GIUSEPPE LO BIANCO IN RICORDO DI MARIO FRANCESE

Giuseppe Lo Bianco

L’ho scritto 11 anni fa, lo ripropongo oggi nel ricordo di un giornalista, senza maiuscole e senza aggettivi.

Lo hanno ucciso sotto casa una sera di gennaio, tornava dal Giornale di Sicilia, dieci minuti prima aveva salutato i colleghi nello stesso, identico, modo di ogni sera: “uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”. Al Diario, il quotidiano dove lavoravo, arrivò la segnalazione di un omicidio, in viale Campania. A prenderla fu, paradossi della sorte, suo figlio Giulio, ‘’biondino’’ come me, che si precipitò sul luogo del delitto senza sapere di andare incontro a suo padre, coperto per terra da un lenzuolo bianco. Lo fermò Boris Giuliano, capo della Mobile di allora, che abbracciandolo lo trascinò lontano. E Giulio capì, immediatamente, senza bisogno di parole. I miei ricordi si fermano qui, con l’aggiunta di un flashback personale: ho conosciuto Mario Francese ma solo per un attimo. Lo incontrai sul portone del Giornale di Sicilia, ricordo il suo impermeabile chiaro, la sua espressione assorta; parlò brevemente con mio padre, si conoscevano, poi si salutarono. Quando sentii di nuovo parlare di lui fu per scoprire a 20 anni, all’inizio del mio cammino professionale, che la violenza vissuta da ragazzo sui marciapiedi del mio quartiere si era trasferita nella mia vita da adulto, di aspirante giornalista. Solo che il rischio, adesso, non era più fare a botte con i più prepotenti, ma un proiettile di 38 in faccia. Mario non lo conoscevo e i miei ricordi sono un impasto di articoli, anche suoi, letti dopo, di racconti dei colleghi con cui aveva lavorato, di colloqui con investigatori e magistrati, di ipotesi lanciate nelle serate interminabili di chiacchiere e vino tra cronisti per trovare una risposta ai grandi misteri di mafia di questa città. E la morte di Mario, il 26 gennaio 1979, era uno di questi. Fino a quando i pentiti che all’inizio non avevano voluto parlare e una sentenza della Cassazione hanno alzato il velo anche su questo delitto ‘eccellente’, scoprendo il volto sanguinario dei corleonesi: Leoluca Bagarella, il killer che sparò quella sera in viale Campania, Riina, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco i componenti della commissione mafiosa che ordinarono il delitto. Perché, è scritto nella sentenza, Mario possedeva “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa Nostra alle istituzioni”. Era il 1979, l’inizio dell’assalto corleonese al vertice di Cosa Nostra governato da Stefano Bontade e Tano Badalamenti, un capitolo ancora tutto da scrivere, come tanti altri, della storia di Cosa Nostra. I soldi dell’eroina facevano gola ai “viddani” guidati dal ‘capo dei capi’, una banda feroce e agguerrita che aveva cominciato a sbarazzarsi dei nemici in divisa, in toga e in politica senza chiedere troppi permessi. Una banda che poteva fare a meno dei rapporti dei palermitani con la politica, forse perché ne aveva stretto altri altrettanto, se non di più, solidi. Con i servizi, deviati o meno, di questo Paese. Ma questa è un’altra storia. Era già morto il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, e, dopo Francese, lo avrebbero seguito, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della Mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Un assalto alle istituzioni senza precedenti che aveva trasformato Cosa Nostra da democratico gestore della cosa pubblica in Sicilia, alla pari di altre istituzioni, in un pericolosissimo antagonista. Fino alla fine della storia corleonese, giunta al capolinea con le stragi del ’92 in Sicilia e del ’93 a Roma, Firenze e Milano. Di quei ‘peri incritati’, scesi dalle montagne per arrivare sulla collinetta di Capaci Mario è stato il primo a capire, in diretta, la ferocia e la sete di potere, la scalata e le alleanze, gli affari e la mutazione genetica generata in Cosa Nostra e proprio per questo i giudici dicono in modo netto che «con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti». Perché proprio lui? Le sentenze lo spiegano bene, rendendo onore al suo mestiere ed alle sue intuizioni: in quegli anni ‘’Mario Francese era un protagonista, se non il principale protagonista, della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti nell’individuare nuove piste investigative». E rappresentava “un pericolo per la mafia emergente, proprio perché capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le regole di Cosa Nostra”. Era nato a Siracusa il 6 febbraio del 1925 e la sua biografia professionale racconta la storia di una passione per il giornalismo, quello che ti consuma la suola delle scarpe, che ti spinge dentro i fatti, che ti mette a tu per tu con i protagonisti delle storie più nere della cronaca, i buoni e i cattivi, con un unico obiettivo: raccontare i fatti. Aveva cominciato all’ANSA negli anni Cinquanta come telescriventista, entrando a contatto con la notizia, un amore che non abbandonerà più. Collabora con La Sicilia e, come tutti i precari, cerca una sistemazione migliore, che arriva il primo gennaio 1957, quando entra alla Regione come «cottimista». La sua naturale destinazione, però, è l’ufficio stampa, del quale viene nominato capo all’assessorato ai Lavori pubblici. E dall’ottobre 1958 l’assunzione alla Regione diventa definitiva. Ma la sistemazione economica non fa velo alla sua passione professionale: e quando il Giornale di Sicilia gli offre un posto di cronista giudiziario non ci pensa due volte a lasciare la Regione per abbracciare finalmente il suo mestiere. Poco prima, era stata una sua inchiesta a consentire la riapertura delle indagini, sei anni dopo il delitto, per la morte di un altro cronista, Cosimo Cristina, il cui corpo venne trovato dilaniato lungo i binari della ferrovia vicino a Termini Imerese, in provincia di Palermo. Di Mario si è detto e scritto molto: della sua generosità estrema, della sua abnegazione, degli orari di lavoro che non esistevano, del suo amore per la famiglia, della sua ‘’incoscienza’’ professionale, che lo portava in anni terribili e pericolosi anche ad esporsi personalmente inaugurando una stagione di giornalismo investigativo in una terra in cui il confine tra il giornalista e lo sbirro era inesistente, dalla scrivania di un giornale che per struttura e linea editoriale era lontano anni luce dalle sue denunce. ‘’Di Mario ricordo perfettamente la sua schiena dritta – racconta Aurelio Bruno, 85 anni, decano dei cronisti palermitani, una vita nel palazzo di giustizia di Palermo – dopo la strage di via Lazio lo invitarono ad una riunione con ‘amici degli amici’ per offrirgli un appartamento in cambio del suo atteggiamento accomodante. Gli chiesero persino di storpiare sul giornale i nomi degli imputati. Lui rifiutò. Dalla strage di Ciaculli all’omicidio del colonnello Russo, alle faide mafiose per riequilibrare gli assetti interni, ai grandi affari di Cosa Nostra, si occupò di tutte le vicende giudiziarie cercando sempre una «lettura» diversa e più approfondita del fenomeno mafia. Fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese. Fu un cronista moderno e, per quei tempi, unico: non a caso passava il suo tempo, ricorda Aurelio Bruno, nella cancelleria della sezione commerciale del Tribunale, dove ricostruiva alleanze e accordi societari tra gli stessi nomi che ricorrevano nelle aule della giustizia penale. Dava fastidio, era scomodo, e per questo, probabilmente, è stato ucciso. Ma dava fastidio anche la sua felicissima intuizione, quella che aveva anticipato anni di indagini condotte anche con l’aiuto dei pentiti: fu l’unico, infatti, a parlare della frattura nella «commissione mafiosa» tra liggiani e «guanti di velluto», l’ala moderata. Una frattura che avrebbe aperto la strada alla guerra di mafia degli anni ’80, all’ascesa dei corleonesi, alla stagione delle stragi. Non a caso il suo omicidio fu il primo di quella strategia eversiva: “una strategia eversiva che aveva fatto – si legge nelle motivazioni della sentenza – un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa Nostra”. Quando si capiranno meglio le vicende di quegli anni, nel periodo cruciale attorno al 1979, si capirà la ragione specifica della morte di Francese (ogni delitto di mafia ha una sua causa scatenante), cronista con la schiena dritta assassinato per avere sempre fatto il proprio dovere scrivendo tutto quello che aveva saputo.

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