il caso degli ispettori generali Verdiani e Messana

Epurazioni e riciclaggi nel dopoguerra: il caso degli ispettori generali Verdiani e Messana

Due alti funzionari di Polizia si distinguono in epoca fascista per i crimini commessi a Lubiana come dirigenti della locale questura. Nel dopoguerra, vengono reintegrati nei corpi della Repubblica. Li ritroviamo in Sicilia, a dirigere un ispettorato per la repressione del banditismo. Manco a dirlo, la loro vicenda si incrocia presto con quella di Giuliano, con la strage di Portella della Ginestra, con mafia e neofascismo…

 

Claudia Cernigoi

 

A chi parla di “pacificazione” e di riconoscimenti anche ai “vinti” della Seconda guerra mondiale, che, stando alla vulgata (falsificatrice e fuorviante, lo diciamo subito) che si va diffondendo in questi ultimi anni, non avrebbero goduto di alcun diritto nell’Italia del dopoguerra, vogliamo qui portare ad esempio la storia di due alti funzionari della PS, che dopo avere raggiunto i vertici della carriera in epoca fascista, la proseguirono, senza alcun problema, nell’Italia repubblicana “nata dalla Resistenza”.

Iniziamo parlando dell’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che iniziò la propria carriera nel 1916 “al Quirinale come responsabile della sicurezza personale dei Savoia” [1] e nel 1930 fu nominato capo di Gabinetto del questore di Roma. Verdiani fu inviato a Lubiana nel maggio ‘41 subito dopo l’occupazione militare italiana della cosiddetta “provincia di Lubiana”, dal Capo della Polizia di Roma, allo scopo di “esaminare a fondo le necessità degli uffici e dei comandi di polizia e Carabinieri” [2].

Le proposte di Verdiani a questo scopo (successivamente approvate da Mussolini) furono “l’istituzione di una questura a Lubiana, due uffici di PS a Novo Mesto e Kočevje, alcuni uffici confinari di Polizia ed un battaglione di agenti di PS a Lubiana”. Sugli uffici di Novo Mesto e Kočevje, considerati in zona di confine, esercitava alcune “competenze speciali” il dottor Luciano Palmisani, allora dirigente la Polizia di Frontiera a Trieste; Palmisani fu anche il reggente dell’Ispettorato Speciale di PS (un corpo di polizia creato specificamente per la lotta antipartigiana nell’allora Venezia Giulia) nel periodo in cui il dirigente Giuseppe Gueli era fuori sede in quanto si trovava a dirigere il corpo di sorveglianza di Mussolini al Gran Sasso. Vale la pena di ricordare che, stando alle memorie dello stesso Gueli, sarebbe stato proprio grazie alla sua “sorveglianza” che il commando di Otto Skorzeny riuscì a liberare il “duce” e portarselo via [3].

Verdiani propose anche di estendere alla “provincia di Lubiana” le competenze dell’OVRA, ma “mentre la Venezia Giulia apparteneva alla 1^ zona OVRA (con sede a Milano), la provincia di Lubiana venne aggregata all’11^ Zona OVRA, con sede a Zagabria”, diretta da Verdiani tra il 1941 ed il ‘43. Verdiani divenne infine dirigente dell’Ispettorato Generale di Polizia in Croazia con sede a Zagabria, come si evince da alcuni documenti datati luglio ed agosto ‘43, sia d’epoca fascista, sia badogliana.

Finita la parentesi fascista, Verdiani ebbe una curiosa evoluzione: nel 1944 fu “arrestato dalla Muti come antifascista. Liberato all’inizio del 1945, si trasferisce a Venezia per attivare contatti segreti con la Resistenza” [4]; successivamente, nel dopoguerra, vantando il possesso di una “cassa dell’archivio dell’OVRA contenente documenti riguardanti alcune personalità allora al governo” [5] riuscì ad avere un “colloquio con Pietro Nenni cui consegnò personalmente la cassa (che conteneva anche il fascicolo di Nenni) avendone in cambio, con la sua iscrizione al Partito socialista, promessa di protezione per evitargli l’epurazione e le sanzioni”. Nel 1946 ricoprì la carica di questore di Roma, il secondo dopo la liberazione. Nel 1947 fu sentito come teste nel processo a carico di Giuseppe Gueli e di altri membri dell’Ispettorato Speciale celebrato a Trieste: doveva riferire dell’inchiesta che un altro Ispettore generale di PS, Cocchia, avrebbe svolto in seguito alla denuncia del vescovo di Trieste Antonio Santin per le sevizie cui agenti dell’Ispettorato sottoponevano i prigionieri. Verdiani asserì in udienza che la relazione di Cocchia non era reperibile ma che Cocchia avrebbe constatato che s’era trattato di esagerazioni sulle violenze che in ogni caso andavano attribuite al solo commissario Gaetano Collotti (nel frattempo deceduto) e non anche ai suoi collaboratori. Dato che Cocchia non fu sentito, e la relazione non saltò mai fuori, la Corte si basò, per giudicare questi fatti, solo sulle parole di Verdiani. Ricordiamo che la sentenza sancì che era “molto riprovevole anche moralmente” ma non penalmente perseguibile il fatto che Gueli fosse venuto a conoscenza delle sevizie cui si dedicavano i suoi sottoposti, e quindi lo assolse da questo capo di imputazione [6].

Nel dopoguerra Verdiani operò in Sicilia come dirigente di un “Ispettorato per la lotta alla mafia”, assieme ad un suo vecchio collega, Ettore Messana, che aveva diretto la questura di Lubiana (istituita, lo ricordiamo, su proposta di Verdiani) fino a giugno 1942, e successivamente quella di Trieste, fino a giugno 1943.

 

 

Criminali di guerra

Il nome di Messana risulta nell’elenco dei criminali di guerra denunciati dalla Jugoslavia alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission). Il rapporto di denuncia, redatto in lingua inglese ed inviato dalla Commissione statale jugoslava in data 14/7/45 [7], lo accusa, sulla base di documentazione che era stata trovata in possesso della Divisione “Isonzo” dell’Esercito italiano di occupazione, di crimini vari: “assassinio e massacri; terrorismo sistematico; torture ai civili; violenza carnale; deportazioni di civili; detenzione di civili in condizioni disumane; tentativo di denazionalizzare gli abitanti dei territori occupati; violazione degli articoli 4, 5, 45 e 46 della Convenzione dell’Aja del 1907 e dell’articolo 13 del Codice militare jugoslavo del 1944”.

Nello specifico viene addebitata a Messana (in concorso con il commissario di PS Pellegrino e col giudice del Tribunale militare di Lubiana dott. Macis) la costruzione di false prove che servirono a condannare diversi imputati (tra i quali Anton Tomsič alla pena capitale, eseguita in data 21/5/42) per dei reati che non avevano commesso. La responsabilità di Messana e Pellegrino in questo fatto è confermata da documenti dell’archivio della questura di Lubiana [8], che fanno riferimento ad una “operazione di polizia politica” condotte dal vicequestore Mario Ferrante e dal vicecommissario Antonio Pellegrina sotto la direzione personale di Messana, contro una “cellula sovversiva di Lubiana” della quale facevano parte, oltre al Tomsič prima citato, anche Michele Marinko (condannato a 30 anni di reclusione), Vida Bernot (a 25 anni), Giuseppina Maček (a 18 anni) ed altri tre a pene minori.

Messana e gli altri furono anche accusati di avere creato false prove nel corso di una indagine da loro condotta, in conseguenza della quale 16 persone innocenti furono fucilate dopo la condanna comminata dal giudice Macis. Si tratta dell’indagine per l’attentato al ponte ferroviario di Prešerje del 15/12/41, per la quale indagine, come risulta da altri documenti della questura di Lubiana dell’epoca, Messana, il suo vice Ferrante, l’ufficiale dei Carabinieri Raffaele Lombardi ed altri agenti e militi furono proposti per onorificenze e premi in denaro per la buona riuscita delle indagini relative all’attentato di Preserje. Nello specifico Messana ricevette come riconoscimento per il suo operato la “commenda dell’Ordine di S. Maurizio e Lazzaro”.

Ettore Messana fu anche segnalato con nota del 21/9/45 dall’Alto Commissario Aggiunto per l’Epurazione di Roma al Prefetto di Trieste, che richiese un’indagine alla Polizia Civile del GMA [9]. Il risultato di questa indagine è contenuto in una relazione datata 6/10/45 e firmata dall’ispettore Feliciano Ricciardelli della Divisione Criminale Investigativa [10], dalla quale citiamo alcuni passaggi.

“… il Messana era preceduto da pessima fama per le sue malefatte quale Questore di Lubiana. Si vociferava infatti che in quella città aveva infierito contro i perseguitati politici permettendo di usare dei mezzi brutali e inumani nei confronti di essi per indurli a fare delle rivelazioni (…) vi era anche (la voce, n.d.r.) che ordinava arresti di persone facoltose contro cui venivano mossi addebiti infondati al solo scopo di conseguire profitti personali. Difatti si diceva che tali detenuti venivano poi avvicinati in carcere da un poliziotto sloveno, compare del Messana, che prometteva loro la liberazione mediante il pagamento di ingenti importi di denaro. Inoltre gli si faceva carico che a Lubiana si era dedicato al commercio in pellami da cui aveva ricavato lauti profitti.

Durante la sua permanenza a Trieste, ove rimase fino al giugno 1943, per la creazione in questa città del famigerato e tristemente noto Ispettorato Speciale di polizia diretto dal comm. Giuseppe Gueli, amico del Messana, costui non riuscì ad effettuare operazioni di polizia politica degne di particolare rilievo.

Ma anche qui, così come a Lubiana, egli si volle distinguere per la mancanza assoluta di ogni senso di umanità e di giustizia, che dimostrò chiaramente nella trattazione di pratiche relative a perseguitati politici (…)”.

 

La banda Giuliano

Dopo avere letto i curricula di questi due funzionari di PS, ci si aspetterebbe di trovarli, se non condannati per il loro operato sotto il fascismo, quantomeno “epurati” dalla Pubblica Sicurezza. Invece li ritroviamo, nell’immediato dopoguerra, nella natia Sicilia, a dirigere un “Ispettorato generale di PS per la Sicilia”, un “organo creato per la repressione della delinquenza associata, e specificamente per la repressione del banditismo che faceva capo a Giuliano (il “bandito” Salvatore Giuliano, n.d.r.)” [11]. Per sapere come i due alti funzionari di PS svolsero il compito loro affidatogli, leggiamo alcuni stralci dalla sentenza che fu emanata in merito alla strage di Portella della Ginestra (1/5/47), dove gli uomini di Giuliano spararono sulla folla che si era radunata per festeggiare il Primo maggio, uccidendo undici persone tra cui donne e bambini e ferendone molte altre.

Così “l’Ispettore Verdiani non esitò ad avere rapporti con il capo della mafia di Monreale, Ignazio Miceli, ed anche con lo stesso Giuliano, con cui si incontrò nella casetta campestre di un sospetto appartenente alla mafia, Giuseppe Marotta in territorio di Castelvetrano ed alla presenza di Gaspare Pisciotta, nonché dei mafiosi Miceli, zio e nipote, quest’ultimo cognato dell’imputato Remo Corrao, e dal mafioso Albano. E quel convegno si concluse con la raccomandazione fatta al capo della banda ed al luogotenente di essere dei bravi e buoni figlioli, perché egli si sarebbe adoperato presso il Procuratore Generale di Palermo, che era Pili Emanuele, onde Maria Lombardo madre del capo bandito, fosse ammessa alla libertà provvisoria. E l’attività dell’ispettore Verdiani non cessò più; poiché qualche giorno prima che Giuliano fosse soppresso, attraverso il mafioso Marotta pervenne o doveva a Giuliano pervenire una lettera con cui lo si metteva in guardia, facendogli intendere che Gaspare Pisciotta era entrato nell’orbita del Colonnello Luca [12] ed operava con costui contro Giuliano”.

Per quanto riguarda Messana, invece, leggiamo che “l’Ispettore Generale di PS Messana negò ed insistette nel negare di avere avuto confidente il Ferreri, ma la negativa da lui opposta deve cadere di fronte all’affermazione del capitano dei Carabinieri Giallombardo, il quale ripetette (sic) in dibattimento che Ferreri fu ferito dai carabinieri presso Alcamo, ove avvenne il conflitto in cui restarono uccise quattro persone; e, ferito, il Ferreri stesso chiese di essere portato a Palermo, spiegando che era un agente segreto al servizio dell’Ispettorato e che doveva subito parlare col Messana”; Salvatore Ferreri era “conosciuto anche come Totò il palermitano, ma definito come pericoloso pregiudicato, appartenente alla banda Giuliano, già condannato in contumacia alla pena dell’ergastolo per omicidio consumato allo scopo di rapinare una vettura automobile”.

Verdiani morì a Roma nel 1952, e il suo “decesso fece in modo che il suo ruolo in quegli anni piano piano si dissolvesse sotto i riflettori”.

Sui rapporti tra la “banda” Giuliano, l’Ispettorato generale di Messana e Verdiani, i servizi segreti statunitensi ed italiani, nonché sul riciclaggio da parte di questi di personale che aveva operato con la Decima Mas di Borghese (soprattutto il battaglione Vega, emanazione dei Nuotatori Paracadutisti comandati dal triestino Nino Buttazzoni, il quale, dopo avere “comandato il battaglione NP” anche nella “zona di Gorizia contro i partigiani comunisti italo-slavi, difendendola dall’occupazione titina”, si trovava a Venezia alla fine della guerra, pronto, con i suoi uomini, ad andare a Trieste in previsione del fatto che “la città sarà invasa dagli slavi di Tito” [13]: a Venezia nello stesso periodo in cui Verdiani maneggiava con alleati e resistenti) per organizzare un fronte anticomunista in Sicilia (ma non solo), vi rimandiamo allo studio di Giuseppe Casarrubea, “Storia segreta della Sicilia” (Bompiani 2005), in questo articolo da noi già ripetutamente citato [14].

È curioso, a questo proposito, che lo storico Giuseppe Parlato abbia, nel corso della presentazione del libro “Trieste 1945-1954. Moti giovanili per Trieste italiana”, dopo avere definito Trieste un “un laboratorio della guerra fredda” ed “elemento centrale per porre la questione della difesa dal comunismo nel disegno anticomunista”, in quanto la “progettualità dell’OSS dal 1944 si dipana fino al 1954 triestino”, abbia usato la definizione “teoremi costruiti che portano a deliri” in merito alle ricerche di Casarrubea. Curioso perché questa affermazione è stata fatta in un contesto dove nessuno dei presenti poteva fare riferimento ai “teoremi” di Casarrubea, a meno che non si trattasse di persone che avevano approfondito l’argomento e quindi potevano mettere in collegamento la situazione della strategia della tensione creata nella Zona A da parte di coloro che finanziavano e fomentavano i “moti per la Trieste italiana”, con i “maneggi” denunciati dalle ricerche di Casarrubea (e che emergono, ricordiamolo, in gran parte da documentazione proveniente dagli archivi USA).

[1] G. Casarrubea, “Storia segreta della Sicilia”, Bompiani 2005, p. 130.

[2] Questa e le citazioni che seguono sono tratte dal testo di Tone Ferenc, “La provincia italiana di Lubiana”, IFSML 1994, p. 59, 60.

[3] Il racconto di Gueli si trova nel sito www.digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/liberazioneduce.htm. Va detto però che nel sito non viene specificato né in quale occasione Gueli abbia fatto queste dichiarazioni, né dove esse siano reperibili.

[4] G. Casarrubea, op. cit, p. 130. Giova ricordare che a Venezia nel periodo si trovavano sia alcuni gruppi organizzativi della Decima Mas (i Nuotatori Paracadutisti di Buttazzoni, cui accenneremo poi, e che pure si arresero agli inglesi) sia il Centro di studi storici di Libero Sauro, uomo di punta dell’intelligence della RSI e che aveva organizzato la propaganda sulla questione delle “foibe” istriane.

[5] Questa citazione e la seguente sono tratte da G. Casarrubea, op. cit., p. 131.

[6] Sentenza Corte Straordinaria d’Assise di Trieste d.d. 27/2/47.

[7] Copia del rapporto originale in lingua inglese si trova nell’Archivio di Stato di Lubiana, AS 1551 Zbirka Kopij, skatla 98, pp. 1502-1505.

[8] Questi documenti sono oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Lubiana, AS 1796, III, 6, 11.

[9] All’epoca Trieste era amministrata da un Governo Militare Alleato e la polizia era organizzata sul modello anglosassone.

[10] Relazione in Archivio di Stato di Trieste, Prefettura gabinetto, b 18. L’Ispettore Ricciardelli aveva già svolto servizio in polizia sotto il passato regime fascista ed era stato internato in Germania sotto l’accusato di favoreggiamento nei confronti di ebrei che sarebbero stati da lui aiutati a scappare.

[11] Definizione tratta dalla sentenza di Viterbo, emessa il 3 maggio 1952 dalla Corte d’assise di Viterbo, presieduta dal magistrato Gracco D’Agostino, in merito alla strage di Portella della Ginestra.

[12] “…l’ex generale dei Carabinieri Ugo Luca, che tra il 1949 e il 1950 coordinò l’uccisione di Giuliano in Sicilia”, già “uomo di fiducia personale di Mussolini” (G. Casarrubea, op. cit., p. 108 e 80).

[13] Citazioni tratte da N. Buttazzoni, “Solo per la bandiera”, Mursia 2002.

[14] Una buona sintesi dello studio si trova in rete al seguente indirizzo: www.edscuola.it/archivio/interlinea/banda_giuliano .

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