Un ricordo di alto livello politico scritto da Giovanni Russo Spena.
“Peppino, come Pio La Torre, ci hanno insegnato che la “borghesia mafiosa” non è un pugno di delinquenti che sparano ma intreccio di imprenditoria, finanza, amministrazione, politica. Non a caso la verità sull’uccisione di Peppino fu nascosta dallo Stato per più di venti anni, per il “depistaggio” di parte della magistratura e dell’Arma dei Carabinieri”.
Ricordiamo, oggi, l’uccisione di Peppino. Non per liturgia nè anniversario. E’ occasione per una riflessione sulla attualità dell’intreccio mafie/potere/politica. Ma anche di organizzazione di conflitto sociale su un tema come i processi mafiosi di valorizzazione del capitale (che anche la sinistra radicale, per ignoranza analitica delle strutture economiche, ha spesso rimosso). Come anche l’ultimo episodio di Tivoli dimostra, la memoria di Peppino fa ancora ai fascisti e ai reazionari paura. Perchè fu fondatore, tra i primi ,dell’antimafia sociale che rompe l’ipocrisia e la mistificazione dell’antimafia “ufficiale”. Fa paura perché il sistema di relazioni che uccise Peppino ancora agisce (come tentiamo di dimostrare nell’ultima edizione del libro “Anatomia di un depistaggio “Editori Riuniti, che ho scritto con Umberto Santino e Giovanni Impastato). Lo si vede chiaramente nel processo in corso sulla cosiddetta “trattativa Stato/mafia”, che tanto infastidisce gli alti colli. Vi è l’occasione di una ricostruzione perfino antropologica della formazione “sovversiva” (avrebbe detto Gramsci) dei gruppi dominanti politico/mafiosi degli ultimi trenta anni. Questo equilibrio sovversivo reazionario informa anche oggi la formazione di governi di unità nazionale dentro il pericoloso (per la democrazia costituzionale) contesto dello “stato di eccezione”. L'”unità nazionale” nasce dall’oblio del riciclaggio del denaro di mafia da cui nacque Forza Italia. Nasce dall’oblio di esponenti di centrosinistra che con la mafia hanno trattato dopo lo stragismo corleonese. Peppino, come Pio La Torre, ci hanno insegnato che la “borghesia mafiosa” non è un pugno di delinquenti che sparano ma intreccio di imprenditoria, finanza, amministrazione, politica. Non a caso la verità sull’uccisione di Peppino fu nascosta dallo Stato per più di venti anni, per il “depistaggio” di parte della magistratura e dell’Arma dei Carabinieri. Abbiamo interrogato, in Commissione Antimafia, il generale dell’Arma Subranni, che nel ’78 depistò l’assassinio di Peppino e oggi è imputato nel processo “Stato/mafia”. Vi è, insomma, una continuità, non a caso, dal ’78 in poi, persino nelle persone fisiche dei depistatori. Peppino è ancora oggi l’antimafia dell’occupazione di case, delle terre, delle cooperative che restituiscono a destinazione sociale redditi e beni dell’accumulazione mafiosa. E’ l’antimafia del conflitto sociale. E ci ricorda che il “depistaggio” è paradigma fondativo (con il “segreto di Stato”) dello stragismo italico e, quindi, della storia di un’Italia paese di frontiera tra Oriente ed Occidente. Peppino ci è maestro di politica ed idealità comunista ancora oggi.