UN SALUTO COMMOSSO A SALVATORE LI CAUSI DA BAUCINA SOPRAVVISSUTO ALLA STRAGE DI CEFALONIA

Riportiamo da fb il commosso saluto di Pippo Oddo cui l’ANPI si associa ringraziando Pippo per il suo prezioso contributo al recupero della memoria

Ciao, Turiddu. Nel rivolgerti commosso l’estremo saluto mi tornano alla mente tanti episodi del tuo vissuto, dal racconto della strage che ti ho sentito fare per la prima volta dentro la Camera del lavoro di Villafrati, al brillio che avevi negli occhi quando mi volevi regalare quello che chiamavi “il libro della mia storia”, la ricostruzione della strage del 1943 ad opera del tuo cappellano militare don Luigi Ghilardini.

Si è spento ieri a Villafrati all’età di 92 anni Salvatore Li Causi, bracciante agricolo, reduce di Cefalonia. Cuciniere dell’eroico capitano Antonino Verro (corleonese morto in combattimento contro i nazifascisti, pronipote dell’eroe risorgimentale Francesco Bentivegna e parente di Bernardino Verro), Turiddu Li Causi sfuggì per puro miracolo all’eccidio del settembre 1943. Tornato in Italia, corse subito a Corleone a fare visita alla famiglia del suo comandante. Poi, il 10 novembre 2011, su mia proposta, l’Istituto Gramsci Siciliano organizzò un convegno cui parteciparono tre sopravvissuti del barbaro massacro del 1943, i familiari di Li Causi e due nipoti del capitano Verro (medaglia d’argento della Resistenza). Turiddu non era potuto venire per difficoltà motorie, ma avevamo agli atti del convegno una sua intervista (rilasciata su mio suggerimento alla giovanissima antropologa Provvidenza Cuccia). Pochi giorni dopo i nipoti del capitano Verro andarono a fargli visita a Villafrati, per ringraziarlo a nome della famiglia delle attenzioni che aveva avuto nei riguardi del loro zio. Allego l’intervista:
INTERVISTA DI PROVVIDENZA CUCCIA
SCHEDA DI RILEVAZIONE
Nome Salvatore
Cognome Li Causi
Luogo e data di nascita Baucina 07/01/1921
Attività svolta prima della guerra bracciante agricolo
Grado durante la Seconda Guerra Mondiale soldato semplice e cuciniere
Scolarità seconda elementare
Luogo di rilevazione Villafrati
Data di rilevazione 15/10/2011 e 20/10/2011
Rilevatore Provvidenza Cuccia


Salvatore Li Causi è un anziano uomo di novant’anni, nel mese di ottobre ho avuto modo di conoscerlo insieme alla moglie, una coppia unita e affiatata che mi ha aperto le porte della loro casa e dei propri dolorosi ricordi. Mi rilascia un’intensa intervista sui fatti accaduti a Cefalonia durante la Seconda Guerra Mondiale, fatti di giovani soldati prima abbandonati e poi cancellati dai libri di storia.
La sua memoria scorre veloce su quei ricordi amari purtroppo quello che sfugge sono le date e i nomi delle città dell’isola di Cefalonia, ma grazie a “I martiri di Cefalonia” di Luigi Ghilardini, insieme riusciamo a ricostruire qualche pezzetto di questa triste pagina di storia. Egli è molto legato a questo testo che è di supporto alla sua memoria; una volta lo prestò e lo perse per sempre e con grande rammarico pensava sempre a quel libro smarrito. Solo in seguito, pensando e ripensando riuscì a ricordare la casa editrice e così ne ricevette un’altra copia che custodisce gelosamente: ricoperta da una pellicola di plastica, mostra i segni del tempo, delle numerose letture da parte del nostro anziano sopravvissuto all’eccidio. In particolar modo, l’intervistato mi parla della figura del tenente cappellano Don Luigi Ghilardini, del suo triste compito di conservare tutti gli oggetti e di riferire alle famiglie le ultime parole dei soldati che si apprestavano alla crudele fucilazione. Inevitabile fu quindi, per il cappellano, scrivere le memorie e soprattutto la verità di questo mostruoso eccidio. Anche dopo il suo arrivo a casa e anche dopo il suo matrimonio, il signor Li Causi non ha mai smesso di ricercare i compagni di sventura e il suo amato Capitano Verro.
Tutto ha inizio quando, il signor Li Causi, nel gennaio del 1941, fu chiamato a svolgere il normale servizio di leva, la sua destinazione fu il profondo nord: la batteria d’accompagnamento del 17^ Reggimento Fanteria, della città di Silandro, nella provincia di Bolzano. Dopo pochi mesi, la sua Divisione Acqui fu chiamata ad intervenire in Grecia, nello specifico nell’isola di Cefalonia, il 29 aprile del 1941, la più grande delle isole Ionie. Nell’isola, fu prima soldato semplice, poi cuciniere per i sotto ufficiali, per gli ufficiali e poi per la batteria del Reggimento. Il nostro reduce, ci spiega che la Divisione Acqui a Cefalonia ebbe il compito di presidiare il territorio e di difenderlo dal nemico. L’8 settembre del 1941 prende il comando Pietro Badoglio, “quel mercoledì il sole sorge a Cefalonia su undicimilasettecento italiani che muoiono dalla voglia di andar via e su ottantamila isolani, discendenti
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dell’antico re Kefalos, che muoiono dalla voglia di vederli andar via. Occupanti e occupati convivono da oltre due anni senza inimicizia e con qualche confidenza”1. Badoglio fece alleanza con gli anglo-americani e questa decisione portò i soldati italiani, a Cefalonia, a voltare le spalle agli alleati tedeschi. Così scrive Alfio Caruso nel libro “Italiani dovete morire. Il massacro della Divisione Acqui a Cefalonia”: “la guerra continua con un nemico in più, l’ex amico che già aveva tradito nel ’15 e che lo ha rifatto adesso a onta di ogni giuramento e di ogni promessa”2. Nei giorni a venire, e in particolar modo “nel giugno il comando della Acqui è assunto dal generale di divisione Antonio Gandin”3 che per molti giorni non seppe prendere una decisione sul destino di questi figli di madre, combattuto e tormentato sul fatto di voler salvare la vita o l’onore dei soldati o entrambi. I tedeschi iniziano, dapprima, una guerra psicologica nei confronti degli alleati italiani con il lancio di “manifestini”, così mi riferisce il signor Li Causi: i manifesti, i volantini e con gli apparecchi li facevano volare per tutti l’isola e leggevamo questi volantini: “Camerati, soldati, italiani i vostri superiori vi hanno tradito! Fate come hanno fatto i vostri compagni dalla terra ferma e di tutti gli altri fronti, si stanno recando tutti nelle loro famiglie, stanno rimpatriando tutti, fate come loro”. Nel frattempo, il comando italiano dall’Italia non riceveva nessuna risposta o direttiva, tutti erano scappati anche la famiglia Reale. “I dodicimila della Acqui hanno rotto i ponti con il mondo intero. Da vivi possono lasciare l’isola in due soli casi: o prigionieri dei tedeschi o liberati dagli Alleati”4. Non convinti dei volantini e dei messaggi lanciati dai tedeschi, gli italiani sono chiamati a fare la guerra contro gli alleati, d’ora in poi considerati nemici. Nei ricordi del nostro anziano, subentra la figura del Comandante Antonino Verro. Il suo capitano era un ingegnere, nacque a Corleone e morì nella strage di Cefalonia il 21/09/1943, per lui il signor Li Causi riceveva e consegnava la posta, passava le telefonate e cucinava. L’ultimo ricordo del Capitano Verro risale a quella notte in cui Li Causi e altri soldati salirono su una collinetta nei pressi di ponte Kimonico, i cannoni furono smontati e someggiati fin sopra la collina con il solo ausilio di muli, difatti “la Acqui è fornita soprattutto di muli,
1 A. Caruso, Italiani dovete morire. Il massacro della Divisione Acqui a Cefalonia, Tea, Milano 2000, p. 11.
2 A. Caruso, op. cit., p. 33.
3 Ivi, p. 17.
4 Ivi, p. 29.
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asini, di qualche cavallo e di pochissimi automezzi”5. Insieme a Li Causi leggiamo, più precisamente, come l’eroico Capitano Verro, comandante della Compagnia d’accompagnamento del 17^ Reggimento Fanteria, riunì intorno a sé una trentina di artiglieri, ma non fecero in tempo a montare i cannoni e arrivarono dall’alto gli stukas e dalla terraferma i tedeschi invasero l’isola con gli idrovolanti. A questo punto, gli italiani contrattaccarono lanciando bombe a mano, ma alla fine il glorioso Comandante Verro insieme ai valorosi artiglieri scomparvero nella mischia. Questa, per Salvatore Li Causi fu l’ultima volta che lo vide.
Dopo la ricostruzione, di questo doloroso momento, Li Causi ricorda come a questo punto, la guerra poteva considerarsi finita, o meglio persa, gli italiani si arresero e molti di loro dovettero subire l’umiliazione di essere disarmati, molti altri, come gli ufficiali, furono fucilati a Capo San Teodoro presso la “Casetta Rossa” o “Casa Rossa”. Si trattava di un villino tinteggiato di rosso, fu il punto di raccolta degli ufficiali della Divisione Acqui destinati alla fucilazione. In questi momenti, mi racconta il nostro intervistato, necessaria era la figura del tenente cappellano, Don Luigi Ghilardini che aveva il compito di raccogliere tutti gli oggetti cari dei soldati prossimi alla morte e queste erano le parole pronunciate, prima di andare a morire, dai soldati: «Mi aggrappo alla vostra tonaca per scampare cinque minuti in più di queste macerie». Lì, oltre un centinaio di ufficiali, prigionieri di guerra, trascorsero le loro ultime ore di vita, in attesa del loro turno davanti al plotone d’esecuzione. Successivamente, il nostro reduce fu fatto prigioniero insieme al Generale Giovanni Brillantino, li fecero camminare sui morti per molti chilometri e raggiunsero Argostoli. Arrivati nella capitale, li rinchiusero nella caserma “Mussolini”, dopodiché i tedeschi presero nuove direttive, fecero saltare per aria tutto ciò che avevano: armi, munizioni e viveri. L’amico del nostro reduce, il sergente Giovanni Brillantino consigliò di rischiare e di andare via con i tedeschi e saliti sul camion, si diressero al porto. Una volta arrivati, i tedeschi li lasciarono lì, senza dire una parola e questa fu per loro la salvezza. Solo dopo, il Capitano Renzo Apollonio prese per loro
5 Ivi, p. 13.
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provvedimenti, scrisse delle licenze e li fece imbarcare sui cacciatorpedinieri6. Prima di partire il tenente cappellano, volle dalle mani dei soldati, prossimi al rimpatrio, una cucchiaiata di cibo, era contento di partire con loro. Ancora, mi riferisce il nostro intervistato, prima di allontanarsi dal porto, i soldati lanciarono in mare tantissime corone d’alloro per tutti coloro che erano morti a Cefalonia e mentre si allontanavano, intonarono questi commoventi versi: «quelli che son venuti non son tornati, sopra i monti di Cefalonia sono rimasti». Una volta imbarcati, il nostro intervistato arrivò a Taranto, poi raggiunse Villa San Giovanni, da lì attraversò lo stretto di Messina con mezzi precari e con il rischio di annegare in mare e una volta a Palermo portò la sua vita nell’amato paese natale: Baucina.
6 Il cacciatorpediniere nacque in Gran Bretagna poco dopo la Guerra civile cilena del 1891 e durante la guerra sino-giapponese (1894-1895). Questa piccola barca, molto più veloce delle navi di maggiori dimensioni, poteva avvicinarsi rapidamente a queste, lanciare le sue micidiali torpedini e fuggire via.
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I Intervista
D. Quando è partito per la guerra?
R. Io sono partito nel gennaio del 1941, mi sono presentato al distretto di Palermo, poi da Palermo, mi hanno assegnato al corpo: 17^ Reggimento Fanteria di Silandro (BZ) quasi, quasi al confine con la Svizzera. Dopodiché, ero io al Reparto Istruzione, la mia divisione che si trovava in Grecia, aveva bisogno di uomini e c’hanno preparato e mi hanno imbarcato per Cefalonia.
D. E lei cosa faceva? Che compiti aveva?
R. Prima ero soldato, tutti i miei compagni erano all’assalto e pure il mio capitano Verro e c’hanno appizzato la vita e io sono salvo per fare il cuciniere. Ho fatto il cuciniere per i sottoufficiali, per gli ufficiali e per la batteria. Io con la cucina ero un po’ distante dal fronte e sono qua.
D. E in che città era?
R. [Nomina diverse città] Peratata, Kardakata, Razata, Capo Munta, Skala, Valsamata, Poros, Ponte
Kimonico.
D. Lei è stato in tutti questi posti?
R. Non solo ci sono stato durante quella baruffata, ma io sono stato in una carretta, un furgone, con otto soldati e ufficiali, abbiamo girato tutta l’isola di Cefalonia in otto giorni, perché nei bivi non c’era nessun segnale. Sono stato un mese a mettere tabelle numerate, così i portaordini in motocicletta potevano andare nelle basi e quindi ho fatto anche questo.
[Poi mi racconta del momento dell’assalto dei tedeschi a Cefalonia].
Gli stukas venivano, non hanno fatto tempo a montare e smontare i cannoni per portarli in collina, volavano venti, trenta stukas e hanno bombardato. Il Generale Gandin diede proprio ordini al Capitano Verro di prendere questa posizione. Su strada i cannoni erano trainati con i muli, in collina i cannoni venivano sdisarmati, le ruote, la testata, il freno ed erano someggiati dai muli per poi essere montati, ma non hanno fatto in tempo e vennero gli apparecchi e cominciarono a bombardare, a mitragliare. Quando mi hanno preso prigioniero, io ero ancora armato con il mio fucile, mi hanno stretto con gli altri e tutti dovevamo depositare queste armi, allora in fila indiana…
D. E lei dov’era quando è successo questo? In che città?
R. E questo non me lo ricordo.
Mi hanno preso prigioniero insieme agli altri e allora eravamo in massa e in fila indiana e gettavamo le armi, ficimu un munzeddu di moschetti quantu sta casa! Ci hanno portato distanti da Argostoli, a piedi camminando sopra i morti perché eravamo in terra di combattimento e ci hanno portato al campo di concentramento. C’era un baglio, una scala, un balcone, eravamo nella caserma Mussolini, perché c’erano i fascisti in quel caseggiato. C’hanno fatto uscire fuori per prendere una gavetta d’acqua e una galletta, eravamo inquadrati e
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rientravamo. Gli ufficiali che erano là erano tutti sdisordinati, peggio di un militare per non farsi riconoscere; allora uscivano questi ufficiali e li chiamavano a rapporto e i tedeschi con il mitra, armati, li portavano sopra i camion e li portavano a punta San Teodoro7, “la casina rossa”8, dove c’era il plotone di esecuzione per farci la fucilazione. Invece per i soldati, prendevano sei, otto soldati e, sempre sotto comando, li portavano a fare pulizia dove s’era combattuto, dove c’era un pozzo [i morti] li mettevano là dentro, c’era un fosso là dentro. Io e Giovannino Brillantino, cose da pazzi, lui faceva il muratore e quando era là e questi ci hanno chiamato, siccome Mussolini aveva dato ordine ai tedeschi che i soldati italiani nella prigionia potevano essere «soldato in tedesco», lo poteva fare. E così, Giovannino mi dice: «Turiddu, andiamo con loro? Che dobbiamo fare?». Loro facevano delle costruzioni e dovevamo fare uno spaccio e gli abbiamo detto di sì e così ci portavano pure da mangiare, ci rispettavano, ci hanno messo la fascia di «deutsch soldat», soldato tedesco e accussì nni sarbamu! Poi siamo andati a Capo Munta insieme a loro che avevano una batteria di cannoni antinavale in caso di sbarco nemico, Capo Munta era una zona di sbarco importante. Poi loro non potevano stare più là, le cose andavano male perciò loro se ne sono andati, io in mano a loro facevo sempre il cuciniere. Un giorno hanno fatto saltare tutte cose per aria, se la stavano filando. A noi ci hanno abbandonato e poi ci hanno portato ad Argostoli, quello che ha preso i nostri provvedimenti è stato il Capitano Apollonio, abbiamo aspettato il mezzo giusto e dopo tante sofferenze e tanti guai, dopo tante cose, principalmente per fare il cuciniere mi sono scansato di morire, ci purtavu la vita a casa.
D. Poi vi hanno imbarcato? Come siete tornati a casa?
R. Siamo sbarcati a Taranto, poi a Teano, qui c’era il Reggimento di compimento per gruppi di combattimento. Mussolini, ancora in alt’ Italia, con i tedeschi erano ancora insieme, i soldati sballati li portavano là. Quando siamo arrivati noi, uno di Ciminna e uno di Calamigna, questo Capitano Apollonio aveva un blocco di carta a quadretti e una macchina da scrivere e fa un foglio con le chiamate. Siamo andati a prendere il mezzo di fortuna e siamo andati a Napoli per prendere il treno, era una corsa sola, affollatissima. Salgono sul treno i carabinieri e ci chiedono le licenze, scendiamo dal treno e ci tolgono le licenze, io non faccio in tempo per prendere il treno e me ne vado di nuovo in sala d’aspetto. L’indomani sera prendo il treno e arrivo a Villa San Giovanni e corro per prendere l’imbarcazione, ma quando ho visto che nella barca ci voleva un dito per entrarci l’acqua, ho aspettato l’altro traghetto dell’indomani e poi arrivo a Palermo. Quando noi dovevamo rimpatriare c’erano le commissioni greche, le commissioni inglesi, le commissioni americane, le commissione italiane, però c’erano quelle greche che raccomandavano alle signorine greche questo:« Attenzione,
7 Più precisamente Capo San Teodoro.
8 La “Casetta Rossa” o “Casa Rossa”, un villino tinteggiato di rosso colpito dalle bombe tedesche, nei pressi di Capo S. Teodoro, all’estremità sud del golfo di Argostoli, nella parte occidentale dell’isola di Cefalonia, fu il punto di raccolta degli ufficiali della Divisione Acqui destinati alla fucilazione. Lì, oltre un centinaio di ufficiali, prigionieri di guerra, trascorsero le loro ultime ore di vita, in attesa del loro turno davanti al plotone d’esecuzione.
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attenzione signorine greche state attente ai soldati italiani, non ci date tanta confidenza perché stanno ancora pochi giorni qua e poi se ne vanno a casa e voi restate ingannate!»9.
9 Nello specifico, si tratta di un avviso che il signor Li Causi ricorda e ripete a memoria in lingua greca e di cui solo in seguito ha conosciuto il significato.
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II Intervista
Così il signor Li Causi mi racconta nella sua seconda intervista:
«Sono andati a presidiare, la mia divisione, a mantenere il territorio, i soldati ci stavano sempre in difesa dal nemico. Cos’è successo? E’ successo che Mussolini ci voleva fare perdere la guerra e ha preso il comando Badoglio, questo invece di continuare la guerra come aveva fatto Mussolini, ha fatto all’alleanza con gli inglesi e con gli americani e volta le armi contro i tedeschi. La baruffata, della Divisione Acqui, fu per questo. Gli ufficiali invece cosa hanno fatto, gli hanno detto a Badoglio di sì e si sono alleati con l’America quando si è contrastato che si è fatto l’armistizio abbiamo iniziato a separarci, loro hanno il loro fronte e noi il nostro fronte e ci siamo divisi e aspettavano una nostra decisione. E quale era la decisione? Il comando italiano, dall’Italia non riceveva nessuna risposta, pure la famiglia reale, quelli se ne sono scappati e hanno abbandonato l’Italia e hanno seguito l’alleanza di Badoglio. Allora i tedeschi a questo punto hanno iniziato a fare “manifestini” per fargli capire…».
D. Cos’hanno fatto i tedeschi?
R. I manifesti, i volantini e con gli apparecchi li facevano volare per tutti l’isola e leggevamo questi volantini:
«Camerati, soldati, italiani i vostri superiori vi hanno tradito!
Fate come hanno fatto i vostri compagni dalla terra ferma e di tutti gli altri fronti, si stanno recando tutti nelle loro famiglie, stanno rimpatriando tutti, fate come loro».
Siccome noi non potevamo più, gli stukas, trenta quaranta al giorno, la mattina presto ci bombardavano e mitragliavano. Loro avanzavano e uccidevano, invece i prigionieri sono stati fatti dopo che noi ci siamo arresi, loro ci hanno preso, ci hanno sdisarmato, nni misiru comu i pecuri e ci hanno portato ad Argostoli, ma ritornando ai volantini, loro non ci hanno convinto con i manifestini e abbiamo fatto la guerra. Finì la guerra perché noi ci siamo arresi, ci sono stati quelli che sono morti e quelli che sono rimasti vivi come me. I tedeschi ci hanno preso vivi, ci hanno sdisarmato, ci hanno inquadrato e ci hanno fatto camminare sopra i morti fino a quando ci hanno portato in terreno libero e ci hanno portato ad Argostoli, lì ci hanno chiuso in questa caserma chiamata “Mussolini” perché c’erano i fascisti là, c’era un grande cortile ed eravamo tutti seduti là e c’era ancora [tra di noi] qualche ufficiale chi si l’avìa squagghiatu, che erano tra di noi e che era scappata dal fronte e adesso si trovavano con noi nel campo di concentramento, erano sdisordinati, senza fascia, senza gradi per non farsi conoscere. Gli ufficiali speravano di essere considerati come prigionieri, ma ad ogni modo si sono presentati come ufficiali e li hanno portati sopra i camion e se li sono portati e li portavano in questa “casina rossa” a Punta San Teodoro, dove c’era il plotone di esecuzione che li aspettava per essere fucilati, non subito, ma erano interrogati, poi c’era il tenente cappellano e quelli ci dicevano: «Mi aggrappo alla vostra tonaca per
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scamparmi cinque minuti in più di queste macerie». E mischini erano morti prima di essere fucilati. Qualcuno ritardava ad andare là e venivano i tedeschi e ci davano calci dietro.
D. Lei li ha visti?
R. No, detto da quelli che venivano.
Dopodiché hanno preso provvedimenti, c’erano le compagnie lavoratrici, loro hanno avuto ordine di abbandonare tutto quello che avevano e di fare saltare per aria non hanno lasciato niente, le armi, i viveri, non si sono portati niente, solo loro, carne e ossa. Il mio amico, il sergente Giovanni Brillantino mi disse che stavano facendo saltare tutto per aria perché se la dovevano filare perché le cose andavano male, noi dobbiamo andare con loro. Che ci facevano loro? Ci potevano pure ammazzare!
D. Nessuno ha cercato di scappare, nascondersi?
R. Dove potevano andare c’erano loro dappertutto.
D. La popolazione locale vi aiutava?
R. Loro si spaventavano, le famiglie comuniste le impiccavano, se trovavano un soldato italiano come favoreggiamento l’ammazzavano sul colpo. Non lo facevano.
Allora siamo andati con loro ad Argostoli alla banchina del porto, loro scendevano e senza comandi s’inquadravano, erano già avvertiti e per noi non hanno preso nessun provvedimento. Undicimila soldati eravamo nell’isola, c’era Corfù, Cefalonia, Zante, Santo Maura [detta anche Leucade], Itaca e altre.
Il capitano Apollonia ha preso i nostri provvedimenti:
«Ragazzi ora dobbiamo cercare di rimpatriare, dobbiamo stare attenti ai ribelli greci».
Questo capitano Apollonio, sapeva parlare tedesco, paura non aveva, era capitano d’artiglieria. Io facevo parte del 17^ Reggimento Fanteria sono andato in Grecia e ci hanno distribuito per tutte le compagnie, dove avevano bisogno di uomini a me mi hanno mandato in batteria che faceva parte del 17^ Reggimento Fanteria, infatti la mia batteria era d’accompagnamento, quando la fanteria era in linea, avanzava noi con i cannoni facevamo sbarramento avanti in modo tale che la fanteria trovava la strada libera. Quando poi è successo che si doveva attaccare che c’era il Capitano Verro, era comandante della mia batteria. Allora che ha fatto, i soldati con i cannoni sono saliti in collina, Verro si doveva mettere in posizione e ha cercato il terreno, dove doveva piazzare i cannoni perché era in difesa di qualche sbarco, era per non farli sbarcare nell’isola, ma non si è fatto in tempo. Questi muli furono someggiati, i cannoni erano fatti pezzi per pezzi, il cannone si divideva in cinque parti: aveva due ruote, lo scudo e una slitta, la coda, la testata. C’erano cinque, sei soldati che servivano a questo cannone, c’erano quattro cannoni, perciò ci volevano solo ventiquattro soldati per maneggiare i cannoni. C’era il puntatore e l’aiuto puntatore, c’era il Capitano che aveva l’apparecchio per dare le gradazioni, poi c’era il caricatore, le bombe erano un po’ più grosse di una bottiglia d’acqua.
D. E com’erano?
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R. Erano di ferro, imbottite di tritolo e poi riempite di schegge, pezzi di bulloni, chiodi, schegge di ferro. Sulla collina, il Capitano Verro non ha fatto in tempo a fare puntare i cannoni.
D. E lei cosa ha fatto quel giorno?
R. Io ho accompagnato a tutti loro fino a quando siamo arrivati al posto di sosta, chi doveva andare in collina era per primo il Capitano e poi i cannoni e i soldati, questo posto era chiamato cocucciolo…
D. Vicino dove?
R. [Non ricorda]
Non ancora posizionati, di mattina presto sono venuti gli apparecchi, gli idrovolanti e hanno sbarcato, i soldati con il Capitano se ne sono accorti e allora hanno cominciato a tirare bombe a mano, il Capitano e i soldati furono tutti distrutti, in parte qualche conducente del mulo che era lontano e io che ero ancora più distante ci siamo salvati.
D. Quella mattina che è successo?
R. Ora vengo.
L’unico che ha preso provvedimenti è stato il Capitano Apollonio che ci voleva rimpatriare con i battelli. Il comando greco che aveva ricevuto comando inglese, questo Capitano ci ha detto: «State calme ragazzi che verranno i cacciatorpediniere»10. Prima di imbarcarci ci hanno fatto preparare il mangiare e quando eravamo pronti per prendere questo mezzo, il tenente cappellano Don Luigi Ghilardini che è stato l’autore di questi libri, ci ha portato dove c’era questo rancio e, inquadrati per tre, per la gioia…
D. In quanti eravate rimasti?
R. Mille uomini.
Allora questo tenente cappellano, Don Luigi Ghilardini, passava tra di noi e voleva da noi una cucchiaiata di cibo, con la felicità che stavamo rimpatriando. Allora ci siamo imbarcati, queste navi si sono staccate dal porto e in partenza un pensiero grosso era per quelli che erano rimasti a Cefalonia, tanti compagni, tanti soldati, allora c’erano tanti soldati che avevano preparato tante corone che sono state lanciate a mare, cantando una canzone, due parole ricordo:«Quelli che son venuti non son tornati sopra i monti di Cefalonia sono rimasti». Una cosa commovente!
D. E il Tenente Cappellano è rimasto a Cefalonia?
R. No, con noi è venuto e pure il Comandante Apollonio.
D. E il Capitano Verro quando l’ha visto l’ultima volta e i suoi compagni?
R. Non l’ho visto più, eravamo a Keramies. Una volta venuti gli apparecchi, hanno lanciato le bombe a mano, infatti il libro dice che, il Capitano Verro, è scomparso in mezzo ai suoi compagni, i suoi artiglieri.
10Il cacciatorpediniere nacque in Gran Bretagna poco dopo la Guerra civile cilena del 1891 e durante la guerra sino-giapponese (1894-1895). Questa piccola barca, molto più veloce delle navi di maggiori dimensioni, poteva avvicinarsi rapidamente a queste, lanciare le sue micidiali torpedini e fuggire via.
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D. Su richiesta del signor Li Causi leggo alcune pagine del libro “I Martiri di Cefalonia” di Luigi Ghilardini. «L’eroico Capitano Verro, comandante della Compagnia d’accompagnamento del 17^ Reggimento Fanteria, riuniti intorno a sé una trentina di artiglieri, contrattaccava a sua volta i tedeschi ricacciandoli fino al ponte Kimonico. Quivi nel tentativo di recuperare i pezzi che aveva perduto in mattina, impegnava un combattimento disperato contro il grosso delle forze tedesche colà attestante. Circondato da ogni parte contrattaccava il nemico con bombe a mano scomparendo infine nella mischia insieme ai suoi valorosi artiglieri».

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