Il progetto
Io ho visto non vorrebbe essere solo un libro, ma diventare un progetto per non dimenticare quello che è accaduto durante la guerra contro la popolazione civile italiana condotta dai nazifascisti tra il 1943 e il 1945.
Un progetto semplice. Fatto di immagini e di parole. Di parole e di immagini.
Le parole sono quelle che servono per cercare di dare corpo alle emozioni, come quelle del libro.
Le immagini sono quelle di chi ha portato per sempre con sé il dolore di quegli anni.
Partecipare al progetto è semplice. E’ sufficiente scrivere qua sotto quello che si è visto allora. O un pensiero, un ricordo. O anche solo il modo per essere rintracciati e raccontare.
Quello che ne nascerà non lo so: racconti da pubblicare qui sul web, una nuova edizione del libro, una semplice raccolta di ricordi…
Quello che Io ho visto diventerà lo deciderà soprattutto chi deciderà di partecipare.
Pier Vittorio Buffa
Ho conosciuto Ignazio Maiorana a Palermo, durante la presentazione di Io ho visto. Ci ha regalato un bell’intervento in cui ha raccontato di suo padre. Gli ho chiesto di inviarmi il testo. Eccolo. Grazie Ignazio
Le cartoline sul vischio
Da ragazzini non avevamo soldi per comprare gli addobbi. L’albero di Natale lo facevamo con rametti di vischio legati a un chiodo al muro. Alle bacche collose applicavamo le cartoline colorate di auguri natalizi e pasquali indirizzate negli anni precedenti a mio padre, recanti le affettuosità di amici lontani. Ne facemmo per diversi anni alberi di Natale con le cartoline al posto delle palline. Non sapevamo del valore documentale di quei brevi scritti firmati. Mia madre non si curava molto di quelle cartoline, se ci permetteva di usarle come addobbi natalizi. A inviarle a mio padre, a Castelbuono, erano stati numerosi compagni di militare e di prigionia nei campi tedeschi. Le cartoline cominciarono a giungere a casa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi, via via, il loro arrivo si diradò col passare degli anni. Di quella esperienza in Germania non si parlava in casa. Vanni, come tanti altri reduci, voleva rimuoverla dalla propria memoria.
Avevo dieci anni l’unica volta che vidi piangere mio padre. Durante un banchetto matrimoniale gli stavo seduto di fronte al tavolo. Un trio musicale stava eseguendo Paloma, uno struggente tango spagnolo. Vanni aveva le gote rigate.
– Pa’, perché piangi? – gli chiesi stupito e preoccupato.
– È la musica di la prigiunìa – rispose asciugandosi le lacrime.
Non capii. Compresi quarant’anni dopo, quando seppi da ex deportati che anche in altri campi tedeschi era consuetudine accompagnare alla “doccia” (camera a gas) i deportati nudi al suono di violino e fisarmonica sulle note di Paloma. Il brano veniva eseguito da due musici al seguito. Lo sventurato condannato a morte veniva caricato su un carro trainato da un paio di suoi compagni. L’immagine era sempre il preludio del forno crematorio.
Ma chi era stato in realtà Giovanni Maiorana, lontano dalla sua attività di allevatore e casaro tra le montagne madonite? Tra le sue passioni quella della medicina. Non aveva potuto studiarla per le ristrettezze economiche della sua famiglia di pastori. Nel 1928, al servizio di leva militare in Fanteria, tuttavia, fu inserito nel reparto sanità per il suo interesse verso la Medicina.
Vanni fu richiamato in servizio a Roma intorno al ’42, durante la seconda guerra mondiale. Dopo poco tempo, fu preso dai tedeschi e condotto prima in Jugoslavia e poi trasferito nel campo di sterminio di Kahla, nei pressi di Lipsia, in Germania. Nel caos e nella contraddizione di quegli eventi, nessuno ne sapeva il motivo.
Comunque la qualifica di provenienza a Vanni giovò. Tra le migliaia di ospiti in quel campo fu organizzata un’infermeria gestita da un medico e da un infermiere, anch’essi prigionieri. L’aiutante del dottore era proprio Giovanni Maiorana. Egli aveva il compito di registrare, ogni mattina, nome, numero e stato di salute di quanti marcavano visita. Era una processione giornaliera di forme umane denutrite. Tra queste persone in coda si trovò, un giorno, anche un giovane preso dai tedeschi appena arruolatosi in Marina: era Vincenzo Caligiuri e aveva 16 anni. Grazie a lui ho potuto avere diretta e spontanea testimonianza su un particolare aspetto della prigionia di mio padre. Ecco come sono venuto a sapere.
Da Caligiuri, capitano di Marina in pensione e ormai ottantenne, alcuni anni fa, mi sentii chiamare mentre stavo attraversando la strada. Seduto sull’uscio di casa, mi disse:
– Lei è figlio di Vanni Maiorana, vero? Venga, venga… – disse molto deciso – suo padre mi ha salvato la vita.
– Si sta sbagliando – risposi. – Mio padre è scomparso da trent’anni.
– Lo so – replicò Caligiuri – Si accomodi dentro, la prego.
L’anziano ufficiale di Marina cominciò il suo racconto.
– Mi sentivo morire, mi trascinavo in coda a tanti altri prigionieri e deportati. L’unica cosa da fare era recarmi in infermeria a chiedere aiuto. “Come ti chiami?”, mi chiese l’infermiere.
– Caligiuri, risposi. E lui: – “Caligiuri? Di dove sei?”
– Di Castelbuono.
Vanni, sgranando gli occhi: “Anch’io. Mettiti da parte, lascia passare gli altri. Alla fine penserò a te”.
Durante il racconto Caligiuri non conteneva la sua emozione. Il suo torace era scosso da piccoli sussulti. “Una pausa per un gelato”, consigliò la moglie.
– Posso ritornare un’altra volta, se volete – mi sembrò giusto proporre.
– No, meglio subito – intervenne determinato l’anziano signore. E riprese a raccontare.
– Terminate le visite del medico, Vanni mi chiese se fossi disposto a isolarmi nel recinto degli affetti da scabbia. Mi assicurò che lì poteva assistermi meglio. Gli risposi di sì, forse potrò salvarmi…, pensai. Vanni mi fece spogliare e mi spalmò in tutto il corpo una puzzolentissima pomata. In quella baracca soggiornai dieci giorni, godendo di una razione alimentare leggermente più congrua, utile a riprendermi fisicamente. L’ultimo giorno Maiorana mi riferì che i tedeschi cercavano un gruppetto di prigionieri più idonei alla raccolta di patate in un campo lontano da lì. Mi chiese se me la sentivo di andare. Qualche patata forse avrei potuto furtivamente mangiarla…
E così fu. Maiorana era persona sensibile, generosa. Non sappiamo quante persone aiutò e come lo fece. Sicuramente molte, a giudicare dalle cartoline che i suoi amici gli spedivano dopo la guerra. Vanni e Vincenzo non s’incontrarono più nel campo. Non seppero mai perché furono presi dai tedeschi che erano alleati degli italiani durante il fascismo. Né i rispettivi familiari avevano loro notizie. I loro destini furono separati. Finita la guerra, comunque, ognuno di loro, tra pene e guai, riuscì a guadagnare la propria casa, a riabbracciare la famiglia. Vincenzo riprese la navigazione militare, Vanni raggiunse la moglie e le due figliolette nate prima del suo richiamo alle armi. Subito riprese il lavoro di curatolo nelle aziende armentizie, lontano da casa.
Dopo la pesantissima esperienza vissuta, mio padre necessitava di un recupero psicologico e affettivo, ma il dovere e il bisogno di pensare al sostentamento della famiglia non gli davano tempo né possibilità di farlo.
Dopo alcuni anni Vincenzo Caligiuri, molto più giovane di Vanni, si fece una famiglia a Palermo. Ma un altro duro colpo lo scosse: la perdita di un figlio di 16 anni di età per un incidente in vespa. La notizia destò scalpore al suo paese natìo dove fu portata la salma per essere tumulata. Vanni lo seppe e scese dalla montagna, raggiunse in tempo i dolenti al cimitero. Fermatosi dinanzi alla bara, disse:
– Questa volta non posso far nulla.
Fu allora che Vincenzo lo riconobbe. Quattro persone hanno dovuto separare i due ex prigionieri amici dal loro commosso, fortissimo abbraccio nell’infausta evenienza. Ma Caligiuri solo a tarda età si decise a raccontare a qualcuno la sua vicenda di prigioniero in Germania. Fino ad allora aveva taciuto.
Dovrei approfondire la storia di mio padre nei campi tedeschi. Oggi le cartoline usate da bambino per l’addobbo dell’albero di Natale agevolerebbero la mia ricerca. Ma sono andate tutte perdute. Unico cimelio in mio possesso è una cassettina in legno dove Vanni teneva i piccoli oggetti di valore durante la prigionia. Fino ad alcuni anni fa, aprendola, sentivo ancora un pungente odore di medicine.
Per rendere omaggio alla prigionia in Germania di mio padre sono andato a visitare un campo di sterminio. È poca cosa. Allora, mentre c’è ancora facoltà e piacere di scrivere, ho voluto raccogliere e proporre questi doverosi appunti perché l’esperienza sulla quale mio padre preferì tacere non venga rimossa del tutto.
Ignazio Maiorana