Dal sito di ANPI Gorizia
Speciale foibe
L e foibe, la deportazione, l’esodo degli italiani d’Istria e della Dalmazia, la violenza contro i diversi gruppi etnici, Trieste e la vicenda del
territorio libero con la Zona A e la Zona B, la guerrafredda, le persecuzioni jugoslave e l’oppressione fascista e nazista della Croazia e della Slovenia, gli orrori del
regime di Ante Pavelicˇ e le vicende dei serbi. E ancora la situazione della Venezia Giulia, le crisi del 1950 e del 1953, lo scontro tra l’Urss di Stalin, il Cominform
e il maresciallo Tito. E tutti i drammi al confine orientale che hanno provocato stragi, lutti, tanto dolore, tante incomprensioni e ignobili speculazioni propagandistiche.
Soprattutto da parte di una destra neofascista che, sul problema delle foibe, per esempio, dimentica sempre di ricordare che furono le decisioni di Mussolini
e di Hitler a far precipitare nella tragedia un dramma antico.
Insomma, fu il fascismo, dopo la Prima guerra mondiale, ad imporre un regime di terrore e di occupazione tra le popolazioni slave. Solo dopo l’8 settembre e la caduta del fascismo, gli italiani antifascisti si ritrovarono, insieme agli jugoslavi, sulle montagne per guadagnare, insieme, di nuovo, la libertà.
La vittoria antifascista e antinazista, purtroppo non portò pace in quelle zone: anzi. Anche il mondo della Resistenza si divise. Soprattutto dopo la strage di Porzûs
e le scelte di campo di molte centinaia di comunisti italiani che credettero nell’internazionalismo proletario e si schierarono, con autentica convinzione, afianco del regime di Tito, scegliendo perfino di andare a vivere e lavorare in Jugoslavia.
Molto spesso e negli anni del secondo dopoguerra, reticenze e speculazioni di parte, coprirono poi la verità. Così le accuse reciproche non si sono mai fermate.
Nel 1993, i ministri degli Esteri dell’Italia e della Slovenia, come atto di buona volontà delle due parti, istituirono una Commissione storico-culturale italo-slovena
con lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica, realizzata nei due Paesi sul tema dei reciproci rapporti.
Dopo sette anni di lavoro e ripetuti incontri, la relazione conclusiva della Commissione fu approvata dai suoi 14 componenti, il 25 luglio 2000 e consegnata ai
rispettivi Ministeri degli Esteri. Inspiegabilmente, per otto mesi, non venne resa pubblica. La sua pubblicazione venne comunque sollecitata dal Comitato provinciale
di Gorizia dell’Associazione nazionale partigiani e anche da un voto unanime della Camera dei Deputati.
Soltanto il 4 aprile 2001, da parte del Ministero degli Esteri italiano e da parte del quotidiano Il Piccolo di Trieste, avvenne la pubblicazione del testo. Ma i grandi
giornali italiani, la televisione, la radio e gli altri mezzi di comunicazione di massa, fecero tutti finta di niente. Quella inchiesta italo-slovena dava evidentemente
noia a qualcuno e rimase nei cassetti. Solo l’Anpi di Gorizia, ancora una volta, pubblicò il testo integrale del documento che ebbe, però, scarsissima diffusione.
Insomma, gli italiani non dovevano sapere che cosa avevano accertato gli storici italiani e sloveni. Per questo abbiamo deciso di pubblicare integralmente su
Patria (nel supplemento a parte), quel testo storicamente e politicamente molto importante.
* * *
L’argomento della frontiera orientale, delle foibe e dell’atteggiamento degli italiani nell’immediato dopoguerra verso i profughi istriani, è talmente importante
che il 10 febbraio del 2007, tra mille polemiche ancora una volta provocate dalla destra italiana, ma anche da gruppi minoritari del nazionalismo sloveno e
croato, è stato organizzato, ad Ancona, dal Forum permanente tra le Associazioni antifasciste e partigiane e gli Istituti di storia delle città adriatiche e
ioniche, un convegno internazionale per affrontare il tema: “La frontiera orientale. Conflitti, relazioni, memorie”.
Dagli atti di quel convegno noi abbiamo preso la relazione di Carla Marcellini, dal titolo: “Tornerà l’imperatore. Memoria, identità e scritture femminili del –
l’esodo” e quella di Claudia Cernigoi intitolata: “Le foibe tra storia e mito”. Sono testimonianze importanti per capire i drammi personali di tanta gente e le
polemiche sulle foibe. Tutti gli atti del convegno sono stati pubblicati da Il lavoro editoriale, a cura di Nazareno Re e con una prefazione di Predrag Matvejevic´.
Pubblichiamo i due testi dopo il documento ufficiale sui rapporti italo-sloveni.
f I RAPPORTI ITALO-SLOVENI TRTA IL 1880 E IL 1956
RELAZIONE DELLA COMMISSIONE ITALO-SLOVENA
A cura dellʼANPI di Goriziar il 1956
Nel 1993 i Ministri degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono una Commissione storicoculturale
italo-slovena con lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica realizzata nei
due Paesi sul tema dei reciproci rapporti.
La Commissione era formata da parte italiana da Giorgio Conetti, docente di diritto
internazionale e preside della facoltà di giurisprudenza di Como che la presiedeva, e dagli storici
Angelo Ara (Università di Pavia), Marina Cattaruzza (Università di Berna), Fulvio Salimbeni
(Università di Udine), Raoul Pupo (Università di Trieste), Maria Paola Pagnini, ordinario di
geografia dell’Università di Trieste e dal sen. Lucio Toth, dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia
e Dalmazia. La parte slovena, presieduta dalla dott.ssa Milica Kacin Wohinz era composta dagli
storici France Dolinar, Branko Marusˇicˇ, Boris Mlakar, Nevenka Troha, Andrej Vovko e Aleksander
Vuga. Inizialmente fecero parte della Commissione anche il costituzionalista Sergio Bartole, lo
scrittore Fulvio Tomizza, lo storico Elio Apih e Boris Gombacˇ che, per vari motivi, non poterono
proseguire nell’incarico.
Dopo 7 anni di lavoro e ripetuti incontri la relazione conclusiva della Commissione fu
approvata all’unanimità dai suoi 14 componenti il 25 luglio 2000 e consegnata ai rispettivi
Ministeri degli esteri, ma inspiegabilmente per 8 mesi non fu resa pubblica.
Benché la pubblicazione fosse stata sollecitata da più parti, tra le quali l’ANPI, e da un voto
unanime della Camera dei Deputati, la relazione fu resa pubblica nel testo integrale soltanto il 4
aprile 2001 dal quotidiano “Il Piccolo” e – lo stesso giorno – anche dal Ministero degli esteri.
Tuttavia questo documento, salvo rare eccezioni, non fu ripreso ed adeguatamente diffuso
benché costituisca una base certa per una riflessione sulle tormentate vicende del confine
orientale e dei popoli che in quest’area convivono.
L’A.N.P.I. lo ripropone a chi vorrà approfondire la materia ed in particolare a quanti
svolgono la delicata ed essenziale funzione di sollecitarne la conoscenza alle giovani generazioni
nelle scuole, ritenendo con ciò di recare un contributo per lo sviluppo di un dibattito finalmente
sottratto a visioni unilaterali e di parte.
Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Comitato Provinciale di Gorizia
Avvertenza: il documento approvato dalla Commissione è privo di titolazioni ad eccezione di
quelle che si riferiscono ai quattro periodi presi in esame.
I titoli che appaiono nel testo sono quindi dovuti a noi al solo scopo di facilitarne la
lettura.
II l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
Periodo 1880-1918
Il rapporto italo-sloveno nella regione adriatica
ha la sua origine nella fase di crisi successiva al
crollo dell’impero romano, quando da una parte
sul tronco della romanità si sviluppa l’italianità e
dall’altra si verifica l’insediamento della popolazione
slovena. Di questo secolare rapporto di vicinanza
e di convivenza s’intende qui trattare il periodo,
che si apre intorno al 1880, segnato dal
sorgere di un rapporto conflittuale e di contrasto
nazionale italo-sloveno. Questo conflitto si sviluppa
all’interno di una realtà politico-statale, la monarchia
asburgica, della quale le diverse zone costituenti
il Litorale austriaco erano entrate a far
parte attraverso un secolare processo, iniziato nella
seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con
l’Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale monarchia
asburgica nella seconda metà del XIX secolo
appare incapace di dare vita a un sistema
politico che rispecchiasse compiutamente nelle
strutture statali la multinazionalità della società,
ed è scossa pertanto da una questione delle nazionalità
che essa non sarà in grado di risolvere.
All’interno di questa Nationalitätenfrage asburgica
si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si riflettono
anche i processi di modernizzazione e di
trasformazione economica, che toccano tutta l’Europa
centrale e la stessa area adriatica. Il rapporto
italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo
un modello che si ritrova anche in altri casi della
società asburgica del tempo, da un contrasto tra
coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno
stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale
ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che
tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione
esistente. Il problema è reso ancora più
complesso dall’indubbio richiamo culturale ed
emotivo, anche se non sempre politico, che l’avvenuta
proclamazione del Regno d’Italia e forse
più ancora il passaggio a questo stato dei vicini
territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle popolazioni
italiane d’Austria. Allo sguardo che gli
italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia
si contrappone la volontà slovena di rompere i
confini politico-amministrativi, che in Austria li dividono
tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale,
la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitandone
i rapporti reciproci e la collaborazione politiconazionale.
L’unione del Veneto al Regno d’Italia
aveva determinato anche la nascita di una questione
che tocca direttamente le relazioni italoslovene:
con il 1866 la Valle del Natisone, la Slavia
veneta, entra a far parte dello stato italiano, la
cui politica verso la popolazione slovena esprime
immediatamente la differenza tra un vecchio stato
regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo
stato nazionale. Il Regno d’Italia segue una linea
di cancellazione del particolarismo linguistico, che
ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice
che non tiene in alcun conto neppure l’atteggiamento
lealistico della popolazione che è oggetto
di queste misure.
L’insorgere delle questioni nazionali
nell’impero Austro-ungarico
Intorno all’anno 1880 gli sloveni si erano ormai
dotati di basi sufficientemente solide per
un’autonoma vita politica ed economica in tutte
le unità politico-amministrative austriache nelle
quali essi vivevano.
Anche nel Litorale austriaco il movimento politico
degli sloveni del Goriziano, del Triestino e
dell’Istria costituì parte integrante del movimento
politico degli sloveni nel loro complesso.
Viene così a diminuire, per poi cessare quasi
completamente nei decenni successivi, l’assimilazione
della popolazione slovena (e anche croata)
trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a
Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e
la maggiore solidità economica sono alla base di
questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà
vita a una politica spesso angusta di difesa nazionale,
che contrassegnerà la storia della regione sino
al 1915, e contribuisce a rendere più teso il
rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa
delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a
una diversa delimitazione dei rispettivi territori
nazionali.
In tutte le tre componenti territoriali del Litorale
austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gradisca,
Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni
accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione
nazionale appariva più netta, con una separazione
longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente
mista era solo la città di Gorizia, dove il numero
degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere
ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915
che il raggiungimento di una maggioranza slovena
nella città isontina fosse ormai imminente.
Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario
era sloveno. Anche in questo caso la popolazione
slovena appariva in ascesa. In Istria gli
sloveni erano presenti nelle zone settentrionali,
per la precisione nel circondario delle cittadine
costiere a prevalenza italiana. In tutta l’Istria il movimento
politico- nazionale degli sloveni si saldava
con quello croato, rendendo talora difficile una
trattazione distinta delle due componenti della
realtà slavo-meridionale della penisola. Il carattere
peculiare degli insediamenti italiano e sloveno
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l III
I RAPPORTI ITALO-SLOVENI
nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia prevalentemente
urbana di quello italiano e eminentemente
rurale di quello sloveno. Questa distinzione
non va però assolutizzata, non devono essere
dimenticati gli insediamenti rurali italiani in
Istria e in quella parte del Goriziano detta allora
Friuli Orientale e quelli urbani sloveni – oltre a
tutto in espansione, come si è già detto – a Trieste
e a Gorizia.
Ma anche se una separazione troppo mar cata
tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto città-
campagna rappresenta effettivamente un momento
fondamentale della lotta politica nel Litorale,
determinando anche un intersecarsi di motivi
nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno,
che ne renderà più difficile una composizione. Il
nodo del rapporto tra città e campagna sta anche
alla base di un dibattito politico e storiografico
tuttora in corso sull’autentica fisionomia nazionale
della regione Giulia. Da parte slovena si afferma
l’appartenenza delle città alla campagna, sia
perché nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta,
non alterata dal sovrapporsi di processi culturali
e sociali, l’identità originale di un territorio,
sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la
conseguenza di processi di assimilazione che
hanno impoverito la nazione slovena. La perdita
dell’identità nazionale attraverso l’assimilazione è
quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo,
come un’esperienza dolorosa e drammatica, che
non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con
il richiamo al principio di appartenenza nazionale
come frutto di una scelta culturale e morale liberamente
compiuta e non di un’origine etnico-linguistica.
Tornando al nesso città-campagna, secondo
l’interpretazione italiana è invece la tradizione culturale
e civile delle città che dà la propria impronta
alla fisionomia e al volto di un territorio. Da questa
differenza di impostazione deriveranno anche i
successivi contrasti sul concetto di confine etnico e
sul significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità
delle popolazioni in aree di frontiera, alterati
– a parere degli sloveni – dall’esistenza di polmoni
urbani prevalentemente italiani.
Nascita, crescita e scontro tra patriottismi
Benché la questione nazionale all’interno della
monarchia asburgica presenti alcuni denominatori
comuni, le condizioni conflittuali nelle singole
zone e quindi anche nel Litorale presentano peculiarità
specifiche. La rapida crescita del movimento
politico ed economico sloveno e l’espansione
demografica degli sloveni nelle città sono ricondotte
da parte italiana anche all’azione dell’autorità
governativa che avrebbe attuato una politica
di sostegno all’elemento sloveno (ritenuto
indubbiamente più leale di quello italiano, come
risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache),
per contrastare l’autonomismo e il nazionalismo
italiano. L’attribuzione di una fisionomia
esclusivamente artificiale all’espansione slovena
non tiene però conto di quella che è la naturale
forza di attrazione esercitata da centri urbani verso
le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata
da una grande città in crescita dinamica come
Trieste verso il suo circondario. Questo rapporto
risponde a leggi economiche, come hanno
sottolineato Angelo Vigante e Scipio Slataper, e
non solo a un disegno politico.
Anche alla Chiesa cattolica, come all’autorità
governativa, gli ambienti nazionali e liberali italiani
rimproverano frequentemente di svolgere una
funzione filo-slovena, affermazione questa suffragata
dall’attiva partecipazione di sacerdoti al movimento
politico sloveno.
Su un piano politico-amministrativo l’asprezza
della questione nazionale impedisce o rende incompleto
l’adeguamento delle istituzioni e dei
rapporti linguistici ai princìpi costituzionali e alle
idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali locali
si mantengono nell’ambito del sistema censitario:
in tal modo la composizione dei consigli
dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni
numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad
esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva
una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano
i 2/3 della popolazione di quel territorio).
L’evoluzione delle disposizioni in materia linguistica
e lo sviluppo delle strutture scolastiche
slovene e croate sono frenati dagli organi politici
a maggioranza italiana, che impediscono una piena
parificazione tra le lingue parlate nel Litorale,
due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in
Istria.
Nei decenni che precedettero la prima guerra
mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero legami
politici. Costituisce un’eccezione la Dieta goriziana,
nella quale si verificarono inconsuete alleanze
tra i cattolici sloveni e i liberali italiani. Tali
legami indussero in quella stessa Dieta provinciale
i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere
intese contingenti. I cattolici italiani del Goriziano
avevano il proprio punto di forza specie nella
campagna friulana, dove agiva il partito popolare
friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di
austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad associazioni
cattoliche sloveno-italiane, fallì, né suscitò
più tardi legami tra i due popoli il movimento cristiano-
sociale.
Appare dunque evidente come le ragioni dell’appartenenza
nazionale facessero premio su
quelle ideologiche. Questa tendenza è ancora più
chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è
più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica
è imperniata su una contrapposizione tra un
blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la
prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel
IV l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
sistema scolastico, e un blocco croato-sloveno,
che cerca invece di modificare l’equilibrio esistente.
In campo liberale e popolare-cattolico i due
gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Litorale
da partiti “nazionali” distinti e contrapposti.
Si instaurano invece legami più solidi nell’ambito
del movimento socialista improntato all’internazionalismo
benché nel Litorale austriaco esso si
fosse dato un’organizzazione articolata in base a
criteri nazionali. Fu proprio l’affermazione di questo
principio a contenere l’assimilazione dei lavoratori
sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti
delle due nazionalità e divergenze di vedute
spesso aspre si manifestarono anche successivamente,
verso la fine della prima guerra mondiale,
nel corso delle discussioni sull’appartenenza statale
di Trieste e sulla sua identità nazionale.
Un progetto croato, che contemplava una comune
resistenza a una asserita germanizzazione
della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare
vita a un “patto adriatico” tra le nazioni gravitanti
sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni,
attribuito agli italiani aree di influenza così estese
da danneggiare gli interessi sloveni.
Reciproca intransigenza,
scarse iniziative per la convivenza
Il mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione
italo-sloveni incide profondamente
sull’atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore,
anche di Gorizia e dell’Istria alla vigilia del
1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente
alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente
capaci di sviluppare un senso di appartenenza
comune alla terra nella quale entrambi i
gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono
l’idea di una Trieste capace di alimentare
l’attuazione dei loro programmi economici e sottolineano
il ruolo centrale per il loro sviluppo di
questa città, la cui popolazione slovena sebbene
minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana,
in ragione della diversa consistenza demografica
delle due città.
La loro espansione demografica li portava a ritenere
imminente il momento della conquista
della maggioranza della popolazione a Gorizia e
inevitabilmente, sia pure in tempi più lunghi, un
risultato analogo a Trieste.
La maggioranza della popolazione italiana si
raccoglie così intorno a una politica di intransigente
difesa nazionale, tesa a salvaguardare un’immutabile
fisionomia italiana della città. Se gli sloveni
guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivolgono
al più lontano retroterra dei territori interni
della monarchia e anche al Regno d’Italia.
In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa
anche un nazionalismo radicale ed esasperato
per quanto minoritario che è fondato sull’idea di
una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale
della città e sull’imperativo di un’espansione
economica dell’italianità nell’Adriatico.
La forza politica più rappresentativa degli italiani
di Trieste è però il partito liberale-nazionale,
nel quale sopravvive una minoranza legata all’aspirazione
mazziniana mentre la maggioranza vede
il compito immediato dell’irredentismo nella
difesa dell’identità italiana della città e delle sue
istituzioni.
In questo clima teso e infuocato vennero alla
luce anche idee di personalità del mondo della
cultura che si innestarono sul solco segnato dagli
autori della rivista “La Favilla” nella fervida atmosfera
del 1848.
Si trattò del gruppo che si raccolse intorno alla
rivista fiorentina “La Voce”, resasi promotrice di
iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché
alla conoscenza e al riconoscimento della
realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario.
A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini,
tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Gianni
Stuparich. In opposizione all’irredentismo politico
essi definiscono la loro posizione con termine di
irredentismo culturale e intendono sviluppare la
cultura italiana nel confronto e nel dialogo con
quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume
quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra
popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica
sino al 1914 è quindi molto simile a quella del socialismo
triestino. Del resto proprio nelle edizioni
de “La voce” viene pubblicato il più maturo risultato
del pensiero socialista, e cioè il volume di Vivante
sull’irredentismo adriatico. Dal versante sloveno
non si ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono
reazioni a questo libro. Gli sloveni apparivano
ancora impegnati nella ricerca di una
propria identità e incapaci di incamminarsi alla
scoperta di altre identità. Rari furono coloro i quali
riuscirono ad ergersi al di sopra delle barriere
nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giudizi
sulla questione della fondazione dell’università
a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli
sloveni pareva preferibile e più a portata di mano
una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava
la monarchia austriaca alla vigilia dello
scoppio del primo conflitto mondiale.
L’irredentismo parte integrante
della politica italiana
Con la prima guerra mondiale il programma
dell’irredentismo diventa parte integrante della
politica italiana, sia pure nella convinzione – che
durerà almeno sino alla primavera del 1918 – che
l’Austria-Ungheria, anche se profondamente ridimensionata
sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta
al conflitto. Prima ancora dell’entrata
in guerra dell’Italia, il diplomatico italiano Carlo
Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò,
per incarico del suo governo, esponenti sloveni.
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l V
Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti
ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di
Londra però il governo italiano adottò un programma
di espansione, nel quale accanto alle
motivazioni nazionali erano presenti ragioni geografiche
e strategiche. Il più diffuso lealismo sloveno
nei confronti dello stato austriaco trasse ulteriore
alimento dalle prime voci sugli aspetti imperialistici
del patto di Londra e sulle soluzioni in
esso adottate in merito al confine orientale del
Regno d’Italia nonché dall’atteggiamento delle
autorità militari italiane nelle prime zone occupate.
Un parziale revirement italiano si determinò
dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una
politica di dialogo con le nazionalità soggette
d’Austria-Ungheria, che culminò nel congresso di
Roma dell’aprile 1918 e in un’intesa con il comitato
jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo
asburgico sembra ormai contraddittorio di fronte
ai processi di disgregazione interna che scuotono
lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono
l’idea del diritto all’autodeterminazione e quella
della solidarietà jugoslava. Nella fase finale della
guerra e all’inizio del dopoguerra si palesa con
tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e
jugoslava, tendente a un confine “etnico”, che affonda
le sue radici nella concezione dell’appartenenza
della città alla campagna e che sostanzialmente
coincide con il confine italo-austriaco del
1866, e una tesi italiana, mirante a un confine
geografico e strategico, determinata dal prevalere
nella penisola delle correnti più radicali e dalla
necessità politico-psicologica di garantire una
frontiera sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente
italiane, e di offrire all’opinione
pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali,
che compensassero gli enormi sacrifici richiesti
al paese durante la guerra.
Periodo 1918-1941
La vittoria italiana e l’oppressione fascista
L’Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale,
concluse così il proprio processo di unificazione
nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli
sloveni residenti nelle città e nei centri minori a
maggioranza italiana, anche distretti interamente
sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale
austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia
Giulia italiana, come era stato elaborato negli
ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra
le diverse componenti nazionali residenti nei territori
dapprima occupati e poi annessi: gli italiani,
infatti, accolsero con entusiasmo la nuova situazione,
mentre per gli sloveni, che si erano impegnati
per l’unità nazionale e si erano già alla fine
della guerra dichiarati a favore del nascente stato
jugoslavo, l’inglobamento nello stato italiano
comportò un grave trauma. Il nuovo assetto del
confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal
patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea
displuviale tra il mar Nero e l’Adriatico, strappò dal
ceppo nazionale un quarto del popolo sloveno
(327.230 unità secondo il censimento austriaco
del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano
del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo
Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni
presenti in Italia non influì sulla situazione di
quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo
il censimento del 1921) già presenti nel
territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai
quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto
nazionale.
L’amministrazione italiana, dapprima militare
e poi civile, mostrò una notevole impreparazione
ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici
dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti
insediamenti – in ampie zone maggioritari
– di popolazioni non italiane che aspiravano all’unione
con la propria “madrepatria” (nel caso
degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il
Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che
avevano compiuto per lo più la loro acculturazione
politica nell’ambito dello stato plurinazionale
asburgico. Tale impreparazione, unita al retaggio
della guerra appena conclusa – in cui gli slavi erano
stati considerati come nemici, strumenti privilegiati
dell’oppressione austriaca – provocò da
parte delle autorità italiane comportamenti fortemente
contraddittori. Da un lato, nel periodo
1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non
era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate
pure dagli elementi nazionalisti locali,
usarono volentieri la mano pesante nei confronti
degli sloveni che intendevano manifestare la propria
volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono
così assunti numerosi provvedimenti restrittivi –
sospensione di amministrazioni locali, scioglimento
di consigli nazionali, limitazioni della libertà
di associazione, condanne dei tribunali militari,
detenzione di militari ex austriaci, internamento
ed espulsione, specie di intellettuali – che penalizzarono
la ripresa della vita culturale e politica
della componente slovena. Al tempo stesso le autorità
di occupazione favorirono le manifestazioni
di italianità anche per fornire alle trattative per la
definizione del nuovo confine un quadro politicamente
italiano delle regioni. D’altra parte, i governi
liberali italiani, pur all’interno di un disegno generale
di nazionalizzazione dei territori annessi,
furono generosi di promesse nei confronti della
minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle
sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell’istruzione
scolastica in lingua slovena e la ripresa
di attività delle organizzazioni indispensabili per
lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche
il progetto – sostenuto da esponenti politici giu-
VI l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
liani e trentini, e che i governi prefascisti presero
in seria considerazione – di conservare ai territori
annessi forme di autonomia non lontane da quelle
già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito
un migliore rapporto fra le componenti minoritarie
e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò
voti in favore di una politica di tutela della minoranza
slava.
L’irremovibilità delle delegazioni italiana e jugoslava
alla conferenza di Parigi sul problema della
definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione
politica dei territori sottoposti al regime di
occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi
del mito della “vittoria mutilata” e l’impresa
dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente
l’area abitata da sloveni, accesero ulteriormente
gli animi e costituirono il terreno ideale
per l’affermarsi precoce del “fascismo di frontiera”,
che si erse a tutore degli interessi italiani sul
confine orientale e coagulò gran parte delle locali
forze nazionaliste italiane attorno all’asse dell’antislavismo
combinato con l’antibolscevismo. Il
movimento socialista vedeva infatti una larga adesione
degli sloveni – fiduciosi nei suoi princìpi di
giustizia sociale e di eguaglianza nazionale – che
contribuirono a far prevalere al suo interno le
componenti rivoluzionarie: anche da ciò in seguito
derivò la coniazione da parte fascista del neologismo
“slavocomunista” che alimentò ulteriormente
l’estremismo nazionalista. Nel luglio del
1920, l’incendio del Narodni Dom, la sede delle
organizzazioni slovene di Trieste – che trasse pretesto
dagli incidenti verificatisi a Spalato e che
provocarono vittime sia italiane sia jugoslave –
non fu così che il primo, clamoroso atto di una
lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come
altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì
infatti campo libero all’aggressività fascista, che si
giovò di aperte collusioni con l’apparato dello stato,
qui ancor più forti che altrove, come conseguenza
della diffusa ostilità antislava. Le “nuove
province” d’Italia nascevano così con pesanti contraddizioni
tra principio di nazionalità, ragion di
stato e politica di potenza, che minavano alla base
la possibilità della civile convivenza tra gruppi
nazionali diversi.
Un quarto del popolo sloveno
entro i confini italiani
Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre
del 1920 tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi,
Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane
e amputò un quarto abbondante dell’area
considerata dagli sloveni come proprio “territorio
etnico”. Tale esito era dovuto alla favorevole posizione
negoziale dell’Italia che usciva dalla grande
Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status
di “grande potenza”. Il trattato, che non vincolò
l’Italia al rispetto delle minoranze slovena e
croata, garantiva invece la tutela della minoranza
italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un
trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa
regione al Regno d’Italia. Clausole riguardanti
la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non
vennero incluse nemmeno nei successivi trattati
del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte
jugoslava buoni rapporti con la potente vicina.
Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi,
il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre
le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione
fra i due stati. Così invece non fu e ben
presto la politica estera del fascismo si incamminò
lungo la via dell’egemonia adriatica e del revisionismo,
assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi;
tale orientamento fu sostenuto anche da
gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a
espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e
trovò non pochi consensi nella popolazione italiana
della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti
di distruzione della compagine jugoslava, solo
momentaneamente accantonati con gli accordi
Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per
breve tempo preludere all’ingresso della Jugoslavia
nell’orbita italiana. Lo scoppio della guerra
mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un
preciso disegno di aggressione.
Nonostante la difficile situazione esistente nella
Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni
e croati – tra cui i loro rappresentanti al parlamento
– fu improntata al lealismo nei confronti
dello stato italiano, anche dopo l’avvento del fascismo;
tra l’altro, essi non aderirono all’opposizione
legale quando nel 1924 essa si ritirò sull’Aventino
in segno di protesta contro il delitto Matteotti.
Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare
per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei
croati, condotta in comune con i deputati della
minoranza tedesca dell’Alto Adige, non diede alcun
risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a
fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione
di tutte le minoranze nazionali. Così nella
Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate
tutte le istituzioni nazionali slovene e croate
rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le
scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in
gran parte pensionati, trasferiti all’interno del regno,
licenziati o costretti a emigrare, posti limiti
all’accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse
centinaia di associazioni culturali, sportive,
giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative
economiche e istituzioni finanziarie, case popolari,
biblioteche ecc. Partiti politici e stampa periodica
vennero posti fuori legge, eliminata fu la
possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze
nazionali, proibito l’uso pubblico della lingua.
Le minoranze slovena e croata cessarono così
di esistere come forza politica e i loro rappresentanti
fuoriusciti continuarono ad operare tra-
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l VII
mite il Congresso delle nazionalità europee, sotto
la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all’impostazione
di una politica generale per la soluzione
delle problematiche minoritarie.
La politica di snazionalizzazione del fascismo
L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò
però anche oltre la persecuzione politica, nell’intento
di arrivare alla “bonifica etnica” della Venezia
Giulia. Così, l’italianizzazione dei toponimi sloveni
o l’uso esclusivo della loro forma italiana, dei
cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla
promozione dell’emigrazione, all’impiego di elementi
sloveni all’interno del paese e nelle colonie,
all’avvio di progetti di colonizzazione agricola interna
da parte di elementi italiani, ai provvedimenti
economici mirati a semplificare drasticamente
la struttura della società slovena, eliminandone
gli strati superiori in modo da renderla conforme
allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo,
ritenuto facilmente assimilabile dalla “superiore”
civiltà italiana. A tali disegni di più ampio
respiro si accompagnò una politica repressiva assai
brutale. Vero è che nella medesima epoca la
maggior parte degli stati europei mostrava scarso
rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti
sul loro territorio, quando addirittura non
cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie
che la politica di “bonifica etnica” avviata dal
fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche
perché l’intolleranza nazionale, talora venata
di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle
misure totalitarie del regime.
L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse
anche contro la Chiesa cattolica, dal momento
che fra gli sloveni – dispersi e in esilio quadri dirigenti
e intellettuali – fu il clero ad assumere il
ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale,
in continuità con la funzione già svolta in
epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono
direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni
e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni
vennero condotte anche verso la gerarchia
ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l’alto clero
si era nei decenni precedenti guadagnato da parte
dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo
e filo-slavismo. Tappe fondamentali
dell’addomesticamento della Chiesa di confine –
il cui esito va inserito nell’ambito dei nuovi rapporti
fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo – furono
la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia Francesco
Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi
Fogar. I loro successori applicarono le direttive
“romanizzatrici” del Vaticano, in conformità a
quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane
ove esistevano comunità “alloglotte”, come pure
nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza
di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano
ad offrire il minimo di occasioni di ingerenza in
materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e
a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei
princìpi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati
dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti
comportavano in via di principio l’abolizione
dell’uso della lingua slovena nella liturgia e
nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma
clandestina soprattutto in ambito rurale, a
opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano
sociale. Tale situazione provocò gravi tensioni
tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i
nuovi vescovi dall’altro, e le difficoltà furono acuite
dal diverso modo d’intendere il ruolo del clero,
cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria
nella difesa dell’identità nazionale, che appariva
invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una
deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si
formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica
stesse di fatto collaborando con il regime
a un’opera di italianizzazione che investiva
ogni campo della vita sociale.
Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi
un periodo di crisi economica, solo tardivamente
interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà
generali segnate dalle economie europee
fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti
negativi della ristrutturazione e frantumazione
dell’area danubiano-balcanica, vitale per le fortune
economiche delle terre giuliane. I provvedimenti
compensativi assunti dallo stato italiano
non riuscirono a invertire la tendenza negativa del
periodo, dal momento che le sue cause profonde
– vale a dire la rottura dei legami con i retroterra
– sfuggivano alla capacità di intervento sia delle
forze locali sia della stessa Italia. Ciò dimostrò
l’assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai
nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste
e della Venezia Giulia la base per la penetrazione
italiana nell’Europa centro-orientale e balcanica,
ma procurò anche blocco delle prospettiva
di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di
vita specie negli strati inferiori della società, nei
quali più numerosi erano gli sloveni. Difficoltà
economiche e pesantezza del clima politico favorirono
fra le due guerre un robusto flusso migratorio
della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono
di quantificare con precisione l’apporto sloveno
a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi
italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell’ordine
presumibile delle decine di migliaia di unità.
Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente
105.000 sloveni e croati; e se nei casi di
emigrazione transoceanica è più difficile tracciare
un confine fra motivazioni economiche e politiche,
nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero
soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento
diretto con le persecuzioni politiche del
fascismo è ben evidente.
VIII l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
Un programma di distruzione
dell’identità nazionale slovena e croata
Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare
nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma
di distruzione integrale dell’identità nazionale
slovena e croata. I risultati ottenuti furono
però alquanto modesti, non per mancanza di volontà,
ma per quella carenza di risorse che, in
questo come in altri campi rendeva velleitarie le
aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice
riuscì infatti a decimare la popolazione
slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente
gli intellettuali e i ceti borghesi e a proletarizzare
la popolazione rurale, che però, no –
nostante tutto, rimase compattamente insediata
sulla propria terra. Il risultato più duraturo raggiunto
dalla politica fascista fu però quello di consolidare,
agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra
Italia e fascismo e di condurre la maggior parte
degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che
aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò
che appariva italiano. Analogo atteggiamento di
ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia
anche se, alla metà degli anni Trenta, l’ideologia
corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti
politici cattolici. Un certo interesse per la letteratura
italiana venne manifestato da parte slovena
specialmente sul piano della traduzione e della
promozione di opere di autori italiani, mentre assai
limitata fu l’attenzione degli italiani verso la
letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative,
specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente,
a livello di rapporti personali e di vicinato,
come pure in campo culturale e artistico,
continuarono a sussistere ambiti in cui la convivenza
e la collaborazione erano normali, e ciò
avrebbe mantenuto preziosi germi che l’antifascismo
e l’aspirazione alla democrazia avrebbero
sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due
gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani
si svilupparono varie forme di resistenza contro
l’oppressione fascista. In particolare la gioventù
slovena di orientamento nazionalista, raccolta
nell’organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi
jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli
britannici, decise di reagire alla violenza con la
violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di
terrorismo che provocarono repressioni durissime.
Di fronte alla durezza della repressione fascista,
le organizzazioni clandestine slovene assieme
a quelle dei fuoriusciti in Jugoslavia decisero, verso
la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni
di autonomia culturale nell’ambito
dello stato italiano per porsi invece come obiettivo
il distacco dall’Italia dei territori considerati etnicamente
sloveni e croati. Come risposta a tale
attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa
dello stato comminò molte condanne a pene
detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali
eseguite.
Il PCI e il movimento degli sloveni e dei croati
Da parte sua, il partito comunista d’Italia maturò
lentamente il riconoscimento come alleato
del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato
un fenomeno borghese: la svolta si ebbe
solo negli anni Trenta, sotto l’influenza dell’Internazionale,
che per dare impulso alla lotta contro
nazismo e fascismo prevedeva il collegamento
con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione
dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd’I riconobbe
agli sloveni e ai croati residenti entro i
confini d’Italia il diritto all’autodeterminazione e
alla separazione dallo stato italiano, fermo restando
che il criterio dell’autodecisione doveva valere
anche per gli italiani. Nel 1934 poi il PCd’I sottoscrisse
assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia
e dell’Austria un’apposita dichiarazione sulla
soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi
altresì in favore dell’unificazione del
popolo sloveno entro uno stato proprio.
L’interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe
risultata particolarmente controversa durante
la seconda guerra mondiale, quando il movimento
di liberazione sloveno si trovò nella condizione
di attuare nella prassi il proprio programma
irredentista. A ogni modo, il patto d’azione stipulato
nel 1936 tra il PCd’I e il movimento rivoluzionario
nazionale degli sloveni e dei croati avviò
la formazione di un ampio fronte antifascista,
mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza
dell’antifascismo italiano d’impronta liberale
e risorgimentale. Va comunque ricordata la
collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni
Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino
e le forze antifasciste democratiche italiane
in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia
e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si
impegnò ad alimentare l’attività antifascista in tutta
l’Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai
croati venne riconosciuto il diritto all’autonomia e,
in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione
si interruppe quando tra gli sloveni prevalse
la linea secessionistica.
Periodo 1941-1945
Slovenia invasa e smembrata:
la provincia “italiana” di Lubiana
Dopo l’attacco tedesco contro l’URSS la guerra
in Europa, specie in quella orientale, divenne totale
e diretta alla completa eliminazione degli avversari.
Il diritto internazionale ed anche le più
elementari norme etiche vennero in quegli anni
violate dai contendenti con impressionante frequenza
ed anche le terre a nord dell’Adriatico
vennero coinvolte in questa spirale di violenza.
La seconda guerra mondiale scatenata dalle
forze dell’Asse introdusse nei rapporti sloveno-ita-
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l IX
liani dimensioni nuove che condizionarono il futuro
di tali rapporti. Se infatti per un verso l’attacco
contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva
occupazione del territorio sloveno acuirono al
massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme
il tempo di guerra vide una serie di svolte
drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni.
L’occupazione del 1941 rappresentò così per lo
Stato italiano il culmine della sua politica di potenza,
mentre gli sloveni toccarono con l’occupazione
e lo smembramento il fondo di un precipizio;
la fine della guerra rappresentò, per converso,
per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la
maggior parte della popolazione della Venezia
Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del
naufragio nazionale.
La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò
allo smembramento non solo della compagine
statale jugoslava, ma anche della Slovenia
in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra
Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di
fronte alla prospettiva dell’annientamento della
loro esistenza come nazione di un milione e mezzo
di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro
gli invasori.
L’aggressione dell’Italia contro la Jugoslavia
segnò il culmine della politica ventennale imperialista
del fascismo, rivolta anche verso i Balcani
ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto
di guerra che non ammette l’annessione di territori
occupati nel corso di azioni belliche prima
della stipula di un trattato di pace, la Provincia di
Lubiana fu annessa al Regno d’Italia. Alla popolazione
della Provincia di Lubiana, di circa 350.000
abitanti, era stato garantito uno statuto di autonomia
etnica e culturale; tuttavia le autorità di occupazione
italiane manifestarono il fermo proposito
di integrare quanto prima la regione nel sistema
fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le
organizzazioni a quelle omologhe italiane. L’attrazione
politica, culturale ed economica dell’Italia
avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fascistizzazione
ed all’italianizzazione della popolazione
locale. Sulle prime l’aggressione fascista aveva
previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad
un’asserita superiorità della civiltà italiana, perciò
il regime d’occupazione inizialmente instaurato
dalle autorità italiane fu piuttosto moderato.
Resistenza – Repressione – Deportazioni
A fronte di quello nazista, esso appare perciò
agli occhi degli sloveni un male minore, ed ottenne
per questo alcune forme di collaborazione, anche
se le stesse forze politiche che vi accondiscesero
non lo fecero necessariamente in virtù di
orientamenti filofascisti; gran parte degli sloveni
confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza,
nella vittoria delle armi alleate e vedeva
il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione
delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici
sloveni si manifestarono però due diverse vedute
di fondo sulla strategia da seguire. La prima, propugnata
dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva
la necessità di avviare immediatamente la resistenza
contro l’occupatore: vennero perciò formate
le prime unità partigiane che condussero azioni
militari contro le forze occupatrici, mentre ai
piani italiani di avvicinamento culturale il movimento
di liberazione rispose con il “silenzio culturale”.
Aderirono al Fronte di Liberazione appartenenti
a tutti i ceti della popolazione senza distinzione
di credo politico ed ideale. L’altra opzione,
maturata in seno agli esponenti delle forze liberal-
conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di
prepararsi clandestinamente e gradualmente alla
liberazione ed alla resa dei conti con l’occupatore
alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte
di Liberazione che lo schieramento opposto, facente
capo al governo monarchico jugoslavo in
esilio a Londra, convergevano sull’obiettivo della
Slovenia unita, comprendente tutti i territori considerati
sloveni nel quadro di una Jugoslavia federativa.
Al crescente successo delle azioni partigiane
ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la
popolazione e gli occupatori, Mussolini rispose
trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle
militari, che adottarono drastiche misure repressive.
Il regime d’occupazione fece leva sulla violenza
che si manifestò con ogni genere di proibizioni,
con le misure di confino, con le deportazioni e
l’internamento nei numerosi campi istituiti in Italia
(fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars
e Renicci), con i processi dinanzi alle corti
militari, con il sequestro e la distruzione dei beni,
con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono i
morti, fra caduti in combattimento, condannati a
morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono
approssimativamente 30 mila, per lo più civili,
donne e bambini, e molti morirono di stenti.
Furono concepiti pure disegni di deportazione di
massa degli sloveni residenti nella provincia. La
violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’offensiva
italiana del 1942, durata quattro mesi, che
si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su
tutta la Provincia di Lubiana.
Improntando la propria politica al motto “divide
et impera”, le autorità italiane sostennero le
forze politiche slovene anticomuniste, specie d’ispirazione
cattolica, le quali, paventando la rivoluzione
comunista, avevano in quel modo individuato
nel movimento partigiano il pericolo maggiore,
e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione.
Esse avevano così creato delle formazioni
di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone,
organizzarono nella Milizia volontaria
anticomunista, impiegandole con successo nella
lotta antipartigiana.
X l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
La lotta partigiana si estende al Litorale
La lotta di liberazione si estese ben presto dalla
Provincia di Lubiana alla popolazione slovena
del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo
entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la
questione dell’appartenenza statale di buona parte
di questo territorio e rese manifesti non solo
l’assoluta inefficacia della politica del regime fascista
nei confronti degli sloveni, bensì pure il fallimento
generale della politica italiana sul confine
orientale. Contro la popolazione slovena erano
stati adottati provvedimenti di carattere preventivo
sin dall’inizio della guerra: l’internamento ed il
confino dei personaggi di punta, l’assegnazione
dei coscritti ai battaglioni speciali, l’evacuazione
della popolazione lungo il confine, le condanne
alla pena capitale nel quadro del secondo processo
del Tribunale speciale svoltosi a Trieste. Fra gli
sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione
capeggiata dal partito comunista trovò un terreno
particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie
le loro tradizionali istanze nazionali tese all’annessione
alla Jugoslavia di tutti i territori abitati da
sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una
maggioranza italiana. Il PCS si era così assicurato
l’assoluta egemonia sul movimento di massa e
grazie alla lotta armata anche l’opportunità di attuare
sia la liberazione nazionale che la rivoluzione
sociale. Nell’opera di repressione del movimento
di liberazione le autorità italiane ricorsero
ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia
di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e
la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente
creati l’Ispettorato speciale per la pubblica
sicurezza e due nuovi corpi d’armata dell’esercito
italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto
anche sul territorio dello stato italiano.
L’armistizio del settembre 1943
e l’occupazione tedesca
Nei giorni successivi all’8 settembre 1943 le
forze armate ed elementi dell’amministrazione civile
italiana poterono lasciare i territori sloveni
senza contrasto e giovandosi anche dell’aiuto della
popolazione locale. Le conseguenze dell’armistizio
comunque rappresentarono una svolta chiave
nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione
prevalente da essi assunta sino ad allora, che vedeva
gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante
e gli sloveni-occupati ovvero popolo oppresso,
si fece più complessa. Sotto il profilo psicologico
ed anche in termini reali la bilancia s’inclinò
a favore degli sloveni. L’adesione della popolazione
slovena della Venezia Giulia al movimento
partigiano, le azioni delle formazioni militari
e degli organismi di potere resero testimonianza
della volontà di tale popolazione che questo
territorio appartenesse alla Slovenia unita. Tale
determinazione fu sancita nell’autunno del
1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente
fatta propria anche a livello jugoslavo.
Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero
così in veste di attore politico; ne tennero
conto entro un certo limite anche le autorità tedesche
che, prendendo atto dell’assetto etnico e
reale del territorio, cercarono di interporsi strumentalmente
come mediatrici fra italiani e slavi.
I tedeschi comunque, per mantenere il controllo
del territorio, fecero ricorso all’esercizio
estremo della violenza, per la quale si servirono
pure della collaborazione subordinata di formazioni
militari e di polizia italiane, ma anche slovene.
Essi inoltre utilizzarono gli apparati amministrativi
italiani ancora esistenti nei centri maggiori
della regione, nonché strutture di collaborazione
istituite appositamente e, nella logica del “divide
et impera”, sempre strumentalmente accolsero alcune
richieste slovene nel campo dell’istruzione e
dell’uso della lingua, concedendo pure ad elementi
sloveni limitate responsabilità amministrative.
La condivisione degli obiettivi anticomunisti
ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste
non poté però superare le reciproche diffidenze
d’ordine nazionale, e ciò portò anche a
scontri armati. Più ampi furono i movimenti di opposizione
all’occupazione germanica tanto che i
nazisti sentirono il bisogno di adibire all’eliminazione
su larga scala degli antifascisti, in primo luogo
sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura
specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche
come centro di raccolta per gli ebrei da deportare
nei campi di sterminio. Particolarmente
vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione
da parte della popolazione slovena, mentre
quella italiana fu frenata dal timore che il movimento
partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni,
le rivendicazioni nazionali dei quali non erano
accettate dalla maggioranza della popolazione
italiana. Influì anche negativamente l’eco degli eccidi
di italiani dell’autunno del 1943 (le cosiddette
“foibe istriane”) nei territori istriani ove era attivo
il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati
non solo per motivi etnici e sociali, ma anche
per colpire in primo luogo la locale classe dirigente,
e che spinsero gran parte degli italiani
della regione a temere per la loro sopravvivenza
nazionale e per la loro stessa incolumità.
Collaborazione antifascista –
Distinzioni e divergenze
Nel corso della seconda guerra mondiale i
rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della
loro conflittualità; tuttavia vennero contestualmente
sviluppandosi anche forme di collaborazione
su basi antifasciste, in prosecuzione di una
pluridecennale unità maturata nel movimento
operaio. Tale collaborazione assurse al massimo
rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra le
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l XI
formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati
di unità operaia e, fin ad un certo momento,
anche fra l’OF e il CLN. Sotto il profilo generale,
la collaborazione fra i movimenti di liberazione
sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi.
Nonostante le nuove forme di collaborazione
fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si
distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione,
consistenza ed influenza e non superarono
le diversità di obiettivi e di tradizioni politiche.
Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti
comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i
vertici dell’OF, nonostante avessero stipulato alcuni
importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza
si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto
che internazionale, dal momento che entrambi
i movimenti di liberazione, pur rifacendosi
ai valori dell’internazionalismo, risultarono fortemente
condizionati dell’esigenza di difendere i rispettivi
interessi nazionali. Il movimento di liberazione
sloveno reputò di importanza centrale l’annessione
alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi
fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non
ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale,
bensì – dato il carattere del movimento –
anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzionari
che si era preposto. Il possesso di Trieste infatti
era considerato di grande importanza, non
solo per la sua posizione geo-economica rispetto
alla Slovenia, ma anche per la presenza di una
forte classe operaia, nonché come base sia per la
difesa del mondo comunista dall’influenza occidentale,
sia per un’ulteriore espansione del comunismo
verso ovest, ed in particolare verso l’Italia
del nord.
Il PCI, a livello sia locale che nazionale, fino all’estate
del 1944 non accettò l’idea dell’annessione
alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a
prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione
del problema al dopoguerra. Più tardi invece,
in una mutata situazione strategica e dopo
che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni
garibaldine che della federazione triestina
del PCI, i comunisti giuliani aderirono all’impostazione
dell’OF, mentre in campo nazionale la linea
del PCI si fece più oscillante: le rivendicazioni
jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte
ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una distinzione
tattica fra annessione di Trieste alla Jugoslavia
– di cui non bisogna parlare – ed occupazione
del territorio giuliano da parte jugoslava,
che andava invece favorita dai comunisti italiani.
Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle
rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno sugli
sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia,
influì anche l’atteggiamento assunto da buona
parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone,
che aveva accolto la soluzione jugoslava in
chiave internazionalista come integrazione entro
uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva
l’Unione Sovietica. Tale scelta provocò pesanti
conseguenze all’interno della resistenza italiana,
portando tra l’altro all’eccidio delle malghe di Porzûs,
perpetrato da una formazione partigiana comunista
nei confronti di partigiani osovani.
Diversa era la posizione del CLN giuliano (dal
quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a
differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava
i sentimenti della popolazione italiana
di orientamento antifascista che desiderava il
mantenimento della sovranità italiana sulla regione.
Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli angloamericani
come rappresentante della maggioranza
della popolazione italiana, anche al fine di ottenere
l’appoggio per la definizione dei confini. Il
CLN e l’OF esprimevano orientamenti in materia
di confini opposti e incompatibili, perciò quando
il problema della futura frontiera venne posto in
primo piano, una loro collaborazione strategica
divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime
possibilità di accordo in vista dell’insurrezione finale
svanirono di fronte all’impossibilità di raggiungere
un’intesa su chi avrebbe avuto il controllo
politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi.
Fu così che al termine della guerra ciascuna componente
della Venezia Giulia attese i propri liberatori,
la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo
operante in Slovenia o l’Ottava armata britannica,
e scorse in quelli dell’altra l’invasore.
Liberazione, occupazione jugoslava,
“foibe” e deportazioni
Alla fine di aprile CLN e Unità operaia organizzarono
a Trieste due insurrezioni parallele e concorrenziali,
ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi
dalla Venezia Giulia avvenne principalmente
per opera delle grandi unità militari jugoslave e in
parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre
le loro aree operative in maniera non concordata:
il problema della transizione fra guerra e dopoguerra
divenne così una questione che travalicava
i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia
Giulia, come pure le relazioni fra l’Italia e la Jugoslavia,
per diventare un nodo, seppur minore,
della politica europea del tempo.
L’estensione del controllo jugoslavo alle aree
già precedentemente liberate dal movimento partigiano
fino a tutto il territorio della Venezia Giulia
fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza
degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla
Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice
liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato
italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all’Italia
considerarono l’occupazione jugoslava come il
momento più buio della loro storia, anche perché
essa si accompagnò ad un’ondata di violenza che
trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di
XII l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata
– in larga maggioranza italiani, ma anche
sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo
–, in centinaia di esecuzioni sommarie
immediate – le cui vittime vennero in genere gettate
nelle “foibe” – e nella deportazione di un
gran numero di militari e civili, parte dei quali perì
di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti,
nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i
quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse
zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di
resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e
appaiono in larga misura il frutto di un progetto
politico preordinato, in cui confluivano diverse
spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture
ricollegabili (anche al di là delle responsabilità
personali) al fascismo, alla dominazione nazista,
al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme
ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori
reali, potenziali o presunti tali, in funzione
dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione
della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo.
L’impulso primo della repressione partì da un
movimento rivoluzionario che si stava trasformando
in regime, convertendo quindi in violenza di
Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa
nei quadri partigiani.
Periodo 1945-1956
La divisione della Venezia Giulia
nella logica della guerra fredda
L’area della Venezia Giulia e delle Valli del Natisone
(Slavia Veneta) che vede l’incontrarsi dei
popoli italiano e sloveno, era stata in passato già
frammentata, mai però nella misura in cui lo fu
nel primo decennio del dopoguerra. Dal maggio
1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due
amministrazioni militari anglo-americane (con sede
a Trieste e Udine) e il governo militare jugoslavo.
La Venezia Giulia venne divisa in due zone di
occupazione: la Zona A amministrata da un governo
militare alleato (Gma) e la Zona B amministrata
da un governo militare jugoslavo (Vuja),
mentre le Valli del Natisone ricadevano sotto la
giurisdizione del Gma con sede a Udine.
Dopo il 1945 la situazione internazionale procedette
rapidamente verso la contrapposizione
globale fra Est e Ovest e, anche se nei rapporti diplomatici
fra le grandi potenze la nuova logica si
affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra
civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici
delle popolazioni viventi al confine tra Italia e
Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i
rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì
che la controversia di frontiera italo-jugoslava si
concentrasse sul margine orientale dei territori in
discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento
degli equilibri di potenza fra i due Stati
spostò il dibattito sui bordi occidentali della regione:
il nuovo confine premiò così il contributo
della Jugoslavia, aggredita dall’Italia, alla vittoria
alleata e realizzò buona parte delle aspettative
che avevano animato la lotta degli sloveni e dei
croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per
l’emancipazione nazionale. Il tentativo di far coincidere
limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia
impossibile, non solo per il prevalere delle politiche
di potenza, ma per le caratteristiche stesse
del popolamento nella regione Giulia e per il diverso
modo d’intendere l’appartenenza nazionale
dei residenti nell’area: ancora una volta quindi,
com’era già avvenuto dopo il 1918 e com’è del resto
tipico dell’età dei nazionalismi, il coronamento
(seppur nel caso degli sloveni non integrale)
delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse
di fatto nella penalizzazione di quelle dell’altro.
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Pace –
che istituiva quale soluzione di compromesso il
Territorio Libero di Trieste (TLT) – le relazioni italojugoslave
vennero assorbite nella logica della
guerra fredda. Il momento culminante di tale fase
si ebbe nel 1948, quando l’imminenza delle elezioni
politiche italiane indusse i governi occidentali
ad emanare la Nota Tripartita del 20 marzo in
favore della restituzione all’Italia dell’intero TLT.
Dissidio URSS-Jugoslavia –
Superamento del TLT
A seguito del dissidio con l’URSS del 1948 la
Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari
e le potenze occidentali si mostrarono disposte a
ripagarne la neutralità con concessioni economiche
e politiche, pur rimanendo essa retta da un
regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle
potenze atlantiche, vista l’inconcludenza dei negoziati
bilaterali sulla sorte del TLT, superata la crisi
originata dalla Nota Bipartita dell’8 ottobre
1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula
del Memorandum di Londra.
L’assetto imposto dal Trattato di Pace e successivamente
completato dal Memorandum riuscì
complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia,
che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati
ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese
e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero
di Trieste, che pur vedevano la presenza di sloveni.
Le Valli del Natisone, la Val Canale e la Val di
Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non
costituirono oggetto di trattative.
Diversa fu la percezione di tale esito da parte
delle popolazioni interessate. Mentre la maggior
parte dell’opinione pubblica italiana salutò con
entusiasmo il ritorno all’Italia di Trieste, che era divenuta
il simbolo della lunga contesa diplomatica
per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani
della Venezia Giulia vissero la perdita dell’Istria
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l XIII
come un evento traumatico, che sedimentò nella
memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione
per il recupero delle vaste aree rurali del
Carso e dell’alto Isonzo, si accompagnò alla delusione
per il mancato accoglimento delle storiche
rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste,
in parte compensato dall’annessione della fascia
costiera del Capodistriano – che vedeva una consistente
presenza italiana – che fornì alla Slovenia
lo sbocco al mare.
A conclusione della vertenza, mentre tutta la
popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò
nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione
jugoslava, rimasero comunità slovene
in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udine,
e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all’atto
della stipula del Memorandum d’Intesa queste
ultime erano già state falcidiate dall’esodo dai
territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato
di Pace.
Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata
l’amministrazione italiana, il ritorno alla normalità
fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti
nazionalistici, anche come conseguenza dei
rancori suscitati dall’occupazione jugoslava del
1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine
statuale italiana fu accompagnato da numerosi
episodi di violenza contro gli sloveni e contro
le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità
italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli
sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individuali,
non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità
slovena, e in alcuni casi promossero, anzi,
tentativi di assimilazione strisciante. La divisione
della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano,
perché l’entroterra montano del bacino
dell’Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianura,
e in particolare la popolazione slovena, che rimase
separata dai propri connazionali. Ciò rese
necessaria la costruzione da parte slovena di Nova
Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei
decenni seguenti venne allacciando, anche se con
molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto
in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si
delineò appena sul finire degli anni Cinquanta.
Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni
abitanti nelle Valli del Natisone e del Resiano e
nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti
come minoranza nazionale e rimasero quindi privi
dell’insegnamento nella madre lingua e del diritto
di usarla nei rapporti con le autorità. In tali
zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi anni
di guerra, di forme di coscienza nazionale slovena,
ma la comparsa di orientamenti politici filojugoslavi
presso popolazioni che avevano sempre
manifestato lealismo verso lo Stato italiano, venne
prevalentemente giudicata da parte italiana,
complice anche il clima della guerra fredda, frutto
non di un’evoluzione autonoma ma di agitazione
politica proveniente da oltre confine. I loro assertori
furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti,
e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di gruppi
estremisti e formazioni paramilitari. Anche il
clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità
civili sia con quelle religiose diocesane nell’affermare
il proprio ruolo di riferimento per l’identità
degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall’esercizio
dei suoi compiti pastorali in lingua slovena.
Vi è certo stato in tali zone un persistente ritardo
da parte italiana nell’attuazione di una politica
di tutela corrispondente allo spirito della Costituzione
democratica. Su tale ritardo vennero a
pesare l’inasprirsi della situazione internazionale
e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da
ciò derivarono pure ritardi nell’istituzione della regione
Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia
avrebbe comunque consentito, secondo il disegno
della Costituente, una maggiore attenzione
alle regioni minoritarie.
Il difficile approdo alla normalità democratica
Nelle Zone A e B della Venezia Giulia e dal
1947 del TLT, entrambi i governi militari operarono
come amministrazioni provvisorie, tuttavia differivano
fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre
infatti il Gma costituiva soltanto un’autorità di occupazione,
la Vuja rappresentava al tempo stesso
anche lo Stato che rivendicava a sé l’area in questione,
e ciò ne condizionò l’opera. Gli angloamericani
introdussero nella Zona A ordinamenti ispirati
ai princìpi liberal-democratici, e, pur mantenendo
sempre il completo controllo militare e politico
nella Zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere
nell’amministrazione civile tutte le correnti
politiche. Poi però, per il diniego della componente
filo-jugoslava e anche in virtù del peso crescente
della guerra fredda – che fino al 1948 trovò
nell’area giuliana uno dei suoi luoghi di frizione
– si servirono soltanto della collaborazione
delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma
adottò comunque provvedimenti volti ad assicurare
alla popolazione slovena i suoi diritti nell’uso
pubblico della lingua nazionale ed in campo scolastico,
cercando però nel contempo di ostacolare
i rapporti della comunità slovena con la Slovenia.
Inoltre, l’attivazione – sia pure tardiva – degli istituti
di autogoverno locale, permise agli sloveni
con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere
i propri rappresentanti dopo più di due decenni
di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni
fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli
sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in
particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i
quali assunsero importanti funzioni in campo culturale
e politico.
Fino al 1954 la priorità attribuita alla questione
dell’appartenenza statuale della zona, sommandosi
alle tensioni della guerra fredda, deter-
XIV l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008
minò una polarizzazione della lotta politica che
rese più difficile l’avvio della nuova vita democratica.
Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e
quello filo-jugoslavo non era né esclusivamente
nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il
risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al
1947 all’interno dei due blocchi le distinzioni politiche
si attenuarono e trovarono ampio spazio le
pulsioni nazionalistiche. Più tardi le articolazioni
divennero più marcate e, anche se il peso dello
scontro nazionale rimase assai forte, le componenti
democratiche filo-italiane, che assunsero la
guida politica della zona, badarono in genere a distinguere
la loro azione da quella delle forze di
estrema destra. In modo analogo si manifestarono
pubblicamente anche le distinzioni ideologiche,
prima offuscate, fra gli sloveni, i quali formarono
gruppi e partiti ostili alle nuove autorità jugoslave.
Presero corpo anche tendenze indipendentiste,
che videro una certa convergenza di elementi
italiani e sloveni attorno all’idea dell’entrata
in vigore dello statuto definitivo del TLT.
Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva
sullo stesso territorio e che non furono mai
interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform
una stretta collaborazione fra gli sloveni e
numerosi italiani della regione, legata soprattutto
all’appartenenza di classe e cementata dalla comune
esperienza della lotta partigiana, che in determinati
ambienti era valsa a infrangere alcuni
miti, come quello della naturale avversione fra le
due etnie. La scelta in favore dell’annessione alla
Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edificando
il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza
del proletariato locale di lingua italiana,
soprattutto nella Zona A, fece sì che fino alla frattura
tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo
si mantenesse la solidarietà fra comunisti italiani
e sloveni, nonostante le crescenti divergenze
sul modo d’intendere l’internazionalismo e sulla
concezione del partito, oltre che su questioni
chiave come quella dell’appartenenza statale della
Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione
fra il PCI e il PCJ (PCS), consolidata dalla lotta comune
contro l’invasore e il fascismo, nonostante
la diversità di posizioni su alcune questioni. Le
tensioni esplosero all’atto della risoluzione del
Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei comunisti
italiani, sicché si ebbe per parecchio tempo
non solo l’interruzione di ogni contatto ma anche
una vera e propria ostilità tra “cominformisti”
e “titini”. A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi
comunisti italiani, sia fra quelli residenti in Istria
che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad “edificare il
socialismo”, subirono il carcere, la deportazione e
l’esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, essendosi
schierata a favore dell’Unione Sovietica e
contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli
sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora
per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre
gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici,
i “cominformisti” ed i “titini”.
L’esodo dall’Istria
Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si
estendesse su una vasta area compresa fra il confine
di Rapallo e la linea Morgan, l’area amministrata
dalle autorità slovene registrava una vasta
presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre
la popolazione dell’entroterra era in larga prevalenza
slovena. Nel 1947 tale area costiera concorse,
assieme al Buiese amministrato dalle autorità
croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la
Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie competenze
agli organi civili del potere popolare, cercò
di consolidare le strutture tipiche di un regime
comunista, irrispettoso del diritto delle persone.
Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato
a provvedere alla sola amministrazione provvisoria
della zona occupata, senza pregiudizio della
sua destinazione statuale, cercarono di forzare
l’annessione con una politica di fatti compiuti.
Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti
nazionali degli sloveni, fino ad allora negati,
tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla
soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione
e della violenza.
Nel contempo, le basi economiche del gruppo
nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero
compromesse sia dalla nuova legislazione che
dall’interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre
le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate,
anche a seguito della progressiva scomparsa
della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre
ad eliminare i naturali punti di riferimento culturale
delle comunità italiane: così, a ben poco valse
l’attivazione di nuove istituzioni culturali – come
l’emittente radiofonica in lingua italiana – strettamente
controllate dal regime, di fronte alla progressiva
espulsione degli insegnanti e – dopo il
1948 – al ridimensionamento del sistema scolastico
in lingua italiana, nonché all’orientamento
complessivo dell’insegnamento verso l’attenuazione
dei legami del gruppo nazionale italiano con l’Italia
e verso la denigrazione dell’Italia. Allo stesso
modo, la persecuzione religiosa del regime assunse
nei confronti del clero italiano, che costituiva un
elemento chiave per la difesa dell’identità nazionale,
un’oggettiva valenza snazionalizzatrice.
Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli
attivisti locali, che ribaltavano sull’elemento italiano
l’animosità per i trascorsi del fascismo istriano,
è palese sin dall’immediato dopoguerra l’intento
di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili
alle istanze del nuovo potere, allo stato
attuale delle conoscenze mancano riscontri certi
alle testimonianze – anche autorevoli di parte jugoslava
– sull’esistenza di un piano preordinato di
SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008 l XV
espulsione da parte del governo jugoslavo, che
pare essersi delineato compiutamente solo dopo
la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948;
questo spinse i comunisti italiani, che vivevano
nella zona e che pur avevano inizialmente collaborato
anche se con crescenti riserve con le autorità
jugoslave, a schierarsi nella loro stragrande
maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse
le autorità popolari ad abbandonare la linea
della “fratellanza italo-slava”, che consentiva il
mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di
una componente italiana politicamente e socialmente
epurata al fine di renderla conformista rispetto
agli orientamenti ideologici e alla politica
nazionale del regime. Da parte jugoslava, pertanto,
si vide con crescente favore l’abbandono da
parte degli italiani della loro terra d’origine, mentre
il trattamento riservato al gruppo nazionale
italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei
negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si
manifestò nuovamente al tempo delle elezioni
del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti
forzati, si intrecciarono così provvedimenti
miranti a consolidare le barriere fra Zona
A e Zona B. La composizione etnica della Zona B
subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell’immissione
di jugoslavi in città che erano state
quasi esclusivamente italiane.
In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria
si registrò un flusso costante anche se
numericamente limitato, di partenze e di fughe,
che divenne particolarmente considerevole agli
inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l’intero
gruppo nazionale italiano dopo la stipula del
Memorandum di Londra, quando per gli italiani
venne meno la speranza che la loro situazione
potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni
assunti con il Memorandum, l’atteggiamento delle
autorità nella Zona B non cambiò, mentre il
medesimo atto concedeva alla popolazione la
possibilità di optare per la cittadinanza italiana
entro un tempo limitato. Complessivamente nel
corso del dopoguerra l’esodo dai territori istriani
soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più
di 27.000 persone – vale a dire la quasi totalità
della popolazione italiana ivi residente – oltre ad
alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi
alla grande massa di esuli, in larghissima
maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno
dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti
dalle aree dell’Istria e della Dalmazia oggi appartenenti
alla Croazia. Gli italiani rimasti (l’8%
della popolazione complessiva) furono in maggioranza
operai e contadini, specie quelli più anziani,
cui si aggiunsero alcuni immigrati politici
del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra.
Fra le ragioni dell’esodo vanno tenute soprattutto
presenti l’oppressione esercitata da un regime
la cui natura totalitaria impediva anche la libera
espressione dell’identità nazionale, il rigetto
dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale
nell’area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali
trasformazioni introdotte nell’economia. L’esistenza
di uno Stato nazionale italiano democratico
ed attiguo ai confini, più che l’azione propagandistica
di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi
anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano,
costituì un fattore oggettivo di attrazione
per popolazioni perseguitate ed impaurite, no –
nostante il governo italiano si fosse a più riprese
adoperato per fermare, o quantomeno contenere,
l’esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni
di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato
pure all’interruzione coatta dei rapporti con
Trieste, che innescarono il timore per gli italiani
dell’Istria di rimanere definitivamente dalla parte
sbagliata della “cortina di ferro”. In definitiva, le
comunità italiane furono condotte a riconoscere
l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale
– intesa come complesso di modi di vivere e
di sentire, ben oltre la sola dimensione politicoideologica
– nelle condizioni concretamente offerte
dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne
vissuta come una scelta di libertà.
In una prospettiva più ampia, l’esodo degli italiani
dall’Istria si configura come aspetto particolare
del processo di formazione degli Stati nazionali
in territori etnicamente compositi, che condusse
alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e
multiculturale esistente nell’Europa centro-orientale
e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero
abbandonare uno Stato federale fondato su
di un’ideologia internazionalista, mostra come
nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e
distanze nazionali continuassero a condizionare
massicciamente le dinamiche politiche.
La stipula del Memorandum di Londra non risolse
tutti i problemi bilaterali, a cominciare da
quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma
segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più
tesi nei rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca
nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione
di confine sulla base degli accordi di
Roma del 1955 e di Udine nel 1962 e dallo sviluppo
progressivo dei rapporti culturali ed economici.
Nonostante i loro contrasti, già a partire dalla
stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l’Italia e
la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più
stretti, tali da rendere a partire dalla fine degli anni
Sessanta il loro confine il più aperto fra due
Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L’apporto
delle due minoranze fu a tale proposito del
massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni
di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee
ricadute, i due popoli verso una più feconda
collaborazione.
XVI l SPECIALE FOIBE l patria indipendente l 27 gennaio 2008