lo stesso giorno in località Chiusa Ponte Gallo a Castanea delle Furie vengono uccisi l’appuntato Antonino Rizzo e i carabinieri Tindaro Rizzo, Antonio Caccetta, Nicolò Pino e Antonino Vacampo. Anch’essi aspettano, se non giustizia, almeno il pubblico riconoscimento del loro sacrificio.
Martedì 17 agosto finalmente le truppe nazifasciste evacuano dalla Sicilia. E mentre diviene operativa la rete fascista clandestina “Guardia ai Labari” coordinata dal principe calabrese Valerio Pignatelli, mentre s’avvicina l’8 settembre, l’inizio della Resistenza con i siciliani che daranno il proprio contributo fuori regione, questa pagina di Resistenza via via tramonta nella notte della normalizzazione voluta ed imposta.
Oggi però è un altro giorno: occorre che al più presto, attraverso approfonditi e puntuali studi e divulgazioni mirate, una nuova luce faccia prontamente riemergere quest’immenso patrimonio dimenticato di cui tutti noi Italiani non possiamo che andar fieri.
ELENCO DEI PARTIGIANI SICILIANI
ATTIVI IN VAL SANGONE
1) Corrado Agnello1 Pachino (Siracusa)
2) Corrado Agnello2 Pachino (Siracusa)
3) Salvatore Alessi Vittoria (Ragusa)
4) Attilio Aloisi Palermo Torino
5) Antonino Amata S. Agata Militello (Messina) Scalenghe (TO)
6) Ignazio Amato Vizzini (Catania)
7) Luigi Anselmi Agrigento
8) Carmelo Arena Modica (Ragusa)
9) Alfredo Attardi Enna
10) Riccardo Bechis Palermo Torino
11) Giovanni Bella Comiso (Ragusa)
12) Ignazio Beluardo Palazzolo Acreide (Siracusa)
13) Giuseppe Bianco Vittoria (Ragusa)
14) Enzo Boccadifusco Catania Torino
15) Domenico Boggio Palermo Beinasco (To)
16) Antonio Bongiovanni Messina Avigliana (To)
17) Vincenzo Bonura Palermo
18) Antonino Borgese Misilmeri (Palermo)
19) Sebastiano Bucca Barcellona Pozzo Gotto (Messina) Giaveno
20) Giovanni Burgio Palazzolo Acreide (Siracusa)
21) Sebastiano Canzonieri Vicari (Palermo)
22) Giacomo Cappello Belmonte Mezzagno (Palermo)
23) Giorgio Cappello Modica (Ragusa)
24) Giovanni Cappello Vittoria (Ragusa)
25) Vincenzo Caravello Monreale (Palermo)
26) Giovanni Cardaci Marina di Ragusa (Ragusa)
27) Carmelo Catania Acireale (Catania)
28) Giuseppe Ciaulumino Belmonte Mezzagno (Palermo)
29) Paolo Cirino Enna
30) Paolo Coniglio Palermo Giaveno (To)
31) Franco Cottoni Realmonte (Agrigento) Torino
32) Giuseppe Crescenzio Favara (Agrigento)
33) Orazio Di Noto Gela (Caltanissetta)
34) Giuseppe Di Pietro Gela (Caltanissetta)
35) Francesco Di Trapani Palermo Torino
36) Domenico Falla Scicli (Ragusa) Rosta (To)
37) Vincenzo Farina Mazara del Vallo (Trapani)
38) Gaetano Ferba Palermo
39) Francesco Ferrandi Cinisi (Palermo)
40) Angelo Ferrari Palermo
41) Antonio Ferrigno Mistretta (Messina)
42) Vincenzo Ferrigno Villadoro (Enna)
43) Carmelo Fiandaca S. Caterina Villarmosa (Caltanissetta)
44) Vincenzo Finocchiaro Paternò (Catania)
45) Carmelo Forastieri Palermo
46) Benedetto Gaglio Cinisi (Palermo)
47) Rosario Gargano Collesano (Palermo)
48) Francesco Garofalo Pachino (Siracusa)
49) Giuseppe Garufi S. Teresa di Riva (Messina)
50) Vito Giorlando Alcamo (Trapani) Grugliasco (To)
51) Riccardo Guastella Bivona (Agrigento) Torino
52) Liborio Ilardi Raddusa (Catania)
53) Giovanni Inserra Roccapalumba (Palermo) Roma
54) Calogero Internullo Caltavuturo (Palermo)
55) Filadelfo Italia Lentini (Siracusa)
56) Giuseppe La Bella Riesi (Caltanissetta)
57) Remo La Rosa Gela (Caltanissetta) Torino
58) Giuseppe Lanza Regalbuto (Enna)
59) Giovanni Leone Naro (Agrigento)
60) Antonio Librizzi Petralia Sottana (Palermo)
61) Giuseppe Lo Gerfo Misilmeri (Palermo)
62) Pasquale Lo Iacono Gela (Caltanissetta)
63) Nunzio Lodato Niscemi (Caltanissetta)
64) Antonio Lucenti Sicilia
65) Salvatore Lumia Palma Montechiaro (Agrigento)
66) Salvatore Lunetta S. Cataldo (Caltanissetta)
67) Rosario Macauda Modica (Ragusa)
68) Leonardo Malatia Termini Imerese (Palermo)
69) Gian Salvatore Mancuso Mazzarino (Caltanissetta)
70) Francesco Maniscalco Palermo
71) Lorenzo Marchione Montelepre (Palermo) Torino
72) Carmelo Marciante Palermo Torino
73) Alberto Marino Palermo
74) Vincenzo Marino Marsala (Trapani)
75) Giuseppe Martorana Giuliana (Palermo)
76) Francesco Masia Palermo
77) Filippo Mazzaglia Nicolosi (Catania)
78) Carmelo Merendino Raccuja (Messina) S. Antonino di Susa (To)
79) Alfonso Messina Agrigento Torino
80) Antonio Messina Ficarra (Messina)
81) Nunzio Messina Casteltermini (Agrigento)
82) Paolo Milazzo Campobello di Licata (Agrigento)
83) Calogero Moncada Agrigento
84) Giuseppe Moncada Rosolini (Siracusa)
85) Giuseppe Mondello Messina
86) Francesco Paolo Montalto Palermo
87) Gaetano Montesanto Casteldaccia (Palermo)
88) Alberto Morino Palermo
89) Adolfo Mortellaro S. Stefano Quisquina (Agrigento)
90) Enrico Mortellaro S. Stefano Quisquina (Agrigento)
91) Nino Motta Raffadali (Agrigento) Torino
92) Wladimiro Motta Raffadali (Agrigento) Torino
93) Antonio Muscueri Acireale (Catania)
94) Sebastiano Musso Palazzolo Acreide (Siracusa) Torino
95) Cataldo Pane Gangi (Palermo)
96) Salvatore Paterniti Palermo Torino
97) Gaetano Pecoraro Prizzi (Palermo)
98) Giorgio Pelligra Gela (Caltanissetta)
99) Angelo Perno Riesi (Caltanissetta)
100) Giorgio Petrotta Piana dei Greci (Palermo)
101) Riccardo Pirri Palermo
102) Salvatore Pirrone Palermo Grugliasco (To)
103) Salvatore Piticchio Palagonia (Catania)
104) Domenico Pittari Catania
105) Santo Pittera Trecastagne (Catania)
106) Carmelo Pluchino Modica (Ragusa)
107) Giuseppe Pollara Prizzi (Palermo) Torino
108) Giuseppe Prestipino Basilicò (Messina)
109) Pietro Riccobono Montelepre (Palermo) Grugliasco (To)
110) Carmelo Ricotta Caltavuturo (Palermo)
111) Giuseppe Rini Caccamo (Palermo) Avigliana (To)
112) Domenico Rosa Ispica (Ragusa)
113) Giuseppe Rozzini Erice (Trapani)
114) Vito Ruisi Palermo
115) Cataldo Russo (Sicilia)
116) Paolo Saccuzzo Lentini (Siracusa)
117) Antonio Saitta Maletto (Catania)
118) Francesco Santapaola Catania S. Antonino (To)
119) Michele Sardo Caltanissetta Torino
120) Orazio Scandura Acireale (Catania)
121) Carmelo Scuderi Novara di Sicilia (Messina)
122) Francesco Seminara Gangi (Palermo)
123) Francesco Seminara Gangi (Palermo)
124) Angelo Seminato Piazza Armerina (Enna) Torino
125) Paolo Sessa Pachino (Siracusa) Torino
126) Sebastiano Simone Scordia (Catania)
127) Giuseppe Sorci Bagheria (Palermo)
128) Giuseppe Sparacio Carini (Palermo)
129) Biagio Strano Misilmeri (Palermo)
130) Gaetano Stuppia Mazzarino (Caltanissetta)
131) Leonardo Tornabene Palermo Piossasco (To)
132) Francesco Torre Milazzo (Messina)
133) Salvatore Valuit S. Stefano Quisquina (Agrigento)
134) Vincenzo Vinci Mazzarino (Caltanissetta) Orbassano (To)
135) Giovanni Vintaloro Catania
136) Antonino Viola Castelvetrano (Trapani)
137) Michele Viola Grammichele (Catania)
138) Antonino Virzì Cesarò (Messina)
139) Salvatore Vitale Castel di Iudica (Messina)
140) Cristoforo Vivacqua Ravanusa (Agrigento)
141) Francesco Zoè Mistretta (Messina)
142) Emanuele Zuppardi Gela (Caltanissetta)
Mauro Sonzini
studioso di Resistenza e Democrazia
vicepresidente ANPI Giaveno-Valsangone “Sergio De Vitis”
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