LIVIO PEPINO CONTRO LA MANOMISSIONE DELLA COSTITUZIONE

Dal 2006 al 2010 è stato membro del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. In passato ha ricoperto i ruoli di consigliere di Cassazione.

La parentesi della Costituzione

Pubblicato il 5 ago 2014

Livio Pepino – da il manifesto

C’è un fatto, accaduto in questi giorni e apparentemente secondario, che mette a nudo

l’anomalia della situazione politica e istituzionale del paese e delle iniziative che la

accompagnano, a partire dalla «riforma» costituzionale e da quella della legge elettorale.

È la mancata elezione, da parte del parlamento in seduta comune, dei componenti di sua

spettanza del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguente proroga senza

limiti predeterminati del Consiglio scaduto (della cui integrazione si riparlerà, forse, a

settembre).

Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elettivo (per esempio il parlamento)

resta in carica, ancorché scaduto, perché non sono state indette nuove elezioni: lo dico

sommessamente, sperando che l’affermazione venga considerata un paradosso e non un’idea

utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra storia costituzionale (salvo

un remoto e diverso precedente) e — si noti — l’elezione non è stata neppure tentata.

La parentesi di rappresentatività di un organo di rilevanza costituzionale non è cosa da

poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e strumentalmente — tratto argomenti a conferma

della necessità di cambiare le regole. È vero esattamente il contrario! In tutte le precedenti

consiliature, anche nei momenti di più aspra conflittualità politica, l’elezione dei

componenti di spettanza del parlamento è avvenuta nei termini (e spesso con l’indicazione

di giuristi di prim’ordine). È, dunque, evidente che il difetto non sta nelle regole (rimaste

inalterate) ma nelle forze politiche e, in particolare, nella maggioranza parlamentare,

all’apparenza incapace e disinteressata a promuovere confronto e convergenze. Ma è solo

un’apparenza, ché non si tratta di inadeguatezza ma dell’ennesima dimostrazione della

cultura che permea la maggioranza politica (quella palese e quella allargata di supporto):

una cultura che rifiuta il confronto e la ricerca di soluzioni condivise e conosce solo le

ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfasciare il sistema. Non è cosa nuova,

neppure nella storia repubblicana. Ma conviene segnalarne gli ascendenti.

All’inizio dell’epoca berlusconiana lo teorizzò in maniera brutale il costituzionalista di

riferimento della destra, Gianfranco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò

testualmente: «È sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo.

Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno?

Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione

anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». Non c’è riuscito

Berlusconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il consenso della metà più uno degli

italiani, ma solo — come ama ripetere — di 11 milioni di votanti, dimenticando quei 38

milioni di cittadini che nessuna delega o sostegno gli hanno dato.

Qualcuno — tra gli altri i migliori costituzionalisti italiani — ha provato a segnalare

l’anomalia di questa doppia «riforma» (costituzionale ed elettorale), dei suoi contenuti

e delle sue modalità. Subito è arrivata la severa e sprezzante risposta del presidente del

 

Consiglio e della ministra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno

ironizzato sull’età e sulle competenze dei soliti «professoroni». Anche qui, non è inutile

ricordare i precedenti: questa volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di istituzioni che

di ordine nelle piazze… — il quale, nel giugno 1949, si scagliò contro il «culturame» degli

intellettuali di cui la politica dovrebbe liberarsi. Allora non mancarono le prese di distanza

e le reazioni politiche. Oggi tutto tace. E, se non sorprendono le parole di Renzi (la cui

considerazione per la cultura è dimostrata dalla concessione degli Uffizi come trampolino

per sfilate di moda), spicca il silenzio miope e complice dei (pochi) residui intellettuali del

suo partito.

C’è di che preoccuparsi, e non poco. Ma, mentre tutto questo accade, il presidente del

Senato gigioneggia sul termine «canguri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in

Trentino, si scandalizza che taluno evochi derive autoritarie (sic!). Un tempo, per molto

meno (la cosiddetta legge truffa), si dimisero ben due presidenti del senato mentre

l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicembre 1952, citava nientemeno

che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle

illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato

il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anziché esorcizzarli, sarebbe meglio

cercare di ripristinarli. Anche a costo di turbare la tranquilla vacanza del presidente della

Repubblica.

 

 

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