nella immagine (forse dei fratelli Ximenes) il largo dove avvenne la strage di Caltavuturo il 20 gennaio 1937 oggi ricordata con una lapide ai caduti.af
da Francesco Fustaneo su “controlacrisi”
Il movimento dei Fasci Siciliani. Una verità messa a tacere – ControLaCrisi.org
Che la storia, in ogni epoca e luogo la scrivessero i vincitori l’avevo sempre saputo, ma constatarlo personalmente ha avuto un’ impatto emotivo molto forte. La prima volta che la mia strada si intrecciò con la storia del Movimento dei Fasci siciliani fu nel 2011 quando accettai di collaborare con la rivista Arci 20 Gennaio, alla cui realizzazione e diffusione si erano prestati alcuni giovani di Caltavuturo, ridente paesino di montagna della provincia di Palermo, nelle Madonie, che nel 1893, precisamente il 20 gennaio, aveva visto immolare 11 dei suoi figli in una delle storie più cruente dell’Italia di fine ’800.
Proprio dai fatti tragici di quel 20 Gennaio, la rivista prendeva il nome.
Ma andiamo con ordine. Circa centoventi anni fa, tra il 1891 e il 1894, date ignote ai più, nacque nelle città e nelle zone rurali della Sicilia, il movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, al quale aderirono migliaia tra operai, contadini, artigiani e intellettuali.
Il movimento dei Fasci si poneva come fine quello di contrastare il latifondo agrario, di ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi della gente e di raggiungere degni livelli di giustizia sociale e di libertà.
Una delle peculiarità di questo movimento, fu quello di riservare alla figura della donna un ruolo preminente. Proprio le donne ebbero, in particolare a Piana degli Albanesi, funzioni di primo piano e si assisteva per la prima volta nell’isola ad un loro tentativo organizzato per richiedere un’emancipazione del ruolo femminile oltre ad una più generale rivendicazione di lavoro e di diritti.
Diversi furono i Fasci fondati in Sicilia. Uno dei primi fu quello di Catania nel 1891, ma quelli più organizzati sorsero a Corleone, Piana degli Albanesi e a Palermo.
A Corleone il 30 luglio del 1893, si riunirono tutti i Fasci della provincia di Palermo, per elaborare quello che venne denominato il “Patto di Corleone”, da più parti considerato come il primo esempio di contratto sindacale redatto nell’Italia dell’epoca.
Per capire per cosa lottava quella povera gente occorre menzionare quelli che erano i patti colonici più diffusi nell’800 in Sicilia: la mezzadria ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario metteva a disposizione del colono la terra, anticipando le sementi e quest’ultimo era invece tenuto a svolgere tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva poi ripartito in modo sistematicamente iniquo e penalizzante a discapito del colono. Si andava da una divisione al 50% del raccolto fino ai casi in cui la suddivisione prevedeva l’attribuzione dei due terzi al proprietario e del restante terzo al colono. Alla base del contratto di mezzadria, dunque, c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario. Il contadino e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, finiva poi spesso per essere con questi indebitato in modo permanente.
Inoltre il contratto tra le parti era sempre verbale e così i proprietari avevano gioco facile nel negare le condizioni precedentemente pattuite, abusando del lavoro dei contadini. Come se ciò non bastasse, della sua quota il mezzadro doveva cederne una parte che il proprietario distribuiva tra i campieri. Questi lasciti erano in realtà tributi che il contadino era obbligato a pagare in cambio di protezione. Il ”terratico” era per il contadino, un patto ancora più svantaggioso di quello di mezzadria. Infatti, mentre con la mezzadria il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva versare al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dall’esito del raccolto; bastava quindi una cattiva annata per costringere il terratichiere a rivolgersi all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva per far fronte alla quota dovuta.
In questo contesto, la fame e la miseria, il desiderio di riscatto sociale e di giustizia spinsero migliaia di contadini nell’autunno del 1893 a ribellarsi e a dare vita ad imponenti scioperi che in alcuni casi ottennero i risultati sperati con il miglioramento dei contratti agrari. Molti furono infatti i proprietari terrieri che intimoriti dalle imponenti manifestazioni vennero incontro alle rivendicazioni insite nei “Patti”.
Tuttavia, la pressione politica dei latifondisti era tutt’altro che affievolita e questi riuscirono a condizionare il governo presieduto dal siciliano Francesco Crispi che acconsentì a mettere in atto politiche repressive contro il movimento stesso.
Proprio a Caltavuturo il 20 gennaio 1893, 11 contadini sui 500 presenti, trovarono la morte ritornando da un’occupazione simbolica del demanio comunale che il Sindaco del tempo aveva da mesi promesso di assegnare loro. A seguito di una sassaiola ingaggiata contro l’esercito regio, quest’ultimo incitato dai campieri mafiosi reagì aprendo il fuoco sulla massa inerme e inseguendo i contadini in fuga perpetuò una delle stragi più brutali di quegli anni.
Nei mesi a seguire gli atti violenti si moltiplicarono.
In ordine cronologico: Giardinello, 10 dicembre 1893, l’esercito spara sui dimostranti di una manifestazione, provocando 11 morti e numerosi feriti. Monreale, 17 dicembre 1893, viene aperto il fuoco su una manifestazione contro i dazi: diversi i morti e i feriti. Lercara Friddi, 25 dicembre 1893, 11 morti e numerosi feriti. Pietraperzia, 1 gennaio 1894, si spara su gente che manifesta contro le tasse. I morti alla fine sono in numero di 8 e 15 i feriti. Nella stessa giornata a Gibellina i morti furono 20 e numerosi i feriti. Belmonte Mezzagno, 2 gennaio 1894, 2 morti; Marineo, 3 gennaio 1894, 18 morti. Santa Caterina Villarmosa, 13 morti e diversi feriti.
Il bilancio finale fu tragico: più di 100 i morti complessivamente conteggiati nell’intera isola e oltre 3.500 i lavoratori arrestati e incarcerati.
Il Governo Crispi il 4 gennaio del 1894, decretò lo stadio di assedio della regione affidando pieni poteri al generale Morra di Lavriano.
L a condotta del generale Morra fu assai cruenta. Diede l’ordine di arrestare i dirigenti dei Fasci e in più di 70 paesi vennero condotti arresti di massa.
Più di 1000 persone furono costrette al soggiorno obbligato nelle isole minori, spesso anche perché semplicemente sospettate di essere simpatizzanti del movimento. Le libertà individuali, di stampa, di domicilio, i diritti di associazione, vennero sospese. Si stava infliggendo un colpo duro a quello che in Europa fu uno dei movimenti di protesta più organizzati, paragonabile senza timore di esagerare alla Comune di Parigi. E lo si faceva con le armi e col fuoco dell’esercito Regio e con la collaborazione della mano mafiosa al soldo del latifondo agrario. Di quei fatti di sangue e del confino di massa narra anche un articolo dell’epoca del Corriere della Sera. Il movimento dei Fasci Siciliani produsse dirigenti di spessore, del calibro di Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, solo per citarne alcuni. In particolare a quest’ultimo si sarebbe ispirato, diversi anni dopo, attribuendosi il nome di battaglia il partigiano Comandante Pompeo Colajanni “Barbato” che ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino il 28 aprile del 1945.
Tuttavia nonostante la rilevanza di quei fatti storici, io stesso capì di averne una conoscenza solo superficiale, che ebbi l’occasione di approfondire solo in occasione del 119° anniversario della strage di Caltavuturo, cioè nel gennaio di questo 2012, quando invitato dal dal Pres. Arci 20 GENNAIO di Caltavuturo, Nino Musca ( che curava la rivista per la quale collaboravo), partecipai alla posa della lapide in onore dei caduti e alla contestuale conferenza tenuta dal Prof. Carlo Marino, Docente Universitario e Storico del Movimento Contadino, da Dino Paternostro , Segr. della Camera del Lavoro di Corleone e da Angelo Ficarra e Ottavio Terranova dell’Anpi Sicilia.
Ma in Italia, purtroppo sono in pochi a sapere dell’esistenza di questo movimento e di quello che accadde in Sicilia in quegli anni. Di fatti come scritto in una lettera aperta dalle personalità sopraccitate, nessun manuale scolastico gli dedica una riga; il movimento dei Fasci sembra nell’immaginario degli Italiani semplicemente non essere mai esistito, per lo più noto solo a pochi appassionati di storia. E pensare che fu un movimento di cui scrisse anche Engels e si dice che perfino Lenin ne studiò la matrice rivoluzionaria.
Proprio da Caltavuturo, in considerazione di tutto ciò, è partito un invito ai diversi centri dell’isola ad intitolare una via ai Fasci Siciliani che nella provincia di Palermo esisteva solo in 3-4 comuni, mentre ogni comune siciliano ha almeno una via intitolata a Crispi, che sul massacro dell’epoca e sulla svolta negativa assunta della democrazia in Sicilia negli anni a venire, ebbe enormi responsabilità.
Campofelice di Roccella, centro nel quale vivo, è stato il primo dei comuni a rispondere a quell’appello, intitolando l’11 novembre 2012 una via ai Fasci Siciliani. Di recente anche il comune di Palermo si è mosso in tale direzione dedicando ad aprile una via al movimento nel quartiere di Bonagia e altrettanto sta facendo il più piccolo comune di Isnello. Qualche mese prima, precisamente il 20 gennaio scorso del 2013 si è invece celebrato a Caltavuturo alla presenza di don Ciotti il 120° anniversario della locale strage, a cui a suo tempo Scimeca dedicò un film : “Il giorno di San Sebastiano” , la cui colonna sonora era invece composta da Battiato e si intitolava “A lu vinti di innaru na mattina”.
Stiamo in Sicilia, con la collaborazione dell’Arci, di Libera, dell’Anpi e della Cgil, cercando di recuperare la memoria storica di un’ evento che fa parte integrante non solo della nostra storia, ma di quella italiana e ed europea; una storia che parla di un grande movimento organizzato che ispirandosi ad una matrice ideologica socialista, si impegnò nelle terre siciliane a portare avanti battaglie di civiltà e per la cui causa morirono tantissime persone.
Ricordare questo movimento,la cui memoria è stata volutamente rimossa, farlo riscoprire alla gente, è il minimo che possiamo fare per ringraziare coloro i quali si sono battuti hanno sacrificato la vita per diritti e prerogative che oggi appaiono scontate.
Proprio dai fatti tragici di quel 20 Gennaio, la rivista prendeva il nome.
Ma andiamo con ordine. Circa centoventi anni fa, tra il 1891 e il 1894, date ignote ai più, nacque nelle città e nelle zone rurali della Sicilia, il movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, al quale aderirono migliaia tra operai, contadini, artigiani e intellettuali.
Il movimento dei Fasci si poneva come fine quello di contrastare il latifondo agrario, di ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi della gente e di raggiungere degni livelli di giustizia sociale e di libertà.
Una delle peculiarità di questo movimento, fu quello di riservare alla figura della donna un ruolo preminente. Proprio le donne ebbero, in particolare a Piana degli Albanesi, funzioni di primo piano e si assisteva per la prima volta nell’isola ad un loro tentativo organizzato per richiedere un’emancipazione del ruolo femminile oltre ad una più generale rivendicazione di lavoro e di diritti.
Diversi furono i Fasci fondati in Sicilia. Uno dei primi fu quello di Catania nel 1891, ma quelli più organizzati sorsero a Corleone, Piana degli Albanesi e a Palermo.
A Corleone il 30 luglio del 1893, si riunirono tutti i Fasci della provincia di Palermo, per elaborare quello che venne denominato il “Patto di Corleone”, da più parti considerato come il primo esempio di contratto sindacale redatto nell’Italia dell’epoca.
Per capire per cosa lottava quella povera gente occorre menzionare quelli che erano i patti colonici più diffusi nell’800 in Sicilia: la mezzadria ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario metteva a disposizione del colono la terra, anticipando le sementi e quest’ultimo era invece tenuto a svolgere tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva poi ripartito in modo sistematicamente iniquo e penalizzante a discapito del colono. Si andava da una divisione al 50% del raccolto fino ai casi in cui la suddivisione prevedeva l’attribuzione dei due terzi al proprietario e del restante terzo al colono. Alla base del contratto di mezzadria, dunque, c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario. Il contadino e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, finiva poi spesso per essere con questi indebitato in modo permanente.
Inoltre il contratto tra le parti era sempre verbale e così i proprietari avevano gioco facile nel negare le condizioni precedentemente pattuite, abusando del lavoro dei contadini. Come se ciò non bastasse, della sua quota il mezzadro doveva cederne una parte che il proprietario distribuiva tra i campieri. Questi lasciti erano in realtà tributi che il contadino era obbligato a pagare in cambio di protezione. Il ”terratico” era per il contadino, un patto ancora più svantaggioso di quello di mezzadria. Infatti, mentre con la mezzadria il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva versare al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dall’esito del raccolto; bastava quindi una cattiva annata per costringere il terratichiere a rivolgersi all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva per far fronte alla quota dovuta.
In questo contesto, la fame e la miseria, il desiderio di riscatto sociale e di giustizia spinsero migliaia di contadini nell’autunno del 1893 a ribellarsi e a dare vita ad imponenti scioperi che in alcuni casi ottennero i risultati sperati con il miglioramento dei contratti agrari. Molti furono infatti i proprietari terrieri che intimoriti dalle imponenti manifestazioni vennero incontro alle rivendicazioni insite nei “Patti”.
Tuttavia, la pressione politica dei latifondisti era tutt’altro che affievolita e questi riuscirono a condizionare il governo presieduto dal siciliano Francesco Crispi che acconsentì a mettere in atto politiche repressive contro il movimento stesso.
Proprio a Caltavuturo il 20 gennaio 1893, 11 contadini sui 500 presenti, trovarono la morte ritornando da un’occupazione simbolica del demanio comunale che il Sindaco del tempo aveva da mesi promesso di assegnare loro. A seguito di una sassaiola ingaggiata contro l’esercito regio, quest’ultimo incitato dai campieri mafiosi reagì aprendo il fuoco sulla massa inerme e inseguendo i contadini in fuga perpetuò una delle stragi più brutali di quegli anni.
Nei mesi a seguire gli atti violenti si moltiplicarono.
In ordine cronologico: Giardinello, 10 dicembre 1893, l’esercito spara sui dimostranti di una manifestazione, provocando 11 morti e numerosi feriti. Monreale, 17 dicembre 1893, viene aperto il fuoco su una manifestazione contro i dazi: diversi i morti e i feriti. Lercara Friddi, 25 dicembre 1893, 11 morti e numerosi feriti. Pietraperzia, 1 gennaio 1894, si spara su gente che manifesta contro le tasse. I morti alla fine sono in numero di 8 e 15 i feriti. Nella stessa giornata a Gibellina i morti furono 20 e numerosi i feriti. Belmonte Mezzagno, 2 gennaio 1894, 2 morti; Marineo, 3 gennaio 1894, 18 morti. Santa Caterina Villarmosa, 13 morti e diversi feriti.
Il bilancio finale fu tragico: più di 100 i morti complessivamente conteggiati nell’intera isola e oltre 3.500 i lavoratori arrestati e incarcerati.
Il Governo Crispi il 4 gennaio del 1894, decretò lo stadio di assedio della regione affidando pieni poteri al generale Morra di Lavriano.
L a condotta del generale Morra fu assai cruenta. Diede l’ordine di arrestare i dirigenti dei Fasci e in più di 70 paesi vennero condotti arresti di massa.
Più di 1000 persone furono costrette al soggiorno obbligato nelle isole minori, spesso anche perché semplicemente sospettate di essere simpatizzanti del movimento. Le libertà individuali, di stampa, di domicilio, i diritti di associazione, vennero sospese. Si stava infliggendo un colpo duro a quello che in Europa fu uno dei movimenti di protesta più organizzati, paragonabile senza timore di esagerare alla Comune di Parigi. E lo si faceva con le armi e col fuoco dell’esercito Regio e con la collaborazione della mano mafiosa al soldo del latifondo agrario. Di quei fatti di sangue e del confino di massa narra anche un articolo dell’epoca del Corriere della Sera. Il movimento dei Fasci Siciliani produsse dirigenti di spessore, del calibro di Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, solo per citarne alcuni. In particolare a quest’ultimo si sarebbe ispirato, diversi anni dopo, attribuendosi il nome di battaglia il partigiano Comandante Pompeo Colajanni “Barbato” che ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino il 28 aprile del 1945.
Tuttavia nonostante la rilevanza di quei fatti storici, io stesso capì di averne una conoscenza solo superficiale, che ebbi l’occasione di approfondire solo in occasione del 119° anniversario della strage di Caltavuturo, cioè nel gennaio di questo 2012, quando invitato dal dal Pres. Arci 20 GENNAIO di Caltavuturo, Nino Musca ( che curava la rivista per la quale collaboravo), partecipai alla posa della lapide in onore dei caduti e alla contestuale conferenza tenuta dal Prof. Carlo Marino, Docente Universitario e Storico del Movimento Contadino, da Dino Paternostro , Segr. della Camera del Lavoro di Corleone e da Angelo Ficarra e Ottavio Terranova dell’Anpi Sicilia.
Ma in Italia, purtroppo sono in pochi a sapere dell’esistenza di questo movimento e di quello che accadde in Sicilia in quegli anni. Di fatti come scritto in una lettera aperta dalle personalità sopraccitate, nessun manuale scolastico gli dedica una riga; il movimento dei Fasci sembra nell’immaginario degli Italiani semplicemente non essere mai esistito, per lo più noto solo a pochi appassionati di storia. E pensare che fu un movimento di cui scrisse anche Engels e si dice che perfino Lenin ne studiò la matrice rivoluzionaria.
Proprio da Caltavuturo, in considerazione di tutto ciò, è partito un invito ai diversi centri dell’isola ad intitolare una via ai Fasci Siciliani che nella provincia di Palermo esisteva solo in 3-4 comuni, mentre ogni comune siciliano ha almeno una via intitolata a Crispi, che sul massacro dell’epoca e sulla svolta negativa assunta della democrazia in Sicilia negli anni a venire, ebbe enormi responsabilità.
Campofelice di Roccella, centro nel quale vivo, è stato il primo dei comuni a rispondere a quell’appello, intitolando l’11 novembre 2012 una via ai Fasci Siciliani. Di recente anche il comune di Palermo si è mosso in tale direzione dedicando ad aprile una via al movimento nel quartiere di Bonagia e altrettanto sta facendo il più piccolo comune di Isnello. Qualche mese prima, precisamente il 20 gennaio scorso del 2013 si è invece celebrato a Caltavuturo alla presenza di don Ciotti il 120° anniversario della locale strage, a cui a suo tempo Scimeca dedicò un film : “Il giorno di San Sebastiano” , la cui colonna sonora era invece composta da Battiato e si intitolava “A lu vinti di innaru na mattina”.
Stiamo in Sicilia, con la collaborazione dell’Arci, di Libera, dell’Anpi e della Cgil, cercando di recuperare la memoria storica di un’ evento che fa parte integrante non solo della nostra storia, ma di quella italiana e ed europea; una storia che parla di un grande movimento organizzato che ispirandosi ad una matrice ideologica socialista, si impegnò nelle terre siciliane a portare avanti battaglie di civiltà e per la cui causa morirono tantissime persone.
Ricordare questo movimento,la cui memoria è stata volutamente rimossa, farlo riscoprire alla gente, è il minimo che possiamo fare per ringraziare coloro i quali si sono battuti hanno sacrificato la vita per diritti e prerogative che oggi appaiono scontate.