Papotti: La strage di Portella in Parlamento

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Promemoria 6. La strage di Portella in Parlamento

Paolo Papotti

2 maggio 1947, seduta 107 dell’Assemblea costituente. Li Causi: “Il Governo non si è voluto rendere conto che in Sicilia bisogna fare piazza pulita di tutti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione, della polizia, ed anche della magistratura”

Lavoro Legalità Stragi

Il 1° maggio 1947 “qualcuno” sparò sulla folla di lavoratori che manifestavano per la giornata internazionale dei lavoratori. Fra uomini, donne e bambini, 11 saranno i morti, più di sessanta i feriti.

Serafino Petta, l’ultimo sopravvissuto: “avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita”. Ha ricordato ancora Petta: “I mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari”. Aggiungendo: “Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame”  [1].

Il 20 aprile dello stesso anno, in Sicilia si tengono le prime elezioni libere dopo la dittatura fascista. Vincono le sinistre.

Umberto Terracini (da https://storia.camera.it/ img-repo/scheda/persona/9 /p28550.jpg)

Il 2 maggio 1947, nella seduta numero 107 dell’Assemblea costituente, si discute dei fatti di Portella della Ginestra avvenuti il giorno prima. Apre la seduta il presidente Umberto Terracini (Pci) che legge le interpellanze rivolte al ministro dell’Interno Scelba (Dc). Le interpellanze “con richiesta d’urgenza” sono quattro, brevi e dai toni decisi. La prima, a firma del socialista Musotto, dei comunisti Li Causi, Montalbano, D’Amico Michele, Fiore e del repubblicano De Vita: “…criminale imboscata…”, “…ancora una volta le forze della reazione tentano di sopprimere il grandioso movimento dei contadini…”. La seconda a firma Mattarella – padre dell’attuale Presidente della Repubblica – della Democrazia cristiana: “…conoscere una esatta versione dei luttuosi fatti di eri…”La terza a firma di Varvaro del Gruppo misto: “…informazioni sulla orribile strage perpetrata in Sicilia contro innocenti lavoratori da parte di criminali ignobili…”, “…rispetto della libertà e dei diritti delle classi lavoratrici…”. La quarta a firma dei socialisti Di Giovanni, Rocco Gullo, Di Gloria, Pera, Vigorelli, Bennani, Zanardi, Lami Starnuti, Rossi Paolo, D’Aragona, Bocconi e Ghidini: “Chiedono di sapere quali urgenti e adatti provvedimenti il Governo abbia preso e intenda attuare per colpire tutti i responsabili, reprimendo il grave fenomeno, che potrebbe essere foriero di più gravi conseguenze”,

Mario Scelba, presidente del Consiglio dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955 e ministro degli Interni dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 e poi dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio 1962

Risponde il ministro dell’Interno Scelba, con un intervento che, nel suo complesso individua nel banditismo i responsabili. Dopo la cronaca dei fatti, entra nel merito. “Il delitto si è consumato in una zona fortunatamente limitata – e sarebbe estremamente ingiusto generalizzare a tutta la Sicilia – in cui persistono mentalità feudali sorde e chiuse, che pensano di ripagarsi con un’imboscata o con una bravata fatta eseguire da arnesi di galera per torti ricevuti. Non è una manifestazione politica questo delitto: nessun partito politico oserebbe organizzare manifestazioni del genere, non fosse altro perché è facile immaginare che i risultati sarebbero nettamente opposti a quelli sperati.” E chiude. “Ogni cittadino, ogni uomo non può non deplorare questi residui di banditismo feudale, ed il Governo esprime il profondo e sentito cordoglio per le vittime…”

Riporto, di seguito, stralci della discussione avvenuta fra gli onorevoli: Li Causi (Pci), Mattarella (Dc), Varvaro (Gruppo misto), Orlando Vittorio Emanuele (Gruppo misto), Giannini (Uomo qualunque), Bellavista (liberale).

GirolamoLiCausi

Girolamo Li Causi (da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/3/34/ GirolamoLiCausi.jpg)

Prende la parola Li Causi che non si ritiene “affatto soddisfatto delle dichiarazioni del Ministro dell’Interno”. Prosegue invitando a che “…si finisca con la retorica della difesa della Sicilia… il popolo siciliano che va difeso è quello che, nella sua enorme maggioranza, il 20 aprile (elezioni in Sicilia in cui vincono le sinistre, ndr), ha espresso il suo sentimento profondamente democratico e unitario”. Prosegue raccontando la sua testimonianza nell’aver visto “carni lacerate”. Spiega il valore del luogo facendo riferimento al “sasso sacro alla memoria di Nicola Barbato”, e al luogo in cui i contadini “…per venti anni, durante il fascismo, hanno conservato il labaro del fascio del 1894 che oggi torna a risplendere al sole”. A seguire entra nel merito dei presunti colpevoli. “Un particolare che si acclarerà: il maresciallo dei carabinieri di Piana dei Greci ‘schiticchiava’ – in siciliano vuol dire che si divertiva a mangiare – coi mafiosi della zona. I nomi dei probabili organizzatori della strage sono corsi sulla bocca di tutti e noi li facciamo, perché li abbiamo fatti sulla stampa e i contadini della zona li conoscono, e li conosce bene anche l’onorevole Bellavista (Unione democratica nazionale, ndr.). Sono i Terrana, gli Zito, i Bosco, i Troia, i Riolo-Matrenga; sono i capimafia, sono i gabellotti, sono gli esponenti del Partito monarchico e del blocco monarchico liberal-qualunquista di San Giuseppe Jato”.

Girolamo Bellavista

Bellavista lo interrompe: “Siete voi gli assassini!”. Giannini (Uomo qualunque) sostiene che “Il giornalista Li Causi non ha diritto di parlare qui! È un diffamatore!”.

Riprende Li Causi: “Siamo di fronte ad un fatto che mostra la decisa volontà di provocare in Sicilia la guerra civile, di mantenere, specialmente dopo il responso del 20 aprile, l’isola in uno stato di tensione, di torbida agitazione”. Poi rivolgendosi direttamente al Ministro: “…liberateci dagli alti funzionari addetti alla polizia, profondamente compromessi con i monarchici prima e dopo il 2 giugno come siete stato informato; e liberateci da quei marescialli dei carabinieri che vanno a braccetto coi mafiosi e cercano di mettere i galera il segretario della sezione comunista, della sezione socialista, i segretari dei partiti democratici, il segretario della Camera del lavoro…”.  Dopo lo scambio di battute fra Miccolis (Uomo qualunque) e Nenni (socialista), il verbale riporta: “Agitazione – Scambio di vivacissimi apostrofi fra l’estrema sinistra e la destra – tumulto – Il Presidente sospende la seduta e fa sgomberare le tribune”. Interessante leggere nel verbale il motivo dei tumulti…

La seduta riapre con Miccolis che sostiene di esser stato frainteso. Poi Li Causi riesce a finire l’intervento: “Il Governo non si è voluto rendere conto che in Sicilia bisogna fra piazza pulita di tutti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione, della polizia, ed anche della magistratura. Basta coi massacri, più orrendi di quelli consumati dai tedeschi e dai fascisti repubblichini contro le popolazioni inermi!”.

Bernardo Mattarella

Prende la parola Mattarella, che sostiene la possibile azione della criminalità organizzata: “Quello che è avvenuto a Portella è non soltanto grave dal punto di vista umano per il sangue che è stato versato e per i lutti che sono stati determinati, ma anche per il modo come l’imboscata è avvenuta, che denota una fredda e implacabile organizzazione criminosa, organizzazione e manifestazione criminose che non possono non allarmare quanti riguardano all’avvenire e allo sviluppo democratico e libero della vita isolana, perché libertà e democrazia sono anzitutto condanna di ogni forma di violenza soprattutto quando questa violenza si estrinseca in manifestazioni di così preoccupante criminalità”.

Antonino Varvaro

Prende la parola Varvaro che non si ritiene soddisfatto delle dichiarazioni del ministro e sostiene che bisogna cominciare a dare segni concreti della presenza dello Stato: “Uguali dichiarazioni egli (riferito al ministro Scelba, ndr) ha fatto anche in occasioni simili, cioè dichiarazioni generiche sempre e promesse di fare; ma qui non è più il caso di precisare quello che si è fatto o quello che si fa; qui bisogna rivolgere alla Sicilia una parola che tranquillizzi. Siamo al terzo o al quarto episodio di uccisioni e al secondo di strage”.

Vittorio Emanuele Orlando

Chiede di parlare Vittorio Emanuele Orlando che fa un accorato appello alla giustizia: “Onorevole ministro, qui occorre che giustizia sia fatta; ad ogni costo, deve esser fatta. Il sangue di queste vittime lo esige e grida vendetta. Quel piccolo bambino ucciso, quella povera donna trucidata (ricorrono al cuore, fra le varie vittime, i casi più dolorosi e raccapriccianti) bisogna che siano vendicati. Lo comanda la giustizia; lo esige l’onore della Sicilia, in questo momento offeso e compromesso”.

Guglielmo Giannini

Prende la parola Giannini che attacca Li Causi in quanto “…giornalista e che dirige un giornale che batte il record delle diffamazioni. Ne ha quaranta. Da un giornale diretto da un deputato in quelle condizioni non possiamo ascoltare che canzoni e non fatti”. Li Causi interrompe dicendo: “Cantava lei, mentre io ero in galera!”. A questo punto Giannini e Li Causi si ingiuriano ed è costretto ad intervenire il presidente Terracini sul merito delle ingiurie e sul ruolo della Commissione per le autorizzazioni a procedere.

Prende la parola Bellavista. “… il deputato Li Causi dirige La Voce della Sicilia, una allusione che, con un linguaggio un po’ diverso, è stata ripetuta qui dentro, e cioè che ci sono stati comizi infiammatori da parte di chi vi parla”. E conclude: “Il vero si è che io ho avuto oggi una delusione penosa, profonda, nei confronti di un avversario che io stimavo; ho dovuto constatare, con l’amarezza terribile che dà il disinganno, che egli ha tradito questa mia aspettativa, perché la fazione lo ha completamente accecato e la speculazione ha sommerso quello che sedici anni di nobili sofferenze avevano elevato in lui. Oggi non sei stato più tu, Li Causi; oggi non sei stato più tu, quando hai voluto speculare su quelle bare e su quelle tombe”.

Prende la parola il ministro Scelba che sostiene: “…non sempre è possibile al governo prevenire…”, portando ad esempio casi in cui il governo “…ha compiuto il suo dovere” (per trovare responsabili dell’assassinio di Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, ndr). Poi risponde a Li Causi e a Orlando sulle volontà del governo: “C’è oggi una procedura speciale la quale colpisce questi crimini. Non spetta al ministro dell’interno e non spetta all’autorità politica di giudicare e responsabili dei crimini. Mi auguro che la magistratura partecipi con la necessaria solerzia, perché dobbiamo riconoscere che non sempre essa interviene tempestivamente a reprimere i delitti contro la libertà dei cittadini”Continua l’intervento sostenendo, e rivolgendosi Li Causi, che non è un delitto politico ma “…è maturato in un’atmosfera sociale indubbiamente arretrata, indubbiamente feudale che persiste in zone che ogni giorno tendono a restringersi e che scompariranno al più presto”. Chiude dicendo: “…finiamola con le divisioni, finiamola con l’eccitamento agli odi, con l’eccitamento alla violenza; facciamo sentire al Paese che l’Assemblea è unita almeno nel suo giudizio di condanna contro questi crimini che disonorano la vita democratica di un popolo”.

Il presidente comunica che “È pervenuto alla Presidenza il testo d’una risoluzione della quale si pone la votazione dell’Assemblea”. Legge quindi il testo a firma: Nenni, Togliatti, Gronchi, Saragat, Cevolotto, Pacciardi, Lombardi Riccardo, Cianca.

Nel verbale si possono leggere il testo della risoluzione e l’intervento successivo del presidente dell’Assemblea costituente.

Il testo ottiene l’unanimità del Parlamento con la sospensione dei lavori per mezz’ora “in segno di lutto e di solidarietà col popolo siciliano e con le vittime dell’inumano eccidio”.

Quando riprendono i lavori, l’ordine del giorno recita: “Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana”. Si prenderà in esame il Titolo terzo.

Sulla base di nuove acquisizioni documentali, nel dicembre 2004 i familiari delle vittime chiesero la riapertura dell’inchiesta.

Ma per Portella della Ginestra, come per tante altre vicende che hanno insanguinato il Paese, la verità è ancora lontana e la strage è a tutt’oggi senza mandanti. Pietro Grasso, quando ricopriva la carica di presidente del Senato, chiese di rendere pubblici i documenti ancora non accessibili e accertare le responsabilità di una tragedia che ha segnato la storia della Sicilia e dell’Italia.

Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione

[1] Intervista tratta da: “Portella della Ginestra, la strage del Primo maggio” di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, pubblicata su Corriere.it il 1° maggio 2019

PUBBLICATO MERCOLEDÌ 6 MAGGIO 2020

 

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MARIA DI GESU’ prigioniera politica, dal campo di sterminio di Ravensbrück

Daniela Di Francesca
Daniela ha scritto: “75 anni fa, il 30 aprile del ‘45 i russi liberarono il campo di sterminio di Ravensbrück, nel nord della Germania. Delle 45.000 prigioniere– la maggior parte delle quali costrette dai nazisti ad evacuare il campo con le famigerate marce della morte- ne rimanevano al campo 3.000 gravemente ammalate. Tra queste, la mia cara prozia Maria Di Gesù, prigioniera politica, la quale, quel giorno, affacciatasi timidamente alla porta della sua baracca, vide morire sotto i propri occhi una sua cara compagna, con un colpo partito dalla pistola o dal fucile di uno dei pochi nazisti rimasti, che passava casualmente da lì. Sarebbe potuto accadere a lei, ma un destino alla fin fine benevolo, per motivi incomprensibili e misteriosi che sfuggono alla umana ragione, fece sì che potesse tornare a casa nella sua Palermo. Era un’insegnante.”

Daniela Di Francesca

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Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta

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Negli ultimi anni grazie all’impegno profuso dal Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta coordinato dal presidente Giuseppe Cammarata dal , con l’ausilio delle diverse sezioni ANPI locali del territorio nisseno, stanno emergendo parecchie storie di uomini e donne che hanno dato un contributo notevole alla storia della resistenza partigiana nel nord e centro Italia. Questo ha avvicinato molte famiglie siciliane a riscoprire se tra i loro antenati ci fosse qualcuno che in passato fosse stato un partigiano, deportato o antifascista.

Tutto questo grazie alle numerose iniziative politico culturali intraprese in questi anni dal Comitato Provinciale di Caltanissetta all’interno delle scuole, dei circoli culturali e alle presentazioni di diversi libri sull’argomento. Questo ha permesso di estendere il numero delle sezioni sul territorio nisseno negli ultimi cinque anni con la nascita della sezione “Sandro Pertini di San Cataldo”, la sezione “Gaetano Butera” di Riesi, la sezione “Joseph Sanguedolce” di Sommatino, la sezione “Bella Ciao” di Mussomeli e la sezione di “Niscemi”. In questi territori grazie a ricercatori e istituzioni locali è stato possibile censire le storie di molti siciliani che si sono spesi nella resistenza partigiana che potevano andare persi grazie al coraggio e alla volontà dei famigliari e dei pochi deportati e partigiani rimasti in vita.

Ecco le diverse storie che vogliamo proporvi di raccontare per il 75° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Medaglie e Riconoscimenti

Giuseppe RIGGI è nato a San Cataldo il 19 novembre 1920, arruolato nel Regio Esercito in data 25.11.1940 con matricola n.8679/31, giunto alle armi il 12.01.1941 e assegnato alla 15^ Compagnia Sussistenza.  Trasferito in data 29.02.1942 con la 53^ Squadra panettieri. Dopo varie peripezie l’11 maggio 1943 rientra in Italia dalla disastrosa e drammatica campagna militare di Russia e dopo l’8 settembre 1943 si unisce alle formazioni di partigiani operanti nelle zone di Lodi e Cremona con il nome di battaglia “Ricciardi” partecipando attivamente alle operazioni di contrasto alle forze nazifasciste nell’ambito della guerra di liberazione italiana. In data 26 luglio 1944 in località Erbatica del Comune di Spino d’Adda (Cremona), la formazione partigiana dove operava il Riggi Giuseppe veniva accerchiata e attaccata da ingenti forze fasciste, riuscendo a catturare dopo un conflitto a fuoco diversi membri della formazione partigiana mentre, se pur ferito di striscio in un piede, riusciva a scappare. Nella stessa giornata del 26 luglio 1944 le cascine tra in una località poco distante e precisamente in località Villa Pompeiana ricadente nel comune di Zelo Buon Persico (LO), le forze di oppressione fasciste trucidavano i partigiani patrioti catturati durante il feroce rastrellamento. Fu la strage più sanguinosa compiuta dai fascisti nel lodigiano, escludendo le stragi nazifasciste dei giorni dell’insurrezione. Il 29 aprile 1945 partiva a piedi per attraversare l’Italia e tornare nella sua San Cataldo per svolgere l’attività di contadino.

In data 2 giugno 2013 nell’ambito della ricorrenza della Festa della Repubblica Italiana, ha ricevuto dalle mani del Prefetto di Caltanissetta Dott. Carmine Valente, il Diploma di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica.

In data 16 dicembre 2016 nell’ambito dei festeggiamenti del 70° anniversario della Liberazione, ha ricevuto da sua Eccellenza il Prefetto di Caltanissetta Dott.ssa Maria Teresa Cucinotta, la “Medaglia della Liberazione”, riconoscimento assegnato dal Ministero della Difesa, con l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica, in occasione della ricorrenza del 70° anniversario della Guerra di Liberazione e della Resistenza.

In data 19 settembre 2017, su richiesta della Sezione ANPI “Sandro Pertini” di San Cataldo, veniva riconosciuto partigiano combattente e concesso il Diploma d’Onore di “Combattente per la Libertà d’Italia 1943-1945”, riconoscimento assegnato dal Ministero della Difesa.

Tutt’ora in vita e lucido, compirà 100 anni in prossimo novembre.

 

 

Michele LIPANI è nato il 5 febbraio 1911 a San Cataldo, iscritto al n. 20283 di matricola del Distretto Militare di Caltanissetta e richiamato alle armi per esigenze di carattere eccezionale, venne inserito nel Reggimento Fanteria di Agrigento, trasferito al 27° battaglione Costiero “Lecce”, imbarcatosi a Bari, partì per l’Albania. Partecipò dal 18.11.1942 all’8 settembre 1943 alle operazioni di guerra svoltesi in Balcania (guerra greco-albanese) col 428° Battaglione Territoriale Mobile (B.T.M.) 3ª compagnia P.M. 402.  Il 12 settembre 1943, in seguito all’Armistizio dell’8 settembre 1943, è stato fatto prigioniero delle truppe tedesche e condotto nel Lager di Fallingbostel (Bassa Sassonia- Germania) Stalag xI – B  dove è deceduto il 20 aprile 1944 per cause imprecise. E’ sepolto ad Amburgo, Cimitero militare italiano d’onore, Posizione tombale: riquadro 5, fila Q, tomba 54.

In data 11 Dicembre 1990 ha ricevuto n. due croci al Merito di Guerra alla memoria, dal Comandante del Distretto Militare di Caltanissetta, visto il R.D. 14 dicembre 1942, n 1729.

Il 28 gennaio 2017 ha ricevuto la medaglia d’onore del Consiglio dei Ministri come deportato IMI dal prefetto di Caltanissetta, Maria Teresa Cucinotta.

Alessandro Bevilacqua è nato Sommatino il 6 febbraio del 1924, era conosciuto per la sua vita da soldato partigiano per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Venne chiamato alle armi l’11 maggio 1943. Entro nelle file partigiane il 23 ottobre del 1944, operando tra i comuni di Zoppola, Casarsa della Delizia e altri comuni della provincia pordenonese. Alla conclusione del conflitto, si impegnò in prima linea nella segreteria della Lega Braccianti della CGIL di Sommatino per la difesa dei diritti della classe contadina. In ambito letterario ha pubblicato tre libri in vernacolo siciliano ( Li Misi di l’ANNU, Cci pinzu sempri, Lu nannu e lu niputi), dove attraverso racconti e poesie rievoca la sua Sicilia che lavora la terra, che lavora e muore nelle miniere, che emigra all’estero in cerca di fortuna. Il 25 aprile del 2016,  su richiesta dell’ANPI provinciale di Caltanissetta, Alessandro Bevilacqua ricevete la medaglia d’oro per il 70°anniversario della Liberazione da parte del prefetto di Caltanissetta. Un uomo che si è speso molto per la sua famiglia e per la propria comunità. Muore il 26 marzo 2017.

Mario Vela era nato a Ravanusa (AG) il 30 Gennaio 1916. Partigiano combattente. Zona d’operazione Monastero prov. Macerata. Appartenente alla Divisione Garibaldi formata da 350 uomini. Comandata la formazione il tenente Augusto Pantanelli. Muore il 10 agosto 2015 a Sommatino. Ha ottenuto la medaglia d’oro per il 70°anniversario della Liberazione da parte del prefetto di Caltanissetta il 25 aprile 2016, la cui richiesta è stata fatta dl Comitato Provinciale di Caltanissetta nel 2015 quando Mario Vela era ancora in vita-

Salvatore Russo nasce il 30 gennaio 1919 a Riesi. Aviere dell’esercito, Russo che oggi è Presidente onorario dell’Anpi di Riesi, venne catturato dai tedeschi in Albania. A tal proposito Russo ricorda: “Badoglio firmò l’armistizio incondizionato, noi in aeroporto eravamo in forze maggiori dei tedeschi ma il generale, un fascista, non ci diede indicazioni”. Uno dei tanti casi di un esercito lasciato allo sbaraglio dopo l’8 settembre.

Il 101enne di Riesi, ex aviere dell’Esercito, ricorda bene le sevizie e le angherie. Costretto come gli altri a lavorare in fabbrica su turni di 12 ore, alternativamente di giorno e di notte, insieme ai compagni di prigionia ha dovuto commettere qualche furto per poter mangiare. Come un furto di patate che gli costò punizioni corporali da parte dei tedeschi. “Per la fame commettevamo qualche furto. Avevamo rubato le patate da un magazzino vicino. Ci hanno preso e portato in una stanza facendoci mettere in uno sgabello a petto in giù con la testa fra le gambe dei tedeschi e un altro che dava bastonate”.

Due anni di prigionia prima della liberazione e del ritorno a casa. Prima, però, bombardamenti alleati sui campi e tante persone viste morire. “Ho subito pure io i bombardamenti e una notte, la più spinosa, per quattro cinque giorni bombardamenti a tappeto. I morti cadevano a terra insieme agli animali. Per fortuna avevo una coperta e quando ero fuori dopo l’allarme anti aereo, mi sono trovato rannicchiato con una coperta addosso, se ero più alzato non sarei qui”.

Il 28 gennaio 2017 ha ricevuto la medaglia d’onore del Consiglio dei Ministri come deportato IMI dal prefetto di Caltanissetta, Maria Teresa Cucinotta. La storia è stata pubblicata all’interno del manoscritto Resistenti, storie di antifascisti, partigiani e deportati di Riesi a cura di Giuseppe Giancarlo Calascibetta.

Salvatore Giujusa (Mazzarino), arruolatosi nell”Arma dei Carabinieri il 13 giugno 1938 venne assegnato al Comando di Legione di Trieste. Un anno dopo l’armistizio firmato dal governo Badoglio, l’arma dei carabinieri venne sciolta. Schieratosi nelle file dei partigiani venne fatto prigioniero il 28 settembre del 1944 in territorio Monte Croce, in Trentino, e deportato nel lager di Dachau in Germania. Fece ritorno a casa grazie alla liberazione avvenuta quando si trovava insieme ad altre 80 persone davanti ad un forno crematorio. All’ arrivo degli alleati, il giovane Giujusa  si trovava insieme ad altre 80 persone davanti al forno crematorio; ma si salva nel «tempo di nessuno», nell’ intervallo in cui i tedeschi erano scappati e i liberatori non erano ancora entrati nel campo. Rimasto senza forze, per sua fortuna non corre verso il filo spinato ancora carico di corrente elettrica, come avevano fatto altri compagni, morendo. Il completo scioglimento della tensione si raggiunge nel momento in cui Giujusa, rientrato in Italia, riesce ad abbracciare la sua famiglia: «Mia madre mi strinse al cuore, forte; non so se per un minuto o per un secolo. Ritornavo alla vita» Dopo 50 anni decide di trascrivere  i suoi ricordi nel libro: Il tempo di nessuno pubblicato nel Gennaio 2008 con l’introduzione di Oscar Luigi Scalfaro.

Nel 2018, in occasione della giornata della Memoria, il prefetto di Caltanissetta, Dott.ssa Maria Teresa Cucinotta ha consegnato ai famigliari di Salvatore Giujusa la medaglia d’onore alla memoria del Presidente della Repubblica.

Il 26 Gennaio 2019 , il Comune di Mazzarino ha intitolato una via a Salvatore Giujusa, ex Via Pecorella.

 

Giuseppe La Rosa  nacque a Riesi il 2 aprile 1918 e il 14 marzo 1940 venne chiamato alle armi, dal Distretto Militare di Caltanissetta. Dopo un lungo addestramento, venne destinato al 130° Reggimento Fanteria di Spoleto. Il 31 luglio del 1942, il La Rosa giunge a Cetinje, capitale del Montenegro.

Dopo l’8 settembre 1943 si aggrega ai gruppi di resistenza armata del Montenegro,  ma il 22 aprile 1944, venne catturato dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Mathausen-Gusen, in Austria. Venne impiegato nei lavori forzati. Il 5 maggio del 1945 venne liberato dall’esercito alleato.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Calogero Giardina è nato a Mussomeli l’1.12.1920, Il 29 gennaio 1939 viene chiamato alle armi  e giunge in data 31.01.1942 al 27° Reggimento Fanteria.  In data 15.08.1942 viene collocato effettivo nel 101° Reggimento Fanteria – 16° Battaglione “Cosenza”. Trasferito con il 101° Reggimento Fanteria in Grecia nelle zone di guerra. Il 9 settembre 1943, viene catturato dall’esercito tedesco e deportato in Germania. Destinato al lavoro coatto presso le miniere di carbone –Stammlager XII D – Zollverein Renania. Il 25 aprile 1945 viene liberato dagli Alleati e trattenuto dagli stessi fino al 21 ottobre 1945. In tale data Giardina Calogero ritorna in Italia e si presenta al Centro Alloggio di Verona. Lo stesso giorno gli viene concessa la licenza e ritorna a Mussomeli. Collocato in congedo illimitato in data 22 dicembre 1945, in tale data riscontriamo la seguente dicitura dal foglio matricolare: “Considerato come prigioniero di guerra a tutti gli effetti G 125900/1-3-133-8-5 in data I-II- 1945 dal Ministero di Guerra – Gabinetto.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Giuseppe La Rosa  nacque a Riesi il 2 aprile 1918 e il 14 marzo 1940 venne chiamato alle armi, dal Distretto Militare di Caltanissetta. Dopo un lungo addestramento, venne destinato al 130° Reggimento Fanteria di Spoleto. Il 31 luglio del 1942, il La Rosa giunge a Cetinje, capitale del Montenegro.

Dopo l’8 settembre 1943 si aggrega ai gruppi di resistenza armata del Montenegro,  ma il 22 aprile 1944, venne catturato dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Mathausen-Gusen, in Austria. Venne impiegato nei lavori forzati. Il 5 maggio del 1945 venne liberato dall’esercito alleato.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Paolino SALAMONE nasce a Sutera (CL) il 21 gennaio 1915, il 28 maggio 1940 viene richiamato alle armi per mobilitazione e giunge in data 06.06.1940 al 76° Reggimento Fanteria.  In data 14.06.1941 viene trasferito effettivo nel 225° Reggimento Fanteria. Trasferito il 15.06.1941 con il 225° Reggimento Fanteria sul fronte Greco-Albanese e giunge a Durazzo (Albania) il 16.06.1941. Catturato prigioniero dai tedeschi in data 08.09.1943 in seguito all’armistizio e deportano in Austria. Destinato al lavoro coatto presso il campo di prigionia di Wels (Austria). In data 31 maggio 1944, resta vittima durante una incursione aerea alleata. E’ sepolto nel Cimitero Italiano di Guerra di Mauthausen (Austria) – Fila n.3 – Tomba n.283.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, alla nipote viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta

 

Salvatore Pellegrino, nacque a San Cataldo il 22.02.1904, viene richiamato alle armi e inviato nelle zone di guerra in Croazia-Jugoslavia. Catturato prigioniero dai tedeschi in data 12.09.1943 in seguito all’armistizio e deportano in Germania nel M-Strannlager IIID – Bezeichnung nella regione della Sassonia dal 12.09.1943 al 29.08.1945. Liberato dalla prigionia dall’esercito sovietico.

Il 25 gennaio del 2019, su richiesta del Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta e della Sezione “Sandro Pertini” di San Cataldo, al figlio Liborio Pellegrino viene conferita la medaglia d’Onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Cosima Di Stani.

 

Carmelo Boncore nacque a Riesi il 15 luglio 1915 . Da ragazzo frequenta gli ambienti valdesi di Riesi, dove coltiva la sua cultura antifascista .  Il 25 maggio 1938 viene chiamato alle armi e assegnato al 29°Reggimento Artiglieria di Modena e inviato alla città di Valona. Il 13 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi e condotto nei campi di lavoro in Germania.

Il 9 aprile 1945 viene liberato e inviato al Centro Alloggio di Bolzano dove venne interrogato e curato prima di essere inviato a Riesi.  Alla fine del conflitto riceve due croci di guerra e il 27 gennaio 2020 su richiesta del Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta, gli è stata conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta dott.ssa Cosima Di Stani.

Luigi De Bilio nato a Riesi il 7 marzo 1918. Viene inviato sul fronte Greco-Albanese, dove dopo l’8 settembre 1943 viene arrestato dalle S.S e deportato in Germania nei campi di lavoro.  Viene liberato dagli Alleati. La sua storia non è stata mai raccontata a nessuno, neanche ai suoi famigliari. Solo nel 2019 con l’interesse di suo fratello Rocco De Bilio decide di rivolgersi al Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta  per fare la richiesta per l’ottenimento della medaglia d’onore alla memoria dal Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana. Il 27 gennaio 2020, ottiene il meritato riconoscimento, a consegnarlo il Prefetto di Caltanissetta dott.ssa Cosima di Stani.

Intitolazioni locali pubblici

Centro Polivalente Partigiano Gaetano Butera. Il 16 settembre 2016 è stato intitolato il Centro Polivalente di Riesi a Gaetano Butera, medaglia d’oro al valor militare e ucciso nel 1944 nelle Fosse Ardeatine; grazie al lavoro svolto da due anni a questa parte dell’assessore Franco La Cagnina e dallo studioso locale Salvatore Michele Mirisola, nonché componente della Commissione Toponomastica. Alla cerimonia hanno preso parte tutti gli studenti  presenti sul territorio,  l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Salvatore Chiantia, dal Presidente dell’ANPI Riesi Giuseppe Calascibetta dal Comitato provinciale dell’ANPi di Caltanissetta presieduto da Giuseppe Cammarata, dal Coordinatore Regionale ANPI Sicilia, Ottavio Terranova, dall’Associazione nazionale “Arma di Cavalleria di Sicilia”, del Capitano Salvatore Salerno, del Colonello dell’Esercito Italiano, Petralia,  dal Comandante dei Carabinieri di Riesi, Rosario Alessandro e dal Comandante dei Vigili Urbani Salvatore Miccichè. Una cerimonia solenne scandita dal silenzio e dall’inno nazionale intonato dalla Banda Musicale Don Bosco, seguita dalla benedizione della stele commemorativa da parte del Vicario Foraneo Don Antonella  Bonasera.  I ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori hanno potuto visitare la mostra di pittura “RiESISTENTI” che racconta la resistenza e l’antifascismo di Riesi,  curata da Rosario Riggio e Attilio Gerbino. La  testimonianza  di Gaetano Butera è stata raccontata dalla signora Silvia Baglio, cugina del partigiano Butera, e socia dell’ANPi di Roma sezione Don Papagallo. A tal proposito afferma: “Gaetano Butera era un giovane di 19 anni che ha sacrificato la propria vita per un ideale di libertà e democrazia. E deve essere un esempio luminoso per tutti i giovani presenti. Mio cugino inoltre ha combattuto a Roma nella ottava zona, e veniva aiutato molto spesso dai carabinieri che gli cedevano le loro armi per combattere i fascisti per poi riportarli nella notte stessa.  Sono orgogliosa che oggi a Riesi c’è un edificio pubblico intitolato a mio cugino  e soprattutto che esiste una sezione ANPI a Riesi”.

 

Sala Riunioni “Cap. Gaetano Mancuso. Il 26 aprile 2016 è stata intitolata su esplicita richiesta della Sezione Anpi “Sandro Pertini”, la Sala Riunione posta al primo piano del Palazzo di Citta di San Cataldo al Cap. Gaetano Mancuso nato a San Cataldo il 05.04.1904, Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Arruolatosi giovanissimo all’Artiglieria a Cavallo e corsista nella scuola ufficiali di Modena. Richiamato per partecipare con il 1290° Regimento di Fanteria della Divisione “Perugia” alle operazioni militari nella regione del Kosovo in Albania. La Divisione “Perugia”, comandata dal Generale Ernesto Chiminello, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e sino al 5 ottobre 1943, si sottopose a marce forzate nel tentativo di raggiungere e difendere i porti di imbarco di volta in volta indicati dal nostro Comando supremo. La marcia verso il mare, contrassegnata da continui scontri con i tedeschi, si concluse tragicamente a Porto Edda (l’odierna Sarandë Albania), dove il Generale Chiminello, catturato con molti suoi uomini, venne fucilato. Analoga sorte toccò ai suoi ufficiali e sottufficiali tra essi il Capitano Gaetano Mancuso, che si erano opposti alle forze naziste: il 5 ottobre 1943, 120 di loro vennero mitragliati dai tedeschi, i loro corpi cosparsi di benzina e poi incendiati, prima di essere buttati in mare. L’onorificenza della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria, è stata consegnata alla vedova Sig.ra Ascari Elsa, durante una cerimonia ufficiale nell’agosto 1952. Alla cerimonia di intitolazione erano presenziato; la vice Prefetto D.ssa Elisa Carbone, il Sindaco di San Cataldo Ing. Giampero Modaffari, il Dirigente della Polizia di Stato Michele Emma, il Comandante della Compagnia dei Carabinieri Cap. Mauro Epifani, il responsabile della Sezione ANPI Giuseppe Cammarata nonché, diversi componenti della famiglia Mancuso. Nel chiudere la cerimonia la Vice Prefetto Dott.ssa Elisa Carbone: “ Eventi come questo devono servire da testimonianza di coraggio, dignità e fierezza da lasciare soprattutto alle giovani generazioni ”.

 

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Straordinaria partecipazione al 25 aprile 2020

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LA LAPIDE NELL’ATRIO DEL COMUNE POSTA IL 25 APRILE DEL 2015

 

NEL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

LA CITTA’ DI PALERMO

CELEBRA CON RINNOVATA GRATITUDINE

E CONSEGNA ALLA MEMORIA DELLE NUOVE GENERAZIONI

AD ESEMPIO PERENNE DI CIVICHE VIRTU’

PARTIGIANI E PARTIGIANE

PERSEGUITATI PER CAUSE DI GIUSTIZIA

DEPORTATI NEI CAMPI DI STERMINIO

RESISTENTI, VITTIME E GLORIOSI CADUTI

NELLA LOTTA CONTRO LA BARBARIE NAZI-FASCISTA

PER LA RICONQUISTA DELLA LIBERTA’

PER LA RINASCITA DEMOCRATICA DEL POPOLO ITALIANO

E PER LA DIFESA DELLA DIGNITA’ UMANA

IL SINDACO E IL CONSIGLIO COMUNALE

PALERMO 25 APRILE 2015

La bandiera dell’Anpi svetta, orgogliosamente, sul balcone principale del Comune di Palermo, accanto a quella siciliana, italiana ed europea. Orgogliosa e rispettosa dei tanti nostri concittadini morti, anche, per la pandemia. E riconoscente per il lavoro e l’impegno profuso da tutti gli operatori sanitari ed a tutti gli altri che sono rimasti al lavoro per tutti Noi.

Alla cerimonia di commemorazione, dei partigiani e partigiane, dei confinati, perseguitati per motivi politici  combattenti contro la barbarie del nazifascismo o deportati nei campi di sterminio, dinanzi alla lapide posta nell’atrio del Palazzo delle Aquile di Palermo, erano presenti, rispettivamente, la Prefetta Antonella De Miro, il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il presidente del Consiglio comunale Totò Orlando ed il rappresentante dell’Anpi Palermo Armando Sorrentino

Un ringraziamento al Sindaco di Palermo ed al presidente del Consiglio che hanno accettato, sin da subito, le richieste di Anpi Palermo. Un ringraziamento particolare al nostro Armando Sorrentino che si e’ assunto il compito di rappresentare l’Anpi Palermo, su delega del Presidente Ottavio Terranova  

Salvo Li Castri

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CARLA NESPOLO E L’EUROPA

ANPI Palermo Barbato RECUPERIAMO PAGINE DI STORIA in tempi di koronavirus 4)

Nespolo: “L’Unione Europea espella l’indegno regime ungherese”

31 Marzo 2020

Dichiarazione della Presidente nazionale ANPI, Carla Nespolo

In Ungheria l’attribuzione dei pieni poteri a Viktor Orban, con l’ignobile pretesto della pandemia, segna la nascita di un regime antidemocratico e autoritario e svela il pericolo delle formazioni cosiddette sovraniste che nascondono dietro la parvenza democratica pulsioni nazionaliste e liberticide. A chi vaneggia sulla legittimità formale di tale decisione va ricordato che anche Mussolini e Hitler andarono al potere con una copertura di legittimità. La svolta ungherese è un’intollerabile ferita all’UE perché contrasta con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione che si basa “sul principio della democrazia e dello Stato di diritto”. Nel 75esimo della Liberazione esigiamo che l’UE espella l’indegno regime ungherese che ha tradito il patto antifascista da cui è nata l’idea di Europa.

Carla Nespolo – Presidente nazionale ANPI

31 marzo 2020

 
 
 

 

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L’ALBA, PRIMA O POI. Gianfranco Pagliarulo

L’ALBA, PRIMA O POI

Il diritto alla vita. Costituzione, salute pubblica, parlamento, eguaglianza. L’UE e i Paesi sovranisti

   

“Sentinella, a che punto è la notte?”, recita una citazione biblica. È la domanda che ciascuno di noi pone e si pone, scrutando nell’universo del web e delle tv qualcuno o qualcosa che faccia intravvedere uno sprazzo di luce. Ma oggi è notte, e a vista dobbiamo camminare nell’innaturale silenzio delle città. L’unica cosa certa è che dobbiamo operare per la salvaguardia della vita di tutti. E non è affatto facile, perché la tragedia che viviamo non ha precedenti, cioè non ha ricette collaudate, soluzioni sicure, esperienze vincenti. In attesa di farmaci e vaccini, i provvedimenti assunti in merito al cosiddetto distanziamento sociale sono gli unici che possono garantire una ragionevole speranza di rallentare l’avanzata della pandemia, affinché poi in qualche modo si estingua.

È evidente che in questo periodo siamo privati di diritti elementari, come quello di uscire da casa, ma ciò si spiega con la necessità di salvaguardare un diritto prevalente, quello alla vita, senza il quale non si potrebbe usufruire di alcun diritto. La Costituzione, che pure non specifica una norma relativa a provvedimenti conseguenti a catastrofi di questo tipo, in qualche modo lo prevede, quando afferma (art. 16) che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o sicurezza”.

A conferma, ecco l’art. 32: “La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (…)”. Ma l’urgenza della situazione è tale da non poter attendere l’ordinario iter che accompagna l’approvazione di una legge in parlamento. Le decisioni devono essere assunte qui ed ora, cambiando se necessario di giorno in giorno, come infatti sta avvenendo. Ciò spiega perché sono state assunte decisioni nella forma di decreto del presidente del Consiglio. Siamo insomma in una situazione di sospensione dove, pur seguendo la traccia costituzionale, non è centrale in ruolo del parlamento, che si è anche riunito in forme parziali e discutibili. Tale eccezionalità è però, in questa fase convulsa e drammatica, spiegabile, a condizione che rimanga tale e cioè che, trascorsa la necessità ed urgenza, si ritorni ad una piena restituzione dei diritti ed ad un altrettanto pieno funzionamento delle Camere, che devono esercitare il loro potere prevalente.

Foto Imagoeconomica

Il problema più pregnante oggi, invece, è quello dell’uguaglianza; l’Italia è divisa in due: la maggioranza, pur costretta dalle norme, è relativamente salvaguardata dall’epidemia tramite il distanziamento sociale ed altre tutele connesse; ma c’è una minoranza consistente della popolazione che non è salvaguardata, o è salvaguardata molto meno; si tratta di un lungo elenco: i medici e tutto il personale sanitario, gli addetti ai servizi pubblici, gli addetti ai servizi essenziali, i lavoratori delle aziende fondamentali, larga parte dei giornalisti e tanti altri, tutti coloro, insomma, la cui funzione è necessaria al fine della quotidianità della vita. A questi si aggiungono – si badi – altre categorie: i detenuti, coloro che vivono nei campi rom, gli immigrati irregolari, i clochard. Il rischio a cui sono esposte tutte queste categorie è molto maggiore di quello che corrono tutti coloro che usufruiscono del distanziamento sociale. La questione non si può risolvere astrattamente, ma ogni sforzo concreto dev’essere fatto per ridurre il rischio di chi è più vulnerabile al virus per la sua posizione sociale o lavorativa, a cominciare da tutti gli addetti alla sanità; tanto per essere chiari, colpisce l’elevatissima percentuale di medici contagiati.

Questo governo ha risposto e sta rispondendo a un’ondata travolgente di necessità, di urgenze e di drammi in un modo che è diventato esemplare su scala globale. Eppure è indispensabile che colmi il più possibile il gap di eguaglianza che si è creato nel Paese.

Cosa diventerà questo Paese, l’Europa e il mondo intero quando sarà passata la notte, non è dato sapere. Senza dubbio sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto, e cambierà in parte forse rilevantissima la nostra vita quotidiana per mille ragioni, a cominciare dalla crisi economica e occupazionale dovuta al lungo blocco delle attività produttive, commerciali e di servizio. Questo sarà il problema, e, per alcuni aspetti, lo è anche oggi, per tutti coloro, per esempio, che hanno visto di colpo interrotta la loro unica fonte di reddito. Si tratta perciò di una priorità assoluta nella gerarchia degli impegni del governo e del parlamento, e più in generale della vita sociale.

Emergency e altre ong, grazie ai loro volontari, portano a casa degli anziani e delle persone più fragili cibo, medicine e beni di prima necessità. Foto Imagoeconomica

Tutto ciò rinvia ad un criterio abbastanza ovvio in ogni emergenza nazionale: l’unità. Eppure, nonostante i pressanti inviti del Presidente della Repubblica che sta svolgendo una funzione davvero meritoria in questa situazione così difficile, siamo sommersi da distinguo, rivendicazioni, blasfemi riferimenti religiosi, persino fake news o insulti da parte di questo o quel personaggio pubblico, magari lo stesso che un mese fa sosteneva l’esatto contrario. C’è chi il 22 febbraio gridava “Blindiamo i confini”, il 27 febbraio diceva “Riaprire e rilanciare le fabbriche, i negozi, i musei”, ed oggi invoca misure sempre più draconiane con l’aria di chi dice “Io l’avevo detto!”. Si tratta – diciamo così – di uno spettacolo imbarazzante e di cattivo gusto, dove sembra prevalere l’interesse di parte sull’interesse nazionale, e dove il senso di responsabilità viene travolto dalla scelta di cavalcare le paure ed anche i rancori che in questo periodo stanno crescendo nel ventre della società.

Mascherine inviati dalla Cina all’Italia “fermate” in alcuni Paesi del patto di Visegrad (da https://static.nexilia.it/ nextquotidiano/2020/03/ mascherine-italia-cina-repubblica-ceca.jpg)

E c’è infine il contesto europeo dove, alla prima, devastante dichiarazione del 12 marzo di Christine Lagarde, presidente della Bce (“Non siamo qui per chiudere gli spread”), ennesima testimonianza dell’irriducibile incapacità della logica liberista di mettere al primo posto gli interessi dell’umanità, hanno fatto seguito dichiarazioni e decisioni di segno opposto, a cui hanno corrisposto finanziamenti ampi (ma vedremo se sufficienti e ben indirizzati). Ma, fra i tanti eventi di questi giorni, colpisce il sequestro in dogana di mascherine destinate all’Italia da parte della Polonia e della repubblica Ceca, Paesi, assieme all’Ungheria ed alla Slovacchia, di punta del sovranismo in Europa e dei muri contro i migranti. Non si tratta solo di gesti meschini che la dicono lunga sulla qualità dei rispettivi governi; si tratta di atti che colpiscono al cuore quel minimo di unità senza cui l’Unione europea è una parola priva di senso.

Ne discendono due conseguenze. La prima è la necessità di rafforzare il contrasto a ogni sovranismo, forma moderna e rivisitata del novecentesco nazionalismo, in cui con tutta evidenza gli egoismi nazionali entrano in rotta di collisione con gli interessi e i diritti degli altri paesi e che porterebbero inesorabilmente alla dissoluzione della Ue. La seconda è l’urgenza di un’altra Ue, dove comunità, solidarietà, responsabilità, non siano vuota retorica ma pratica quotidiana e dove si ponga al centro dell’interesse dell’Unione il lavoro, il progresso tecnologico e scientifico, l’uguaglianza, la pace. Questo era il Manifesto di Ventotene. Questa era la visione dei fondatori. Questa davanti alla grande crisi economica e sociale che si prospetta, è l’unica, ragionevole strada per salvare l’Europa e gli europei.

Tutti noi, tutti gli italiani sono scossi se non traumatizzati dal precipitare di eventi che hanno sconvolto in pochi giorni la nostra vita ed hanno persino negato la vita ad alcune migliaia di cittadini. Pur nelle mille contraddizioni di questo tempo infame, sappiamo che dopo la notte, dopo ogni notte, sorge l’alba. Non solo l’alba della scomparsa del virus e del ritorno ad una nostra vita piena. Il virus ci ha reso nudi, e questo ci dà la possibilità di essere migliori. Ci danno l’esempio i tanti medici che rischiano la pelle per curare gli ammalati. E forse, dopo, quando sorgerà l’alba, potremo guardarci con altri occhi, e potremo scoprire che c’è un altro modo di convivere e di rispettarci, di organizzare l’economia, la società, la politica, un altro modo di pensare, più libero e civile, un altro modo di vivere. O forse no, forse avverrà esattamente il contrario, con un ulteriore imbarbarimento. Dipende anche da noi. Mai come oggi c’è bisogno da parte di tutti di un nuovo senso di responsabilità nazionale verso gli altri e verso noi stessi.

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Coronavirus, il partigiano Carlo Smuraglia: «Affrontare il virus è come camminare in guerra tra le mine»

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«È come combattere una guerra che ci mette tutti sullo stesso livello, perché il coronavirus a modo suo è democratico. Tutti abbiamo una spada di Damocle sopra la testa e tutti abbiamo gli stessi obblighi». Carlo Smuraglia, presidente emerito dell’Anpi, avvocato, professore, parlamentare, 97 anni ad agosto, vive a Milano, nella Regione più flagellata dal Covid 19. Nel 1944 era un volontario al fianco dell’8ª Armata britannica, nel gruppo di combattimento Cremona. «Risalivamo l’Italia liberandola dai tedeschi» ricorda. E il flash tra quell’Italia straziata dalla guerra e questa attaccata dal Covid 19 è immediato.

Trova analogie tra l’epidemia e le sue esperienze nell’Italia stravolta dalla guerra?

«Si, anche se contro il virus è una guerra atipica. Ora si combatte contro un nemico invisibile che ci spara addosso senza che ce ne rendiamo conto, fa molte vittime, e non sappiamo bene con quali strumenti fronteggiarlo. Mi ricordo un episodio preciso».

Quale?

«Ci misero in una pineta piena di mine che dovevamo cercare con una specie di aspirapolvere. Se battendo il terreno sentivamo un certo rumore dovevamo dare l’allarme. Mentre dall’altra parte della pineta, fra gli alberi, c’erano i tedeschi che ci sparavano. Lì ho conosciuto la paura vera perché il nemico non le vedevi. Potevi prenderti una pallottola o saltare per aria a ogni passo. Oggi c’è lo stesso senso di ignoto e di incertezza, però almeno non mancano le medicine o il cibo».

Lei ha paura di ammalarsi?

«La considero un’eventualità che può capitare a me come a tutti. Sono certamente preoccupato perché ho una certa età, sto attento e prendo tutte le precauzioni. Ma la prendo con filosofia. Sa perché fatico ad addormentarmi la notte?».

Dica.

«Perché, per esempio, non riesco a vedere la mia nipotina di cinque anni: abita vicino a me, ma è meglio stare per un po’ lontani. Penso al suo futuro e vorrei che non vivesse momenti di dolore come questo».

Come trascorre le giornate?

«Lavorando, leggendo e ascoltando musica. Insieme a mia moglie Enrica. Siamo sposati dal 1961 ed è la mia preziosa compagna di vita, infatti, se ho avuto un minimo di successo nella mia vita lo devo certamente, per buona parte, a lei. Ora stiamo a casa, un pochino annoiandoci insieme, ma organizzandoci la giornata fra la musica classica, la lettura, la televisione che ci interessa».

È anche un’occasione per riflettere?

«Sul futuro. Credo che ne usciremo più consapevoli della relatività della nostra esistenza, perché di fronte al coronavirus siamo diventati piccoli. E più solidali, perché è una vicenda che stiamo vivendo tutti insieme. Ora non c’è posto per l’odio, c’è solo la voglia di contattare le persone alle quali si è in qualche modo legati. E così scopriamo quelle che vogliamo davvero vicino a noi».

E il futuro?

«Alla fine dovremo vivere una realtà nuova, con nuovi strumenti. Tanti avranno perso i propri e la crisi economica creerà problemi sociali».

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Prof, A. Scaglione ricorda Peppino Benincasa sopravvissuto alla strage di Cefalonia

64233003_331579291109165_7017896250070532096_nIn ricordo di Peppino Benincasa sopravvissuto alla strage di Cefalonia, ha combattuto come partigiano dell’ELLAS per la Libertà dell’Italia e della Grecia dal nazifascismo.

Mi avvio alla conclusione con le parole di Giuseppe Benincasa: <<Noi della Divisione Acqui non vogliamo ricompense, né chiediamo vendetta, perché non servono a risuscitare i 9.406 morti. Almeno, però dateci l’onore e ricordate che siamo stati i primi a combattere l’arroganza e l’alterigia dei nazi tedeschi>>                                                    Prof. Antonio Scaglione

 

 La battaglia e la strage di Cefalonia:

esperienze umane e processuali

The battle and the massacre of Cephalonia: human and procedural experiences

del Prof. Antonio Scaglione

Gentili Signore e Signori,
anzitutto ritengo doveroso ringraziare vivamente il prof. Giovanni Puglisi, Presidente della Società Siciliana per la Storia Patria e il dott. Salvatore Savoia, Segretario Generale della stessa, per avere
patrocinato il presente evento e per averlo ospitato in questo splendido e secolare Salone Di Maggio.
Ringrazio anche l’ANPI, nelle persone del Vice Presidente nazionale e Presidente della sede di Palermo, Ottavio Terranova, e del Vice Presidente, Angelo Ficarra, e tutti i relatori per avere aderito alla presente iniziativa.
Saluto cordialmente le Autorità civili e militari, i rappresentanti delle Magistrature, ordinaria e contabile, e dell’Avvocatura, e tutti i gentili ospiti intervenuti, che, con la loro presenza, testimoniano
stima e considerazione per questa iniziativa di memoria e di ricordo dei militari caduti nella battaglia e nella strage di Cefalonia.
Ringrazio infine, tutti coloro che, impossibilitati a partecipare, hanno fatto pervenire graditi messaggi di saluti e di ricordo delle vittime della strage, come, tra i tanti, il Presidente e il Vice Presidente della Regione, il Presidente della Corte di Appello, dott. Matteo Frasca, il Comandante Interregionale della
Guardia di Finanza, Generale di Corpo di Armata, Carmine Lopez, il Sindaco di Palermo, prof. Leoluca Orlando, e il Sindaco, Alexandros Paris, e il Vice Sindaco, Evangelos Kekatos, di Cefalonia.
Il 26 ottobre dello scorso anno, ci siamo già incontrati in questa stessa sede per presentare il volume sulla strage di Cefalonia, curato dal dott. Marco De Paolis, Procuratore generale militare di appello, oggi nuovamente presente tra noi, e dalla professoressa Isabella Insolvibile, nel quale i due studiosi hanno ricostruito questi drammatici eventi sotto il profilo sia storico sia giudiziario, inserendo anche una fondamentale appendice che contiene i più rilevanti atti giudiziari, sinora inediti

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L’amplissima pubblicistica sugli eventi di Cefalonia si è ulteriormente arricchita, nell’anno in corso, di altri due volumi: Filippo Boni, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia, Longanesi, Milano, e Ermanno Bronzini, La battaglia di Cefalonia, Il Mulino, Bologna4
.

Abbiamo deciso, con il presente Convegno, di ritornare su questi drammatici avvenimenti, anche per ricordare la recente scomparsa del soldato-partigiano, Giuseppe Benincasa, che era stato presente in questo stesso Salone, alcuni anni fa, per un altro Convegno sui processi per i crimini di guerra nazifascisti.
Giuseppe Benincasa raccolse anche le Sue memorie in un volume edito a cura dell’Anpi nel 2013, nel quale raccontò la sua vita: una gioventù difficile, connotata già da sentimenti libertari e antifascisti; l’arruolamento a 18 anni e la partenza per la Grecia; il suo inserimento nella banda musicale militare; la iniziale vita tranquilla a Cefalonia; le drammatiche vicende seguite all’8 settembre del 1943; le manifestazioni di giubilo per l’armistizio; i violenti combattimenti tra gli undicimila militari italiani e le truppe tedesche; la resa e il successivo eccidio di ufficiali e militari; la sua fuga dal luogo della strage; il suo ingresso nelle formazioni partigiane dell’Ellas; il suo matrimonio; la lotta partigiana e la
successiva guerra civile in Grecia; il suo rientro in Italia.

1 Testo della Relazione introduttiva svolta al Convegno su “La battaglia e la strage di Cefalonia: esperienze umane e
processuali” (Palermo, 19 novembre 2019, Fondazione “Società Siciliane per la Storia patria”).
2 Già Vice Presidente del Consiglio della Magistratura militare.
3 M. DE PAOLIS-I. INSOLVIBILE, Cefalonia: Il processo, la storia e i documenti, Viella Libreria editrice, Roma,
2017, passim.
4
V. F. BONI, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia, Longanesi, Milano, 2019; E. BRONZINI, La battaglia di
Cefalonia, Il Muino, Bologna. 2019. Negli ultimi anni, oltre al libro di DE PAOLIS-INSOLVIBILE, era stato
pubblicato anche il volume di E. AGA ROSSI, Cefalonia, la resistenza, l’eccidio, il mito, il Mulino, Bologna, 2016.
5 G. BENINCASA, Memorie di Cefalonia, Diario di un sopravvissuto della divisione Acqui, Quaderni dell’ANPI
Sicilia, a cura di F. Ciminato, Istituto poligrafico europeo, Palermo, 2013.

Particolarmente drammatiche sono le pagine nelle quali ha descritto come scampò alla strage: <<I miei commilitoni si accasciavano su di me. Gli spari si confondevano con le loro urla e i loro lamenti, cadevano come birilli. Venni travolto da quell’immenso peso umano che mi cadeva addosso, rimanendo schiacciato dai tanti corpi privi di vita, non riuscivo più a muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione>>6
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La battaglia, svoltasi nell’isola greca di Cefalonia tra il 15 e il 22 settembre 1943, costituisce il più rilevante scontro armato tra le truppe italiane, soprattutto della Divisione di Fanteria Acqui, e quelle tedesche dopo l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, che sancì la cessazione delle ostilità tra l’Italia e gli anglo-americani, e segnò l’inizio della Resistenza contro i nazifascisti.
Dopo i combattimenti e la resa della Divisione Acqui, il 22 settembre 1943 i tedeschi trucidarono migliaia di prigionieri militari italiani, il cui numero è ancora oggi uno dei fatti più controversi degli eventi di Cefalonia; prigionieri di guerra ai quali doveva applicarsi la Convenzione di Ginevra.
Il successivo 24 settembre gli ufficiali italiani superstiti furono fucilati in quello, che è stato definito dalla storiografia, come “l’eccidio della Casetta rossa”.
La strage rappresenta uno dei più gravi massacri e crimini di guerra commessi dalle truppe naziste nei confronti di militari italiani nel drammatico biennio 1943-1945.
La vicenda giudiziaria relativa alla strage di Cefalonia è analoga a tutte le altre vicende per i crimini di guerra commessi in Italia e all’estero dalle truppe nazifasciste nel biennio 1943-1945, evidenziando, drammaticamente ombre, luci e disfunzioni della nostra giustizia penale militare

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Il contesto originario è costituito dalla situazione del nostro paese alla fine del secondo conflitto mondiale.
Elementari esigenze di giustizia avrebbero imposto di processare immediatamente, con rigore e equilibrio, tutti i militari tedeschi e italiani, responsabili delle stragi e degli altri efferati delitti
commessi in danno di militari, civili e ebrei.
Sennonché ciò avvenne, come è noto, in maniera molto limitata.
Infatti, dopo i cinquanta processi circa a carico di militari tedeschi portati a conclusione dalle Corti militari alleate, l’Autorità giudiziaria militare italiana, nell’arco temporale di dieci anni, avviò e portò a conclusione solo dodici processi a carico di militari tedeschi per crimini di guerra.
Le cause devono essere ricondotte, sul piano internazionale al contesto della guerra fredda e, sul piano interno, al qualunquismo, alla sconfitta del fronte di sinistra nel 1948, alla spaccatura della popolazione tra comunisti e anticomunisti, al revanscismo, e al ritorno della vecchia Italia del compromesso e delle ambiguità.
A questo quadro, sul piano normativo, si devono aggiungere l’amnistia del Ministro della Giustizia dell’epoca, motivata dalla “necessità della riconciliazione e della pacificazione di tutti gli Italiani”, nonché i contestuali provvedimenti di indulto, di grazia e di liberazione condizionale concessi ampiamente ai condannati.
Solo nel 1994, dopo un lungo periodo di colpevole stasi giudiziaria, nel corso delle indagini riaperte per la strage delle Fosse ardeatine a carico del Capitano delle S.S. Erich Priebke, fu scoperto, negli
archivi della Procura generale militare presso la Corte di Cassazione, siti in Palazzo Cesi a Roma, un armadio, passato alla storia, secondo una puntuale definizione del giornalista Franco Giustolisi, come “L’armadio della vergogna”.
In questo armadio erano contenuti 695 fascicoli processuali relativi a delitti commessi dalle truppe tedesche e italiane della Repubblica di Salò nei confronti di civili e militari italiani in Italia e all’estero
dall’8 settembre 1943 al maggio del 1945, archiviati provvisoriamente nel 1960 dall’autorità giudiziaria militare dell’epoca, tra i quali anche gli atti relativi alla strage di Cefalonia9
.

6 G. BENINCASA, Memorie di Cefalonia, cit. p. 35 s.
7 Sul tema, v. S. BUZZELLI- M. DE PAOLIS – A. SPERANZONI, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti
in Italia. Questioni preliminari, Giappichelli, Torino, 2012, passim.
8 V. M. DE PAOLIS, La punizione dei crimini di guerra in Italia, in S. BUZZELLI, M. DE PAOLIS, A. SPERANZONI, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti, cit., p. 109 ss.
9 V. F. GIUSTOLISI, L’armadio della vergogna, Beat, Nutrimenti, Roma, 2011.

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Purtroppo, però, ombre e disfunzioni continuarono ad essere presenti. Infatti, alla luce di un altro recente studio della stessa prof. Insolvibile, sia pure limitato ai crimini di guerra commessi all’estero10, si registra un ulteriore periodo di stasi dal 1994 al 2001, caratterizzato da riaperture delle indagini e rapide conclusive archiviazioni.
Ad analoghe conclusioni, sulla base di un confronto tra gli elenchi forniti dalla Procura militare di Roma e gli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sull’occultamento dei fascicoli, si è
pervenuti anche con riferimento ai processi penali per crimini di guerra commessi nel centro dell’Italia durante l’occupazione tedesca. Nel periodo 1994-2001 si registrarono, infatti, sia provvedimenti di archiviazione senza lo svolgimento di idonee e effettive investigazioni, sia applicazioni generalizzate e problematiche dell’istituto della prescrizione.
Solo successivamente furono disposte invece riaperture delle indagini e positive conclusioni delle stesse per impulso di alcune Procure militari: la Procura militare di La Spezia, diretta dal dott. Marco De Paolis, tra il 2002 e il 2008, quella di Verona dal 2008 al 2010 – pubblico ministero De Paolis – e, infine, quella di Roma, diretta dallo stesso dott. De Paolis dal 2010 al luglio del 2019.
Da notare altresì che, mentre i pochi processi penali celebrati in precedenza avevano limitato la responsabilità penale ai comandanti, i nuovi processi hanno riguardato anche militari di grado non elevato sul presupposto della irrilevanza, per questi crimini di guerra, della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere.
Questi processi per fatti di strage, nonostante la difficoltà di avvalersi della prova testimoniale per il decorso del tempo e anche se con decenni di ritardo dovuti alla già evidenziata stasi processuale del periodo 1994-2001, si sono conclusi con decine di sentenze di condanna all’ergastolo.
In particolare, con riferimento proprio alla strage di Cefalonia il relativo procedimento penale fu avviato originariamente solo nel 2007 e fu chiuso successivamente per la morte dell’unico imputato,
un sottotenente dell’esercito tedesco. Le indagini furono però riaperte nel 2010 dal Procuratore militare Marco De Paolis e portarono, il 18 ottobre 2013, alla sentenza di condanna all’ergastolo (in contumacia) emessa dal Tribunale militare di Roma, poi passata in giudicato, del caporale tedesco
Alfred Störk, ritenuto responsabile del delitto di concorso in violenza con omicidio continuato commessa da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra, almeno 117 ufficiali.
Il Procuratore De Paolis dichiarò all’epoca che questa sentenza di condanna, a distanza di settant’anni dai fatti, costituì comunque un caso di <<denegata giustizia>>, soprattutto perché limitata ad un solo responsabile, pur essendo positiva la statuizione che l’ordine illegittimo, nel caso di specie, non doveva essere eseguito non potendo costituire <<un paravento per coprire misfatti del genere>> 11)

Al riguardo, voglio ancora una volta ricordare che il dott. De Paolis ha promosso e istruito oltre 500 procedimenti penali relativi a stragi commesse sia in Italia contro la popolazione civile – tra le quali le stragi di Marzabotto, Monte Sole, Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Padule di Fucecchio, San Terenzo e Vinca – sia all’estero contro militari italiani, prigionieri di guerra dei nazisti.
In questo contesto sono stati complessivamente 450 i procedimenti penali istruiti dal dott. De Paolis,
e, conseguentemente, 80 i militari tedeschi rinviati a giudizio e processati davanti ai Tribunali militari di Roma, La Spezia e Verona e 57 gli ergastoli irrogati a persone di cui sette ancora in vita nel 2016, ma la Germania non ha mai eseguito queste sentenze12
.
Mi avvio alla conclusione con le parole di Giuseppe Benincasa: <<Noi della Divisione Acqui non vogliamo ricompense, né chiediamo vendetta, perché non servono a risuscitare i 9.406 morti. Almeno, però dateci l’onore e ricordate che siamo stati i primi a combattere l’arroganza e l’alterigia dei nazi tedeschi>>13
.
10 I. INSOLVIBILE, Archiviazione definitiva. La sorte dei fascicoli esteri dopo il rinvenimento dell’armadio della
vergogna, in Giornale di Storia contemporanea, XVIII (2 n.s.), 1, 2015, pp.5-44.
11 M. DE PAOLIS, in Il Corriere della Sera, 2 marzo 2016. V., pure, E. A. ROSSI, Cefalonia, cit., p. 119 s..
12 V. M. DE PAOLIS, in Corriere della Sera, 2 marzo 2016.
13 G. BENICASA, Memorie di Cefalonia, cit. p. 65.61

Con il presente incontro abbiamo voluto fare memoria; memoria che – come scrisse Mario Rigoni Stern
con riferimento al testamento morale di Primo Levi
– è <<necessaria […] perché le cose che si dimenticano possono tornare>>.
Vi ringrazio per la vostra cortese attenzione.

 
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Andrea Camilleri e Pio La Torre

 

Andrea Camilleri: ”Pio La Torre è stato per me una rivelazione”

La prefazione storica dello scrittore al libro “Chi ha ucciso Pio La Torre” di Paolo Mondani e Armando Sorrentino
di AMDumila

Per onorare la memoria del Maestro Andrea Camilleri di seguito pubblichiamo la Prefazione al libro di Paolo Mondani ed Armando Sorrentino, “Chi ha ucciso Pio La Torre“, edito da Castelvecchi (2012).

La Prefazione
In Pio La Torre avviene un fenomeno singolare che è quello del ritorno. Romanzescamente, perchè io sono un romanziere, direi che di quest’uomo, di questo siciliano, è fondamentale la provenienza sociale. Non è un comunista borghese, uno che nasce da una famiglia borghese, è uno che sape quantu costa u pane e quale fatica ci vuole. Non è retorica, è vita vissuta, tanto che va in carcere per le lotte dei contadini di Bisacquino.
Se mi è permesso dirlo, all’interno della Direzione del partito la provenienza borghese era del 99 per cento e solo per l’uno per cento era operaia e contadina. E allora è chiaro che quando La Torre va in Sicilia nel partito a Roma si sentì più ricompattata. Il ritorno di Pio nella sua terra come segretario gli consente una rinascita, una sorta di riscatto, la possibilità di rendere azione tutto quel che si porta dentro, e gli dà una lucidità mostruosa. Anche se a conoscerlo e a parlargli non la manifestava e questo mi impressionò terribilmente dopo. Di La Torre si aveva l’impressione di un uomo serio ma in certo modo non in grado di fare quello che poi ha fatto. Invece questa sorta di bagno lustrale che viene a fare tornando in Sicilia gli dà una prontezza di ragionamento e di collegamento inaudita per cui è come se fosse diventato un’altra persona: ma che gli è capitato a La Torre, si è impazzito? Credo che abbia avuto questo effetto nel partito. E che fosse abbastanza diffusa questa sensazione. C’era perfino qualcuno che si era preoccupato del suo attivismo, del gioco di fuoco delle sue idee. Eppure se lo ascoltavi e ci riflettevi un momento sopra dicevi: Madonna è vero!

Ricordo che cominciai a seguirlo quando se ne andò in Sicilia nell’81 mentre io me ne stavo qua a Roma. Lo stimavo ma qui finiva il discorso. Tanto che l’unica cosa che ho potuto fare dopo la morte fu quella di dire – quando si decise di intitolare l’aeroporto di Comiso – che bisognava dargli il suo nome, non solo per quella mobilitazione contro la base missilistica ma per tutto quello che aveva fatto per la sua terra.
L’ ipotesi che gli autori di questo libro fanno sui moventi dell’omicidio mi ritorna da sempre come un trapano.
Cominciamo col dire che è comodo circoscrivere alla Sicilia il fenomeno mafioso – la linea della palma di Sciascia – anche se negli ultimi tempi si sono tutti resi conto che non sta in piedi. Quando Totò Riina decide di passare all’azione armata – lo leggo nel libro del magistrato Michele Prestipino – Bernardo Provenzano si preoccupa di fare un piccolo referendum, una specie di sondaggio interno, e c’è quello che porta il responso degli industriali del Nord e dice che sono tutti d’accordo. Mi sono sempre chiesto: ma chi erano questi che si dichiaravano d’accordo? Solo ora cominciamo a intravedere chi potevano essere: per venire sondaggiati vuol dire che uno gli può telefonare o andarli a trovare. Quando nella relazione della Commissione Antimafia del 1976 Pio intuisce questo legame aveva perfettamente ragione.

Pur essendo uno che veniva dalla destra del partito La Torre si ritrovò sulle posizioni della diversità berlingueriana, un’idea che continua tuttora a dare fastidio e che in quel momento era un signum individuationis molto preciso. Altro che moralismo.
La sua uccisione è un’opera di Dio, in termini marinareschi. Tu hai la rete nella tempesta e ti si rompe anche il motore: un’opera di Dio perchè è una concomitanza di fatti straordinari. Aveva gettato una tale quantità di ami che potevano ammagliare una gran quantità di pesci, troppi. E’ come quando Leonardo Sciascia insieme a Guttuso vanno a trovare Berlinguer e lo vedono stravolto perchè teme che il sequestro Moro sia il risultato di un felice connubio tra Cia e Kgb.
Certo, tra i moventi la proposta di legge sui patrimoni mafiosi può aver contato ma è dimostrato che la mafia si è assunta compiti anche per conto terzi, una parte di interesse nell’omicidio di Pio certamente l’aveva ma poi tornava comodo ad altri come copertura. Spesso in Sicilia si manifestano questi fenomeni di convergenza di intenti. Sindona, la mafia al Nord, Gladio, quanti altarini rischia di scoprire quest’uomo? Gli concedono di scoprirne alcuni minori ma tutti proprio no. Indagare su Sindona era tra l’altro una gran bella camurria: Sindona significa Andreotti e una gran quantità di cose, è come la Banda della Magliana compresa in un’unica persona. 
Ricordo che ci furono come delle reticenze sul movente dell’omicidio. Subito si disse: la mafia, la mafia, la mafia. Poi subito dopo, anche sui giornali, ci fu chi disse addirittura che si trattava di una resa di conti interna al partito, una cosa assolutamente incredibile. Se poi qualcuno non ha pianto lo metto tranquillamente in conto.

chi ha ucciso pio la torre libroIo e La Torre ci eravamo conosciuti fuori del partito per via di una comune amica. E mi aveva fatto un’impressione enorme. Nutro una personale simpatia per i miei compaesani che studiano, sono teste dure, non mollano e quando arrivano non è che arrivano per sé, arrivano per gli altri. La Torre era un siciliano di scoglio che se si metteva in mare poteva scoprire l’America.
Conoscevo molto bene anche Giuseppe Montalbano e un po’ meno Girolamo Li Causi, due facce complementari del partito. Li Causi era il capo popolo, Montalbano l’intellettuale ma con scarse qualità oratorie e un certo qual carattere. Ricordo che una sera andammo a teatro a Palermo a vedere Paola Borboni, stavo con Montalbano allora sottosegretario alla Marina mercantile nel governo Bonomi. Siamo nel ’44 o nel ’45. Dopo lo spettacolo la raggiungemmo nel camerino per salutarla e lei gli chiese: “Onorevole stasera ho recitato male, cosa ne pensa?” Lui: “Signora, se lo dice lei che ha recitato male…” . Io avrei voluto sprufunnari.

C’è sempre un momento giusto per i mandanti.
Ma quell’arco temporale tra il 1978 e il 1982 è da far tremare i polsi. Quel che accadde con l’omicidio Moro seguito alla morte di Mattarella e La Torre è un periodo che continua a segnare la nostra storia. Oggi si spara di meno. Il fenomeno mafioso è certamente meno sanguinoso ma non per questo meno pericoloso. E’ sempre più difficile fare la lotta alla mafia perchè è più impalpabile la sua organizzazione, altro che colletti bianchi, sono molto molto di più. Non c’è più bisogno del rituale di una volta, il santino bruciato, la puncicatura, ora bastano le password e le famiglie diventano sterminate perchè il territorio è quello del web quindi è infinito. Negli ultimi tempi la volontà di combattere la mafia è fragorosamente mancata. Hanno recentemente arrestato uno dei cento latitanti più pericolosi, ma scherziamo? Esattamente come una volta: finiva in carcere il guardiano dell’orto ma il proprietario del latifondo se ne era già andato bello e libero per i fatti suoi. Poi lo ritrovavamo ministro o onorevole.
La politica dello struzzo di Maroni che all’inizio descriveva il Nord come territorio libero dalla mafia finirà, come diceva Leonardo Sciascia, per portare la mafia sempre più a nord. Ai tempi di La Torre la situazione era più chiara. Per quanto fosse oscura, uno come Pio riusciva ad individuare i vari rivoli in cui il grande fiume si disperdeva. Riusciva a seguirli. Oggi sarebbe stato difficile anche per uno come lui. Lo aiutava molto la sua conoscenza del territorio, dell’animo dei siciliani, di come la pensano. Questa sua natività siciliana gli ha permesso di capire dove altri non capivano. Oggi è molto più difficile anche perchè c’è stato un impoverimento della statura della classe politica. Se Berlusconi è riuscito ad avere il potere per diciassette anni non è che si è imposto con la dittatura o con la forza delle armi. E’ stato regolarmente eletto dagli italiani. Se la politica ha prodotto un monstrum come Berlusconi vuol dire che ha fallito già vent’anni fa. Oggi si tenta in qualche modo di recuperare i cocci ma non saranno gli uomini che hanno contribuito a far nascere quel monstrum, e che stanno ancora in parlamento, a rinnovare la politica in Italia.

Monti è un tecnico condizionato dalla mala politica. C’è un pallone stratosferico, il Parlamento, un blob vagante che sostiene un governo di tecnici, uno Zeppelin che non ha più ancoraggi con la realtà politica del paese. E l’Europa è rimasta una parola. Perchè ci sono la Francia e la Germania che fanno quel che vogliono mentre l’Italia se la sta pigliando in saccoccia e la Grecia se l’è già pigliata.
Nel 1942 ero un giovane fascista non ancora diciassettenne, ci cridìa ‘u fascismu, e venni invitato a Firenze a un grande convegno internazionale della gioventù fascista. Il tema era l’ordine nuovo europeo. Partii pieno di speranze. Arrivai lì e sentii parlare Baldur Von Schirach, capo della HitlerJugend, e me ne tornai a Porto Empedocle scantato perché l’Europa che prospettavano sarebbe stata una caserma spaventosa. Io avevo tante piccole patrie, ero uno che aveva iniziato a leggere Conrad a sei anni, i miei padri letterari erano tanticchia in Inghilterra tanticchia in Francia, e al partito comunista mi avvicinai di lì a due anni per mia personale formazione. Non avevo incontrato Emanuele Macaluso, non avevo incontrato nessuno. Cominciai a leggere dei testi perchè mio padre era stato squadrista e marciatore su Roma ma possedeva tante belle pubblicazioni socialiste e comuniste. Quando più tardi sentii i capi del partito comunista attaccare una certa cultura, che per me era stata formativa, provai lo stesso disagio dei tempi di Mussolini. Poi venne il manifesto di Ventotene. Sentii parlare di Europa da De Gasperi e Adenauer. E molti anni dopo l’ho vista realizzata l’Europa ma solo sulla moneta. Ora mi domando: se avessimo perso un po’ più di tempo per fondarla su grandi ideali non sarebbe stata più forte?

L’Italia è una paese senza verità, ed è sempre stato un paese che ha accuratamente nascosto la verità. Facciamo l’esempio del brigantaggio meridionale. Se prendiamo un libro di storia viene definito come fenomeno di alcune bande, poi guardando lo specchietto del Comando di Capua riassuntivo per gli anni che vanno dal 1861 al 1863 e si trova scritto: briganti uccisi in combattimento 5.488, briganti fucilati 5.040, briganti arresi 4mila. Ma quali briganti, era un’altra cosa. Però nei libri di storia si continua a chiamarlo brigantaggio meridionale. Così come Pio La Torre è stato ammazzato dalla mafia o Aldo Moro dalle Brigate Rosse o a Ustica quel Dc9 è caduto per un incidente.

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Pio La Torre

Siccome la verità, come diceva la buonanima, è rivoluzionaria, evidentemente in Italia ci credono sul serio e quindi cercano di evitare la rivoluzione. Guardiamo a Portella della Ginestra, a quei tempi c’era un ispettore generale di Pubblica Sicurezza che si chiamava Messana che andava a trovare regolarmente il bandito Giuliano e per Natale ci purtava ‘u panettuni. Da chi era manovrato questo bandito quando sparava a Portella? Solo dagli agrari? Non mi persuade.
E l’occultamento della verità non è prerogativa solo italiana. Nel caso Kennedy rimangono senza risposta interrogativi grossi come una casa. Noi la verità la intuiamo, se su Portella ci fosse stato un processo serio avremmo almeno una verità relativa. Invece ci resta solo una verità che sentiamo a pelle e capiamo che c’è qualcosa che non torna perchè tra segreto di Stato, silenzi e complicità avvertiamo una molteplicità di moventi, ma lì ci fermiamo. E così è capitato per il caso La Torre, dove dietro l’omicidio non c’è una sola causale ma almeno tre. La primaria ti viene sbattuta in faccia e le altre sono coperte. Arrivi ad intuirle ma non a dimostrarle.
Quell’articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera dove diceva: “Io so i nomi dei responsabili delle stragi”; questa è l’unica cosa che si può dire. Non è l’ Io so di non sapere, è l’ Io so di sapere.
Ciò nonostante la società ha spesso più anticorpi delle istituzioni, le più facili ad ammalarsi. Perché subiamo oggi il fascino di certe società o di modi di ragionare che sono più del nord Europa che non del nostro paese? Perchè c’è una maggiore chiarezza nei rapporti umani. Noi non siamo così. Ha ragione Pirandello quando un suo personaggio dice: io di fronte a lei mi costruisco, cerco di dare l’immagine che lei vuole di me. Questa idea pirandelliana è assai meno cervellotica di quel che si pensi, è un modo di fare delle società meridionali, non solo italiane. E in Sicilia tutto questo acquista persino una sua grandeur.
Nella vicenda La Torre ci sono i servizi segreti che lo pedinano per decenni, spariscono i suoi documenti e sparisce la sua borsa. Le borse, chissà perché, spariscono sempre. E c’è la storia di alcuni professori a cui La Torre porta dei documenti riservati da studiare. Pio quelle carte le aveva evidentemente lette, le aveva interpretate e voleva la conferma di quel che aveva capito. E cioè che fra Stato e mafia c’era una relazione continua.
C’è un filo che collega Portella e le stragi fino a via D’Amelio? Perché non ipotizzare un continuum? Fino ad un certo periodo la mafia ha agito per interposta persona. Con lo sbarco degli americani, nel 1943, c’è il salto, un fatto clamoroso non mai abbastanza segnalato. Charles Poletti, capo dell’AMGOT ma in realtà agente Cia inviato in Sicilia, nomina sindaci una quantità di mafiosi, da Calò Vizzini a Genco Russo. E la mafia fa il suo ingresso in politica dopo che era andata in sonno durante il fascismo. Sarà pure politica amministrativa, ma sempre politica è. Ed è qui che si pongono le basi per scegliere quegli uomini collusi che faranno poi carriera politica. Una volta un deputato siciliano disse pubblicamente che si sarebbe rifiutato di far parte di una commissione perché vi era entrato un collega, anche lui siciliano, che lui pensava fosse un mafioso, non venne querelato e non venne sparato, ma la cosa venne detta. Sto parlando degli anni ’50. Se io sono stato eletto con i voti della mafia sono il rappresentante della mafia in Parlamento e questa non è trattativa, è qualcosa in più. Una volta tuttu u paese u canusciva u mafiusu, stava assettatu a u cafè e quella era la persona di riferimento. Quando quello non è più seduto lì ma sta seduto in Municipio e poi in Parlamento cosa accade nella mentalità siciliana? Quando si dice che il povero siciliano era combattuto fra la mafia e lo Stato, in alcuni momenti è in verità combattuto tra mafia e mafia e tra Stato e Stato.
Evidentemente le ultime carte nelle mani di Pio La Torre erano materia esplosiva eppure gli esperti a cui lui intendeva far analizzare quei documenti non sono mai stati interrogati né cercati da un magistrato. Di Pio non ho capito la sua intelligenza. Forse se ne vergognava, forse per prudenza, forse per pudore. Qualcuno della Direzione del partito un giorno mi disse: è un uomo rozzo. E io mi incazzai. E dovendo discutere dell’ammissione in sezione di uno che era operaio dissi: “ammettiamolo benchè operaio”. Venni rimproverato di fare dello spirito inutile.
La Torre è stato per me una rivelazione, io non l’avevo capito quell’uomo. L’ho stimato, l’ho apprezzato ma non l’avevo capito. E’ stata un’occasione persa. Da mangiarsi le dita.

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Peppino Benincasa

17 LUGLIO ORE 17.00. Le ceneri del nostro carissimo compagno Peppina Benincasa sopravvissuto alla strage nazifascista di Cefalonia e Partgiano dell’Ellas saranno esposte nell’atrio del Comune di Palermo per una grande e solenne commemorazione.
Vi invitiamo a partecipare per dare l’ultimo saluto all’indimenticabile Zio Peppino.
Partigiano dell’Ellas,  della Divisione Acqui, Sopravvissuto al massacro nazi-fascista di Cefalonia, cavaliere della Repubblica, Premio Acqui e testimone d’accusa nell’ultimo processo contro il nazista Alfred Stork.    

Compagne, compagni partecipiamo tutti per rendere omaggio ad un compagno, uomo semplice ma straordinario nello stesso tempo; libertario, profondo ricercatore e conoscitore delle ricchezze archeologiche del suo territorio. Uomo di grande intelligenza e umanità. Ci reputiamo fortunati, felici e orgogliosi di avere avuto la fortuna di conoscerlo.

Addio zio Peppino.

Le compagne e i compagni dell’ANPI Palermo Comandante Barbato

14 luglio 2019

 

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