Ha subito una battuta d’arresto il progetto del governo israeliano di annettersi il 30% del territorio della Cisgiordania

Boicottaggio e sanzioni: discorso d’odio o d’amore?

Ha subito una battuta d’arresto il progetto del governo israeliano di annettersi il 30% del territorio della Cisgiordania che doveva essere messo in cantiere a partire dal primo luglio. Probabilmente è mancato il via libera di Trump che, stretto fra la ripresa galoppante della pandemia negli USA e le proteste seguite all’omicidio di George Perry Floyd, ha ben altre preoccupazioni in questo momento. Però non possiamo considerare irrilevanti le proteste delle organizzazioni internazionali e delle associazioni che si battono per i diritti umani da cui emerge  una sempre più pressante richiesta di sanzioni internazionali per responsabilizzare il governo di Israele ed evitare quest’ulteriore strappo alla legalità internazionale.  In questo contesto acquista grande rilievo il recente intervento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che, con la sentenza Baldassi ed altri contro la Francia, depositata l’11 giugno, ha posto la parola fine ad un equivoco che per troppo tempo aveva agitato il mondo politico riconoscendo la piena legittimità della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) nei confronti di Israele. Il tema affrontato dalla Corte EDU impattava una questione delicata, quella dei limiti della libertà d’espressione a fronte di messaggi o di iniziative politiche di incitamento all’odio o alla discriminazione, questione tanto più attuale in questo momento storico caratterizzato da rigurgiti di razzismo cavalcato da movimenti politici di ispirazione neofascista o neonazista.

Da tale punto di vista la Corte Europea dei Diritti Umani aveva già  ben tracciato i confini della libertà di espressione in relazione a messaggi d’odio o discriminatori. Attraverso una consolidata giurisprudenza la Corte aveva categoricamente escluso che la libertà di espressione, principio cardine di ogni società democratica, potesse tutelare i messaggi d’odio (hate speeches) e di incitamento alla violenza o alla discriminazione,  ritenendo, invece, legittimo e necessario l’intervento punitivo nei confronti degli odiatori.  Forte di questa sua competenza la Corte non ha avuto difficoltà a condannare la Francia per l’assurda condanna di un gruppo di militanti del movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) che aveva distribuito dei volantini in un supermercato invitando i consumatori a non acquistare prodotti israeliani. La Corte ha concluso la sua valutazione sulla liceità dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani sottolineando che il rispetto del diritto internazionale pubblico da parte di Israele e la situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati sono argomenti di interesse generale, che fanno parte del dibattito contemporaneo che si sta svolgendo in Francia come in tutta la comunità internazionale.

La sentenza Baldassi è particolarmente significativa perché restituisce alla libertà del dibattito pubblico tutte le iniziative politiche volte a contrastare, con metodi pacifici e non violenti, le ricorrenti violazioni del diritto internazionale dei diritti umani commessi dallo Stato di Israele e a rendere edotta l’opinione pubblica delle questioni in campo. In particolare questa sentenza è importante perché riconosce piena legittimità ad un’iniziativa politica, il BDS osteggiata con lo stigma incredibile dell’antisemitismo.  La pretesa di iscrivere le critiche alle politiche perseguite dai governi israeliani nel campo dell’antisemitismo, cioè di qualificarle come espressioni di razzismo, negli ultimi anni ha portato a un’escalation delle campagne diffamatorie anti-BDS in Europa. Al punto che nel maggio 2019 il parlamento tedesco ha approvato una mozione equiparando il movimento BDS all’antisemitismo. Una risoluzione analoga è stata approvata dal parlamento austriaco nel febbraio 2020. Dopo l’intervento della Corte EDU non è più possibile calunniare o criminalizzare il BDS ed ogni altro movimento che punti ad attivare l’opinione pubblica internazionale ed a stimolare i Governi ad adottare delle misure di responsabilizzazione nei confronti di Israele in conformità con il diritto internazionale. E’ pacifico che il diritto internazionale è un diritto imperfetto perché non vi sono sanzioni e non esiste un’autorità capace di farlo rispettare, tuttavia i suoi principi, sanciti dall’umanità all’uscita dalle tenebre della seconda guerra mondiale e della Shoà, sono l’unico fondamento che possa assicurare la coesistenza pacifica fra le nazioni e la soluzione delle crisi generate dalla violenza delle armi.  In definitiva spetta all’opinione pubblica assicurare il rispetto del diritto internazionale ed il movimento del BDS rappresenta un fattore di maturazione e crescita dell’opinione pubblica mondiale. Per questo, come tutti i movimenti politici che hanno a cuore la difesa dei diritti umani, il boicottaggio di Israele, lungi dall’appartenere al campo degli “hate speeches” deve essere incluso nei “love speeches”.

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Domenico Gallo

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l’1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 è in servizio presso la Corte di Cassazione, attualmente ricopre le funzioni di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019)

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ANPI Dossier: le Foibe

 
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Dossier: le Foibe

La storia (1866-1960): dall’irredentismo triestino all’esodo italiano dall’Istria e dalla Croazia

Quando si parla di foibe, l’attenzione si polarizza immediatamente sulle tragiche vicende dell’autunno del 1943 e della primavera del 1945, in Istria e nella Venezia Giulia, segnate dagli eccidi compiuti dalle milizie jugoslave e da non pochi civili sloveni e croati contro gli italiani, ma ciò non basta per comprendere il significato profondo di tali eventi, che devono essere situati in un più ampio contesto temporale. L’impostazione storiografica di lungo periodo è quella più idonea per capire quanto avvenuto al confine orientale tra il 1943 e il 1945. E’, infatti, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento che incomincia a delinearsi consapevolmente il problema del confine orientale del neocostituito Regno d’Italia.

Le guerre d’indipendenza e l’irredentismo italiano e slavo

Nel periodo tra la II e la III guerra d’indipendenza si discute appassionatamente la questione del giusto confine orientale, tale ritenuto, per i più, se comprendente, oltre ai vecchi domini veneziani nella penisola istriana, anche Gorizia e Trieste, cioè le terre italiane appartenenti all’impero asburgico.
La delusione del 1866, con l’annessione del solo Veneto, comprendente parte del Friuli, fa nascere l'”irredentismo”.
Nel medesimo periodo veniva sviluppandosi rapidamente anche un duplice risorgimento, spirituale e materiale, delle popolazioni slave residenti nel Litorale, poiché tanto gli sloveni quanto i croati, in ciò guidati dal clero cattolico, avevano iniziato a scoprire e a consolidare la propria identità nazionale da un lato e a battersi per il miglioramento delle condizioni economiche dall’altro; da qui, pertanto, l’avvio di uno scontro sempre più acceso sul piano etnico e sociale, dal momento che la componente italiana, che deteneva una posizione di assoluta supremazia anche a livello censuario, aveva il controllo della vita amministrativa e politica locale.

L’afflusso sempre più consistente di manodopera slava dall’interno dell’Impero verso una città in grande espansione come Trieste e l’ascesa materiale e culturale degli abitanti croati e sloveni della regione determina una miscela esplosiva costituita da una crescente consapevolezza nazionale in entrambe le etnie conviventi nell’allora Litorale; una contrapposizione drastica sul versante religioso; un conflitto di classe tra una borghesia consolidata e un movimento contadino e proletario in ascesa e, per finire, un contrasto tra città, a larga dominanza italiana, e campagna, quasi ovunque abitata da slavi.

Ciò determinava la fusione della questione sociale con quella nazionale, rendendo ancor più drammatico il conflitto.

La Grande Guerra e l’annessione dell’Istria

Va, peraltro, rilevato che sul versante italiano si può inizialmente parlare di un nazionalismo difensivo, mentre dall’altra parte è evidente un nazionalismo offensivo, rivendicante la liquidazione dell’elemento italiano e lo sbocco al mare con una Trieste trasformata nella capitale morale e materiale della Slovenia, la creazione di una grande Slovenia fino al Cividalese e alla Carnia, sia pure entro la compagine imperiale, che non poteva non preoccupare e spingere a un ulteriore arroccamento la dirigenza liberal-nazionale italiana. A ciò s’aggiunga il graduale raffreddamento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Austria-Ungheria in seguito alla progressiva competizione economica e commerciale nei Balcani e ai nuovi orientamenti internazionali dei governi di Roma, l’affermazione di un aggressivo nazionalismo anche imperialista in Italia, il ribollire sempre meno controllabile delle tensioni nazionali nell’Impero e si comprenderà come allo scoppio della guerra nel 1914 e all’entrata in essa dell’Italia l’anno dopo, gli spiriti da entrambe le parti fossero sufficientemente accesi e predisposti a uno scontro anche armato per risolvere la questione dell’appartenenza nazionale e statuale della Venezia Giulia.

Lo Stato Maggiore imperiale, esperto nel gestire truppe di varia provenienza etnica, non a caso scelse di schierare sul fronte isontino milizie in prevalenza slovene e croate, oltre che carinziane e tirolesi, sapendo di poter contare sul loro sentimento antiitaliano. Il conflitto etnico era, dunque, esplicito e radicale, combattuto con le armi in pugno ben prima del 1941. I trattati di pace postbellici, gli accordi di Rapallo (1920) prima e di Roma (1924) poi, dando una sistemazione del confine orientale confacente agli interessi italiani, incorporavano, però, nel Regno un consistente numero di sloveni e croati, cui la classe dirigente liberale, seguendo i consigli di Francesco Salata, assicurò i fondamentali diritti di tutela della propria identità nazionale. In particolare il Trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, ebbe l’effetto di un fiammifero sulla benzina. Il Trattato accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell’area ritenuta dagli sloveni come proprio “territorio etnico“.

Il fascismo e l’italianizzazione delle minoranze

Con l’avvento del fascismo (che allontana Salata)  vi fu una politica di snazionalizzazione antislava, che  rientrava in un più ampio e complessivo processo di italianizzazione di tutte le minoranze “alloglotte”, incluse quelle germanofone sudtirolesi e francofone valdostane. Nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, le scuole furono italianizzate, gli insegnanti licenziati o costretti ad emigrare, vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nei pubblici impieghi. All’eliminazione politica delle minoranze, si accompagnò da parte del regime mussoliniano un’azione che aveva l’intento di arrivare alla bonifica etnica della Venezia Giulia. Anche attraverso la repressione nei confronti del clero, che rappresentava un importante momento di sintesi della coscienza nazionale delle minoranze. Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa di confine furono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej, e del vescovo di Trieste, Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive “romanizzatrici” del Vaticano, anche attraverso l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi. D’altra parte il concordato del 1929 con il Vaticano tolse una potente arma d’opposizione al clero sloveno e croato, che non poteva non riconoscere talune benemerenze a un regime ora alleato del Papa. La prima conseguenza di questo programma di distruzione integrale delle identità fu la fuga di gran parte delle minoranze dalla Venezia Giulia: secondo stime jugoslave emigrarono 105 mila sloveni e croati. Ma soprattutto si consolidò, agli occhi di queste minoranze, un fortissimo sentimento anti italiano, l’equivalenza tra Italia e fascismo che portò la maggioranza degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Come reazione, si radicalizzarono gli obiettivi delle organizzazioni clandestine slovene che, verso la metà degli anni Trenta, abbandonarono le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello Stato italiano per puntare invece al distacco dall’Italia dei territori considerati loro. Un’azione che trovò l’appoggio del Partito comunista italiano.

L’Italia attacca la Jugoslavia; l’occupazione fascista in Slovenia

In un tale contesto lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia nella primavera del 1941 che seguiva all’improvviso rovesciamento di alleanze del governo di Belgrado come conseguenza di un vero e proprio colpo di Stato a favore dei nemici dell’Asse portarono ulteriori elementi di complicazione a una situazione già complessa e travagliata.

La dissoluzione del regno dei Karageorgevic portò alla costituzione di una provincia di Lubiana, annessa al regno d’Italia, sia pure con un certo grado di autonomia, e allo spostamento a est del confine orientale nazionale con il conseguente inglobamento di altri sloveni e croati. Di vera e propria resistenza slava non si può parlare fino al luglio del ’41. Dopo tale data ebbe inizio una guerriglia non solo nazionale e patriottica, ma anche ideologica, alla quale le forze di occupazione italiana risposero con una feroce repressione, bruciando case, sequestrando beni e uccidendo partigiani e civili o rinchiudendoli in campi di concentramento. I campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, LopudKupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), e molti furono dislocati anche in Italia. Vi morirono oltre 7.000 persone. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche “zingari” ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini

Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista, nei 4.550 Km quadrati di questo territorio:

Ostaggi civili fucilati ………………………..…      n. 1.500
Fucilati sul posto………………………………….     n. 2.500 
Deceduti per sevizie…………………………….     n.       84 
Torturati e arsi vivi………………………     n.   103 
Uomini, donne e bambini morti nei campi
di concentramento……………………..…   n. 7.000

Totale …………………………………        n. 13.087

Le violenze del ’43 in Istria

L’8 settembre 1943, con la scomparsa quasi istantanea delle istituzioni militari e civili nazionali nell’area giuliana, creò un vuoto di potere nel quale il movimento partigiano sloveno e croato, ormai egemonizzato dalla componente comunista, fu pronto a inserirsi, scatenando un’ondata di terrore, che, se in qualche misura può anche esser vista come esplosione di furori contadini a lungo repressi nell’Istria interna, fu in sostanza il risultato di un’operazione predisposta dall’alto, a partire da Tito, che mirava (n.d.r. giustamente) a colpire tutti quelli che in qualche modo rappresentavano lo Stato italiano e l’apparato fascista o che si sapeva risolutamente contrari a un’annessione alla Jugoslavia, pur se antifascisti dichiarati.

L’occupazione jugoslava del Litorale e le foibe

Il culmine lo si raggiunse nella primavera del 1945 al crollo del III Reich con la conseguente occupazione jugoslava del Litorale Adriatico (Adriatisches Kustenland), in pratica staccato dalla RSI e governato dai proconsoli della Germania hitleriana.

I quaranta giorni dell’occupazione titina di Gorizia e di Trieste dove, in seguito a un accordo interalleato, subentrò l’amministrazione militare angloamericana, mentre l’Istria rimase definitivamente alla Jugoslavia furono caratterizzati da un’applicazione su vasta scala della pratica del terrore, gestita con estrema abilità ed efficacia anche sul piano psicologico dai servizi segreti jugoslavi, che, operarono con la massima determinazione per cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio, colpendo in modo sistematico ogni possibile opposizione in chiave nazionale e ideologica, arrestando, deportando nelle carceri e nei campi di prigionia (tra i quali va ricordato quello di Borovnica), infoibando o comunque sopprimendo in tutta la Venezia Giulia occupata, nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano, migliaia di avversari, in prevalenza italiani (non solo fascisti, ma anche esponenti del Cln che si opponevano all’annessione) e pure sloveni e croati, creando ad arte un velo di mistero e di segretezza sulla loro scomparsa al fine di provocare un’atmosfera di paura generalizzata e di tensione e inquietudine diffusa. Il partito comunista italiano di Trieste, uscito nel settembre ’44 dal C.L.N., appoggiò le mire slave.

VITTIME   delle FOIBE

Nel ’43: tra le 500 e le 700

Nel ’45: dalle 4-5.000 alle 10-12.000 vittime

Dopoguerra e esodo degli italiani dall’Istria e dalla Croazia

Nel ’47 la situazione peggiorò perché le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato di occuparsi solo dell’amministrazione provvisoria della zona B, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti. Tentarono di «ostringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione e della violenza. Un disegno – affermano gli storici – dal quale traspare palese l’intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere. Da parte jugoslava si vide con crescente favore l’abbandono degli italiani della loro terra d’origin». Intanto nel ’48, dopo la rottura tra il movimento titino e il Cominform, erano esplose le tensioni tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi. Numerosi esponenti del Pci, la maggior parte dei quali erano accorsi in Jugoslavia attirati dal mito dell’edificazione del socialismo, subirono il carcere, la deportazione e l’esilio. Gli scoppi di violenza che avvenirono durante le elezioni del 1950, e successivamente la crisi triestina nel ’53, fecero il resto. Il risultato fu l’esodo dai territori istriani di migliaia di italiani: 27 mila nelle aree oggi soggette alla sovranità slovena, dai 200 ai 300 mila dalla Croazia.

 

 La Campagna di Jugoslavia  e il regime di occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)

 Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava(saggio di Alberto Buvoli , Patria Indipendente, 27 febbraio 2005)

 Le foibe. Istria, settembre-ottobre 1943 (saggio di Galliano Fogar, Patria Indipendente, 27 febbraio 2005)

 1941-3: la repressione antipartigiana e i campi di concentramento italiani nella Jugoslavia occupata

 Foibe, è il caso di parlarne (di Maria R. Calderoni, Liberazione)

 «Le stragi delle foibe furono violenza di Stato». Il testo definitivo dell’analisi bilaterale Italia-Slovenia (di Francesco Alberti, Corriere della Sera 4 aprile 2001

 La questione di Trieste: cronologia 1944-1975

 

 

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Domenico Gallo02.07.2020 – Manifesto

Il giudicato, secondo un antico brocardo del diritto romano, facit de albo nigro, aequat quadrata rotundis. Cioè il giudicato ha una forza tale che può trasformare il bianco in nero e rendere i quadrati uguali ai cerchi. In tempi in cui l’autorevolezza delle sentenze passate in giudicato appare piuttosto gracile, dobbiamo constatare che la funzione iperbolica che i romani attribuivano al giudicato è passata di mano. Oggi è la potenza di un sistema mediatico che può rovesciare una realtà e il nero in bianco.

Solo così si può spiegare l’attacco temerario contro la sentenza della Cassazione che, nell’agosto del 2013, ha reso definitiva la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Il cosiddetto “audio shock” trasmesso da una Tv di Berlusconi, poi rilanciato con commenti al vetriolo contro la magistratura dalla galassia dei media del Cavaliere ed utilizzato dai politici di Forza Italia per avanzare le richieste più strampalate (come la nomina di Berlusconi senatore a vita), è un documento che testimonia l’esatto contrario di quanto vorrebbero fargli dire coloro che l’hanno diffuso.

Il tenore del colloquio esprime chiaramente l’esigenza del giudice Amedeo Franco di dissociarsi dalla decisione assunta dal Collegio giudicante. Se poi guardiamo il contenuto delle “rivelazioni” del giudice Franco, vediamo che l’unico appiglio utilizzato come prova di disegno di pilotare il processo a danno di Berlusconi, è la questione dell’affidamento del processo alla Sezione feriale. Il comunicato emesso ieri dalla Corte di Cassazione ha dimostrato la falsità dell’insinuazione. Il fascicolo è stato iscritto presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano.

“In ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, (..) venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge.”

Quanto all’insinuazione sulla “malafede” del Presidente del Collegio giudicante, che, a detta di Franco, avrebbe ricevuto pressioni dalla Procura di Milano per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla stessa Procura per… “essere stato beccato con droga a casa di…”, anche in questo caso la circostanza della droga evocata è completamente falsa.

Essendo del tutto false l’insinuazione sull’attribuzione del processo ad un Collegio ad hoc e quella su presunte pressioni della Procura di Milano sul Presidente del Collegio, tutto il resto non è altro che una giaculatoria volta a dimostrare all’illustre imputato che lo stesso Franco non condivideva la decisione. Anche l’espressione “plotone di esecuzione”, riferita al Collegio giudicante, seppur riprende un linguaggio comune delle difese mediatiche, caro all’orecchio del Commendatore, non arreca alcun elemento fattuale di conoscenza, esprimendo una mera opinione. D’altra parte la cosa più significativa che emerge nel corso del colloquio è il fatto che Amedeo Franco confessa la sua fedeltà a Berlusconi: “Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore (..) non dell’ultima ora”.

Dobbiamo allora chiederci: per quale motivo un giudice, violando il segreto della Camera di Consiglio, sente l’esigenza di discolparsi con l’imputato per l’esito a lui non favorevole del processo?

Una risposta a questa domanda avrebbe potuto darla soltanto il procedimento penale (e disciplinare) che inevitabilmente sarebbe stato aperto se il protagonista non fosse deceduto. Non è un caso, pertanto, che questa “prova” della iniquità del processo sia stata diffusa dopo la morte dell’interessato. Indubbiamente un comportamento così inusitato per un giudice, costituisce indizio di un rapporto non trasparente con l’imputato e quindi di una perdita di imparzialità.

In definitiva questo colloquio registrato lungi dall’essere un elemento significativo di una persecuzione giudiziaria in danno di Berlusconi, costituisce una prova del rapporto opaco che Berlusconi intratteneva con taluni magistrati. Forse qualcuno dovrebbe spiegare al cittadino comune che questa sensazionale rivelazione, non rivela nulla se non il fascino che il sistema di potere berlusconiano esercitava, e forse esercita ancora, nei confronti di una frangia di magistrati, ma rivela anche che, fin qui, il sistema indipendenza della magistratura, ha sostanzialmente retto assicurando il controllo di legalità nei confronti dei potentati economici e politici, a garanzia dei diritti dei cittadini. Ma domani è un altro giorno.

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La Memoria Antonina Azoti

 

 Importantissima pagina di Storia della Sicilia. Antonina Azoti intervistata spiega a lungo come, e a quale duro prezzo, la bambina che a 4 anni assiste all’assassinio del padre Nicolò Azoti Segretario della Camera del Lavoro di Baucina, è tutta sola arrivata dopo 46 anni, nel 1992, a gridare la verità al mondo lì all’albero Falcone che anche suo padre era stato ucciso, come tanti altri sindacalisti, dalla mafia.

E’ una intervista da seguire con attenzione: Antonina Azoti ci spiega come la mafia per fare piazza pulita, per cancellare la storia, quando uccide qualcuno, lo uccide due volte. una volta per ucciderlo e la seconda volta per cancellarne la memoria. La sua è una storia straordinaria che ci indica la strada per il riscatto della Storia, per il riscatto degli ultimi, per la difesa del lavoro, per la difesa della democrazia e del rispetto della dignità umana.

 

 

 

 
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La civiltà del ginocchio sul collo

La civiltà del ginocchio sul collo

America down. In strada non sono scesi solo gli afroamericani, ma anche tanti di quelli – bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia. Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere

La protesta a Minneapolis
La protesta a Minneapolis

C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo della vittima a Minneapolis – San Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, perfino il cacciatore bianco sull’elefante o il rinoceronte ucciso in safari… Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio … E del bianco sul nero. Così deve essersi sentito il poliziotto Dereck Chauvin, domatore sul corpo prostrato di George Floyd in mezzo alla strada, davanti agli occhi di tutti.

Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro, vita del corpo e soffio dello spirito. A Minneapolis, la civiltà è la bestia, l’ordine è selvaggio, la legge è l’arbitrio, l’umanità è soffocata e soppressa. Jack London lo chiamava il Tallone di ferro; stavolta è un ginocchio, a New York al collo di Eric Garner era un braccio; ma la sostanza è la stessa.

Anche per questo in strada non sono scesi solo i fratelli e le sorelle afroamericani, i più prossimi alla vittima, ma anche tanti di quelli – bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia. Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere. Il respiro spezzato di George Floyd e di Eric Garner è anche una figura della loro voce negata.

E’ una parte di America senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza quella che è esplosa in tutto il paese. Lo stato è in mano a forze che lo pensano come potere di dominio senza responsabilità di governo; quando il paese diventa ingovernabile sanno solo minacciare sparatorie ed evocare “cani feroci” da scagliare addosso ai manifestanti – salvo andarsi a nascondere nel bunker come di un ditta torello spaventato dai suoi stessi sudditi. Peraltro, la vigliaccheria è funzionale anche a un consapevole disegno politico: drammatizzare la situazione, accentuare il conflitto, radicalizzare le aree di consenso su cui si basa il sostegno elettorale di Trump, far dimenticare la disastrosa gestione dell’emergenza sanitaria, cogliere l’occasione per criminalizzare il dissenso. C’è un’intenzionale parallelismo fra il gesto di Trump di scendere le bunker e quello del vicepresidente Cheney dopo l’11 settembre: come dire che la crisi di adesso è la stessa di allora (e i “terroristi” sono gli “antifa”) e legittima la stessa politica securitaria, le stesse violazioni e sospensioni della democrazia di allora.

Né l’alternativa possono essere le parole flebili, convenzionali, di prammatica (e soprattutto: parole, in un momento che avrebbe bisogno di azioni, di gesti significativi) che sono venute da Biden e del partito cosiddetto democratico, che peraltro di scheletri nell’armadio ne ha fin troppi. Fino a una settimana fa, la più plausibile candidata democratica alla vicepresidenza era Amy Klobuchar, ex pubblico ministero della contea di Minneapolis, che in quanto tale aveva lasciato correre, e anzi appoggiato, l’aggressività endemica della polizia ed era addirittura accusata di aver lasciato indenne in un caso precedente lo stesso Derek Chauvin. Anche se è ormai chiaro che non sarà lei la prescelta, il solo fatto che si fosse pensato a lei per la vicepresidenza (e quindi in futuro addirittura per una possibile candidatura presidenziale) ci dice quanto questi temi fossero estranei alla visione del gruppo dirigente democratico.

La sola opposizione in questo momento sta nelle strade. La “violenza” non piace a nessuno; ma se i senza parola non avessero alzato la voce Dereck Chauvin l’avrebbe fatta franca per l’ennesima volta come tutti gli altri; e se non avessero parlato con il fuoco nelle strade le istituzioni si sarebbero limitate a licenziarlo ma non l’avrebbero, troppo tardi, incriminato. Tutti applaudivano quando un grande scrittore come James Baldwin, sugli echi biblici di un grande spiritual, ammoniva: la prossima volta il fuoco. Bene, la prossima volta è questa, il commissariato di polizia a Minneapolis brucia davvero. E adesso che le parole di Baldwin diventano fatti, tutti a stigmatizzare la violenza come se non li avessero avvertiti prima, invece di domandarsi che cosa potevamo fare perché non fosse ancora una volta inevitabile e che cosa dovremo fare, quando i fuochi sembreranno spegnersi, perché non sia necessario che tornino a divampare un’altra volta.

Per fortuna, nelle strade d’America c’è stato anche il gesto concreto di un’altra opposizione, che segna davvero una novità storica – e viene da gruppi imprevisti di lavoratori. Hanno cominciato gli autisti degli autobus di Minneapolis, rifiutandosi di potare in carcere i manifestanti arrestati. Ma il messaggio più potente viene propria da dentro quello sarebbe il campo avverso: sono i poliziotti che si uniscono ai cortei dei manifestanti, che solidarizzano con la protesta, che dicono basta alla solidarietà a priori con i propri colleghi picchiatori e assassini. Mi colpisce che gli episodi più clamorosi vengano da realtà con un forte potere simbolico: Camden, New Jersey (città di Walt Whitman, poeta della democrazia, e periferia disastrata), Flint, Michigan (la città operaia della General Motors e Michael Moore, avvelenata dagli scarichi industriali nelle acque col sillenzio del governo federale), e soprattutto Ferguson, Missouri, la città dove l’assassinio di Michael Brown e la repressione militare della protesta hanno aperto nel 2014 una nuova fase che culmina (per ora) con gli eventi di oggi. A Ferguson, la polizia era armata come un esercito di occupazione, e addestrata a pensare ai manifestanti, letteralmente, come “nemici”. Che poliziotti di Ferguson si inginocchino in omaggio a un afroamericano ammazzato da uno come loro significa che c’è un limite a tutto, che questo limite è stato oltrepassato, e che qualche coscienza comincia a cambiare. Forse non basta, ma non era mai successo prima. Forse, adesso che il drago si scuote, anche San Giorgio comincia ad avere qualche dubbio.

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La quarantasettesima Torino, Einaudi, 1976

Ubaldo Bertoli.

 

La quarantasettesima.

 

Torino, Einaudi, 1976.

 

Un mattino dell’ottobre 1944, il maggiore Arnold Charles Holland, discutendo col commissario della 47ª su certe innovazioni strategiche che egli riteneva indispensabili, colse l’occasione propizia per affermare che la brigata «aveva la testa calda». Nativo del Sussex, il Maggiore, che si esprimeva unendo alle parole gesti dalla sconcertante lentezza, intendeva riferirsi al temperamento impetuoso che la 47ª effettivamente mostrava di avere anche nei riguardi della disciplina militare. Il commissario gli rispose che era molto meglio lasciare le cose come erano sempre state.

  Il colloquio durò oltre un’ora, sotto il portico di un cascinale nei pressi di Selvanizza, ed ebbe fasi piuttosto eccitate in cui la fervida voce di Ilio prevalse con accenti violenti sulle argomentazioni dell’inglese.

  La pioggia batteva di traverso contro i muri di pietra, sollevandosi a tratti nel vento. Il Maggiore fece un cenno a Michael Tyler, che stava seduto su una balla di paglia intento a tracciare segni rossi sulla carta geografica. Il cenno significava che non c’era per il momento nulla da aggiungere a quanto era stato detto e Holland, riparandosi con la mantellina di panno cachi, si sporse oltre il limite del portico per osservare la scura nuvolaglia che si avvolgeva nella vallata.

  La sua liscia faccia si contrasse lievemente sotto la pioggia. Tyler infilò nella custodia la carta geografica e muovendo con sicura indolenza le sue lunghe gambe australiane raggiunse il Maggiore, mentre il commissario Ilio, con l’atteggiamento di deferenza che usava prendere dopo le discussioni vittoriose, si ritrasse nella penombra allacciandosi sotto il mento i paraorecchi del suo berretto di pelo.

  I due inglesi si incamminarono verso Palanzano, riprendendo a discutere con gesti leggeri. Ilio li osservò sino a che essi scomparvero dietro la svolta, poi entrò nella cucina attigua al portico, dove stava Max, davanti al fuoco.

  In seguito, il Maggiore ornò quel giudizio di un accrescitivo suggeritogli probabilmente da alcune circostanze in cui la 47ª dimostrò una particolare intraprendenza, e, sino al giorno che, sotto lo sguardo cerimonioso e attento di autorità militari e civili, depose le armi, la 47ª Garibaldi, operante nell’Est Cisa, fu sempre conosciuta per «una brigata dalla testa troppo calda».

  Arnold Charles Holland doveva avere le sue buone ragioni per frenare e disciplinare l’impetuosità della brigata e se poi accettò che in gran parte le cose restassero «come erano sempre state» ciò dipese anche da quello che Tyler dovette dirgli sulle originarie abitudini della brigata, quel mattino, mentre sotto la pioggia salivano verso Palanzano.

  Il Maggiore, osservato con obiettività presentava aspetti molto simpatici. Le sue apparizioni quasi furtive tra i reparti inducevano a sospettare che egli più che altro fosse un agente dell’Intelligence Service, ma si trattava di una suggestione romantica che in talune circostanze ravvivava e istigava lo spirito dei partigiani.

  Charles Holland era sceso con un bellissimo paracadute di seta su un declivo erboso, ai piedi del Monte Acuto, una notte di giugno. Sui margini del pendio lo aspettavano cinque partigiani scelti personalmente dal capitano Philips, che in quel tempo stava organizzando la Missione Alleata. I cinque partigiani, al comando del sergente telegrafista Franco, un italo-americano, erano partiti dalla base, presso Monchio, guidati da un montanaro che fu poi invitato a ritornarsene prima che calasse l’oscurità.

  Il montanaro, che si chiamava Plinio e passava per un fantasioso narratore di storie, s’incuriosì a quella misteriosa manovra e pensò di acquattarsi per osservare cosa mai sarebbe accaduto sotto il monte. Prese un sentiero di traverso e si stese dietro un masso, di dove poté scorgere a suo agio i cinque uomini salire e scendere per il declivo, proprio come aveva visto fare due anni prima dalle squadre del catasto.

  Ogni tanto essi si fermavano come ascoltassero qualcosa al di là del crinale, la luna faceva più alta e spettrale la cima del monte e dietro il monte, ora, pareva salisse a spirale il ronzio di un’ape mostruosa e solitaria. Plinio stava immobile, le gambe rigide e una vaga mordente paura sotto lo stomaco. Vide a un tratto i cinque partigiani dividersi, raggiungere di corsa ciascuno un punto ai margini della china. Il ronzio saliva più distinto dall’ignoto scenario dietro i crinali, misterioso nella sua lacerante esilità. Di colpo si trasformò in un cupo rombo rettilineo, vorace. Plinio vide un’ombra passare sull’indifferente spettro lunare e nello stesso tempo tre razzi vermigli saettare contro il cielo.

  Dall’ombra che il disobbediente montanaro vide passare sulla luna, venne proiettato il maggiore Holland. Egli toccò terra eseguendo con elegante agilità un paio di capriole. Come una grossa medusa morente il paracadute lo ricoprì, ma i cinque partigiani scelti dal capitano Philips accorsero veloci e Arnold Charles Holland riemerse battendo le mani sulle cosce.

  A questo punto Plinio ritenne opportuno allontanarsi e notando che i sei uomini si dirigevano dalla sua parte fu preso ancora una volta dalla paura e si mise a correre giù per il sentiero. Una voce gli gridò di fermarsi ma egli non poté udirla, perché le sue scarpe chiodate battendo sui massi facevano secchi suoni e non la udì la seconda volta perché la sua gola si era di colpo indurita e gli premeva sotto le orecchie un gonfio sapore di zolfo. Udì invece rintronare qualcosa che assomigliava al rompersi di una trave di legno e che si spense dentro le ombre del monte. Sentì di trovarsi curiosamente appoggiato al terreno, di traverso. Un tepore dolciastro, come una ciocca di capelli che si sciogliesse, gli scendeva sotto il colletto della camicia. Fece in tempo a dire «Gesùmmaria…», poi il corpo piramidale del sergente Franco avanzò, s’arrestò all’altezza del suo viso inerte. Gli occhi spalancati di Plinio parevano gusci di un’ostrica appena aperta.

  Lo andarono a prendere il giorno dopo con una broscella e lo coprirono di foglie perché non lo vedessero i ragazzi che aspettavano fuori dal paese. Holland disse al sergente di stendere un rapporto che rispondesse alla verità e la verità, in seguito, fu che Plinio non poté mai raccontare la fantastica discesa del Maggiore. Questi dimenticò presto l’increscioso episodio dovendo ascoltare la lunga relazione che gli fece il capitano Philips.

  La relazione riguardava in gran parte la 47ª e Holland si fece ripetere alcuni punti, mostrando una particolare curiosità per le note caratteristiche di Ilio, di Max e di «un certo Colombo» che Philips descrisse come «un tipo dai capelli grigi, silenzioso, che visitava solitario e instancabile i distaccamenti della brigata, parlando segretamente con gli uomini». Il Maggiore dondolava ogni tanto il capo e socchiudeva gli occhi mentre Philips parlava. La sua liscia faccia si faceva stranamente infantile dietro il fumo azzurro della pipa. Alla fine si alzò lindo e sorridente nella nuova divisa caki e andò a dormire.

  Per un mese quelli della 47ª seppero vagamente che era arrivato nella zona il nuovo comandante della Missione Alleata e qualcuno disse di averlo intravisto dalle parti del Sillara, a cavalcioni di un mulo, e che pareva giovane come un ragazzo. Poi si diffuse la voce che bevesse una bottiglia di whisky tutte le sere e che al mattino fosse fresco e agile come un passero.

  Ilio mostrava indifferenza per tutte le notizie riguardanti il Maggiore e aspettava la sua visita allenandosi mentalmente alle discussioni che riteneva inevitabili. Tutte le sere si appartava con Max e Colombo per concertare quello che lui chiamava «il piano di difesa psicologica». Colombo rispondeva in gran parte alla descrizione fatta dal capitano Philips.

 

  Holland incontrò il commissario della 47ª e Max pochi giorni dopo il rastrellamento di luglio e si limitò a brevi considerazioni generiche, che tuttavia gli permisero di valutare le capacità organizzative di Ilio e di osservare la rapida luce impertinente negli occhi di Max. Convenne sulla necessità di un «lancio» di armi e sorrise con indulgenza al suggerimento che Max gli rivolse affinché ne chiedesse anche uno di indumenti.

  Ilio gli porse la relazione dattiloscritta sul rastrellamento e gli raccontò, con l’intento di saggiare l’emotività dell’inglese, le feroci rappresaglie compiute dai tedeschi, come essi avessero impiccato quarantadue civili nel solo Comune di Neviano, incendiato case e ucciso il bestiame. Holland lo ascoltò con cenni che parevano di approvazione e Max per un momento credette che avessero tale significato, ma poi capì che era un modo curiosamente tranquillo e preciso di ascoltare fatti mostruosi e dentro di sé pensò che gli inglesi erano davvero gente fredda, come aveva sentito dire dal segretario politico del suo paese.

  Il Maggiore propose una riunione dei comandanti i distaccamenti per concertare un dispiegamento tattico più rassicurante e dopo alcuni istanti di silenzio che usò per mettersi sulla faccia un’aria di circostanza chiese a Ilio qualcosa in merito a certe iniziative troppo personali degli uomini del «Griffith». Il commissario gli rispose che il «Griffith» era un distaccamento un po’ speciale, con tipi di una particolare indole proletaria e che quasi tutti avevano avuto un familiare ucciso dai fascisti e che bisognava lasciarli un po’ fare a modo loro, perché oltretutto non era facile impedire che lo facessero e, infine, essi avevano saputo compiere certe imprese che lui, Holland, nemmeno poteva immaginarsele.

  Il Maggiore rispose con uno dei suoi gesti tranquilli, accese lentamente la pipa e l’aria intorno alla sua faccia era fresca e pulita, come l’immacolata divisa caki. Max osservava la faccia di Holland velarsi di fumo, farsi distratta e tuttavia attenta, e pensava che doveva essere un uomo in gamba quell’inglese, il quale, a sua volta, protetto dalle spire azzurre, guardava Max e Ilio e anche lui pensava che dovevano essere due tipi in gamba, forse un po’ troppo spregiudicati e, ricordandosi di colpo la relazione del capitano Philips, un po’ troppo comunisti.

  Era stato Philips a metterlo in guardia sulla ideologia del commissario ed ora Holland, mentre camminava lungo la strada, pensava che ciò poteva nuocere alla coesione operativa con le altre brigate non comuniste e sbirciava di sottecchi il giovane dalla pelle scura, che, al suo fianco, sembrava prepararsi a una nuova discussione. Max veniva dietro, silenzioso e leggero. Camminando, il Maggiore si sentiva scorrere sulla schiena irridente e ostinato lo sguardo cilestrino del partigiano.

  In fondo era stato un incontro non molto produttivo, pensava, ma aveva conosciuto di persona i due elementi più «pericolosi» della brigata ed ora poteva farsi un’idea sufficientemente precisa del loro carattere. Solo gli dispiaceva che non fosse presente quel «tipo dai capelli grigi che parlava segretamente con gli uomini della 47ª».

  Raggiunsero una casa sul cui ingresso stava un uomo dalla faccia torpida e astuta, che scomparve rapido per tornare poco dopo tenendo un mulo per la cavezza. Guardò grigio i due partigiani, avvicinandosi silenziosamente al Maggiore. Si udì largo e voluttuoso nel cielo il rombo di un aereo. L’Enza luccicava nel fondo della vallata e si vedeva un filo di fumo contorcersi allegro sul versante opposto, verso Ramiseto.

  Il rombo, ora, pareva filare sottile dietro i costoni del Caio, come diretto verso il mare, poi si aperse vitrea e lucente una pausa di silenzio, in cui non si udì che il quieto respiro del mulo. Solo Holland dovette intuire che l’aereo sarebbe comparso improvvisamente, perché sollevò il capo in ascolto e schiuse le labbra a un sorriso.

  Pochi istanti e irruppe obliquo nella valle un suono lacerante, oscuro. Un’ombra aguzza saettò contro il sole. – Thunderbolt, – disse Charles Holland, allungando le mascelle. Guardò Max sorridendo con una specie di orgoglio e Max in quel momento stava pensando che il Maggiore, pronunciando quella curiosa parola, sembrava che stesse masticando una caramella di gomma.

  Preceduto dall’uomo dalla faccia astuta, Holland si allontanò sul mulo e non si volse per rispondere al saluto che Ilio e Max gli ripeterono dritti in mezzo alla strada. Una settimana dopo ricomparve accompagnato da Michael Tyler.

 

  La 47ª intanto aveva disposto i distaccamenti su nuove posizioni. Il «Pontirol» e il «Griffith», insieme con un reparto della «Giustizia e Libertà», avevano attaccato i centocinquanta tedeschi che presidiavano Langhirano e li avevano costretti a ritirarsi verso la pianura. Altri combattimenti si erano succeduti tutto il mese di giugno e la 47ª aveva avuto sette morti e gran parte di questi erano ragazzi del «Griffith». Prima di quel colloquio tra Charles Holland e Ilio sotto il portico di Selvanizza battuto dalla pioggia, c’erano stati altri scontri e altri morti ed erano tutti ragazzi di William, di Max, di Corrado, e tutto questo il capitano Tyler lo sapeva benissimo, quando, avviandosi col maggiore Holland verso Palanzano, quel mattino di ottobre, gli tornò a dire come era sin dalle origini il temperamento della 47ª Garibaldi.

  Michael Tyler aveva una lunga faccia rosea e due chiari occhi predisposti alla diffidenza. Rideva impersonalmente, con palese e orgoglioso distacco dagli uomini e dalle vicende da cui non risultasse in qualche modo la supremazia del raziocinio. Fuggito da un campo di concentramento, era capitato tra le vallate sulla sinistra dell’Enza dove una quarantina di giovanotti venuti dal reggiano pareva si divertissero ad assediare e svuotare caserme di carabinieri. Tyler approvò sollecito quelle operazioni e prese contatto col comandante della «banda», che si chiamava William e aveva una maniera tutta sua nel decidere le imprese. Queste, di solito, venivano studiate e decise nel giro di pochi minuti all’apparire di un paese dietro la svolta di una strada e i quaranta giovanotti, dopo aver raggiunto lo scopo, proseguivano subito alla ricerca di un altro obiettivo. Era il mese di marzo, quella «banda» era il distaccamento «Don Pasquino» e dalla sua fusione coi distaccamenti «Picelli» e «Griffith» nacque in seguito la 47ª Garibaldi.

  Vedendola nascere e osservandone il temperamento, Michael Tyler si propose di inserirvi nella struttura organica alcuni concetti di tattica operativa, ma presto dovette constatare che i comandi dei tre distaccamenti sapevano ciascuno il fatto suo nei riguardi di quanto occorreva subito fare in quella primavera del ’44. L’inglese allora si limitò a dare ogni tanto buoni consigli cercando nello stesso tempo di comparire il meno possibile tra quegli uomini, che, a piccoli gruppi, in silenzio, partivano sul far della sera per andare chissà dove e il giorno dopo ricomparivano spingendo innanzi persone dallo sguardo smarrito e le mani legate.

  Quale compenso alla sua discrezione Tyler ottenne da quel centinaio di uomini che costituivano allora la 47ª ruvide manifestazioni di rispetto e la possibilità di interrogare i prigionieri, dai quali ricavò utili notizie da trasmettere al Comando Alleato. Qualche volta mostrava una eccessiva meticolosità negli interrogatori, tanto da apparire persino noioso, ma era il solo che sapesse cavare fuori qualcosa dalla bocca serrata e ostile di un prigioniero tedesco, attenendosi il più possibile alle leggi internazionali.

  Tyler, naturalmente, preferiva trovarsi davanti a prigionieri impressionabili, ma ciò, almeno in quel periodo, gli capitò di rado. Gli uomini della 47ª cercarono di procurargliene il maggior numero possibile ma non era un’impresa facile e per questa ragione essi conservarono nei riguardi del roseo inglese un rispettoso, deciso atteggiamento d’indipendenza.

  A Tyler però non dovette dispiacere del tutto quella forma rudimentale di dignità, anche perché seppe scoprirvi le puerili ma redditizie vie dell’orgoglio. Probabilmente per una di queste vie egli ottenne da Afro quello che ardentemente e ostinatamente desiderava da un po’ di tempo e che venne a proporre quella calma sera di maggio, nella casa a picco sul torrente Termina, dove gli uomini di Afro stavano raccontandosi avventurose storie d’amore.

 

  La casa, piccola e grigia, coi tetti grigi, aveva due piani. In quello di sopra abitava una donna sola coi suoi due bambini, perché suo marito era stato deportato in Germania. Silenziosa e rapida, gli occhi pieni d’ombra, odiava i tedeschi e voleva bene ad Afro perché lui combatteva risoluto i tedeschi e i fascisti. Quando Afro le chiese di ospitare per una settimana la sua squadra nella stanzetta che serviva da granaio, gli rispose con un solo gesto quieto, sorridendo con la bocca ferma e triste. – Grazie, Teresa, – le aveva detto Afro, – non vi daremo fastidio.

  La casa era sita in un punto ideale per dominare la sinuosa e stretta valle del Termina. Si poteva controllare la mulattiera del versante opposto su cui si delineavano le case di Mulazzano, di Faviano e di Urzano. Il punto più pericoloso era Mulazzano, perché i tedeschi vi arrivavano spesso con le autoblindo per una comoda strada asfaltata.

  Gli uomini di Afro si affezionarono ai due bambini e restarono nella casa molto più di una settimana. Ma il loro «soggiorno» era discontinuo, perché ogni tanto partivano per fare nella pedemontana quelle che Lince chiamava «visitine agli uomini vestiti di nero». Teresa pregava appena si erano allontanati e li aspettò sempre con la stessa ansia che provava ancora per il marito deportato.

  Ma essi tornavano puntuali e tra di loro c’era sempre qualche sconosciuto con gli abiti stranamente gualciti e una strana aria di indifferenza sulla faccia illividita. Dalla finestra, Teresa osservava a lungo quelle persone e sentiva caldo nel fondo del petto ridestarsi l’odio sopito.

  Quella sera Lince, Moschetto e Vento stavano ungendo le scarpe con grasso per motori. Gli altri erano dalle parti di Faviano e Afro era andato a chiedere delle munizioni a William, che aveva il distaccamento nei pressi di Lodrignano, sull’Enza. Il giorno prima un centinaio di nazifascisti erano calati dalla mulattiera di Mulazzano e si erano scontrati col «Buraldi», sotto i calanchi di Mossale. La squadra di Afro, sentendo gli spari, era scesa per il sentiero che portava nel Termina e seguendone il corso, dietro i cespugli, aveva preso alle spalle i nazifascisti. Il «Buraldi» aveva potuto evitare l’accerchiamento e ritirarsi a Lupazzano, ma gli uomini di Afro, che avevano protetto la ritirata sino al sopraggiungere dell’oscurità, ritornarono alla casa senza una sola cartuccia.

  Quando Tyler entrò nella stanza, Lince credette fosse Teresa. Poi sollevò il capo e disse: – Toh, Michele! – L’inglese sorrise e disse: – Buonasera -. Quasi tutti i partigiani lo chiamavano col nome italiano e in fondo lui, che aveva vissuto in Liguria una diecina d’anni, aveva spesso tentato di considerarsi un italiano d’adozione; ma tra le bande dei guerriglieri il suo temperamento originario era tornato a prevalere, scostante e diffidente.

  Moschetto e Vento si alzarono e offrirono uno sgabello. Tyler fece alcune considerazioni sui vari modi di ungere le scarpe e disse che in Inghilterra la maggior cura nell’abbigliamento era per le scarpe e lo disse con una certa ironia, alludendo per conto suo allo stato di guerra. Poi tra una parola e l’altra, con aria distratta, chiese dove si trovasse Afro.

  I tre non si lasciarono ingannare dall’accento distaccato di Michele e capirono che lui doveva essere capitato lì per chiedere una cosa importante, e che avessero colto nel segno lo confermò l’arrivo di Afro. Lo udirono entrare nell’andito e salutare con la sua voce allegra Teresa che stava alla sommità della scala.

  Egli entrò, come di solito, con la nervosa sinuosità che rendeva temibile il suo magro corpo d’efebo. Spalancò i lucidi occhi su Tyler e allungando la mano disse: – Benvenuto, Capitano -. Michele rispose al saluto con insolita effusione, poi, chinando la testa, mostrò un’aria docile di circostanza e si diresse alla porta. Lince, Moschetto e Vento si rimisero a ungere le scarpe e Afro, inviando loro un furbo cenno d’intesa seguì l’inglese fuori della casa.

  Rimasero nell’aia con la tiepida sera e col luccichio del Termina sotto le ombre dei dirupi per molto tempo. Nel silenzio si udivano ogni tanto i loro passi tranquilli che parevano segnare un accordo preciso su quanto l’inglese proponeva. I tre partigiani terminarono di ungere le scarpe e si buttarono sulla paglia, ma ciascuno pensava a quello che Afro avrebbe accettato di fare per il capitano Tyler. Poi si addormentarono e quando fu l’alba udirono sul soffitto l’affaccendarsi di Teresa e videro che nel posto dove Afro dormiva la paglia era ancora ammucchiata. Non dissero nulla e uscirono. Guardarono verso Mulazzano, sui calanchi che sfumavano nella foschia. Di là Afro era solito passare quando andava solo nella pianura.

  Anche lui, ora, mentre attraversava i calanchi, pensava ai suoi compagni. Aveva promesso a Michele di non dire niente a nessuno di quanto doveva fare e gli dispiaceva di non aver potuto portarsi dietro almeno Lince, perché insieme avevano fatto molte cose con piacevole intesa, e Lince era un ragazzo che affrontava i pericoli con allegra sicurezza.

  Il sole impastava di giallo una piatta nuvola orizzontale, si vedeva la pianura punteggiata di macchie lucenti e scuro l’orizzonte al di là della pianura. Afro ora s’era messo a pensare che Tyler voleva una cosa piuttosto difficile con quella sua proposta di catturare vivo un ufficiale tedesco. – Un offiziale grande, – aveva suggerito con molta serietà. – Per avere grandi informazioni.

  Sotto l’ultimo calanco imboccò un sentiero che portava a una casa nascosta tra erbosi declivi. Dietro la casa un ragazzo riuniva in fasci degli sterpi e come vide apparire Afro alla sommità del prato sorrise, alzando la mano. Sapeva cosa avrebbe fatto il partigiano nella sua casa, prese un’aria di consapevole gravità e aprì la porta chiamando qualcuno. Afro lo spinse dentro con una allegra manata, seguendolo, e quando tornò nell’aia era già sera e con quella scura giacchetta un po’ lisa a doppiopetto pareva ora uno sfollato dall’aria intimidita.

  Seguito dallo sguardo del ragazzo, Afro scese giù per il viottolo e si diresse dove da quel momento lo poteva guidare solo l’istinto. Scorse alle spalle sui crinali qualche lume accendersi e sparire e tornò a pensare a quel bel tipo di Tyler che voleva «un grande offiziale». Accelerò il passo, sentì gli alberi frusciare nella brezza. «Be’, vedremo», si disse.

  Camminò due giorni per carraie solitarie, stendendosi tra rami di acacie e sotto i rovi, mangiando il pane che gli avevano dato nella casa e bevendo l’acqua dei fossi, e dormì un paio di ore all’alba del secondo giorno, sotto una siepe, e quando tornò la notte e vide il profilo da animale accucciato di un grosso paese, sentì nell’istinto che lì avrebbe trovato quello che cercava e si stese bocconi sull’erba bagnata. Avvertì la dolce insidia del sonno avvolgergli i pensieri, poi il fruscio delle siepi, e un vago rombo lontano verso le colline.

 

  Si risvegliò, come se una mano fredda gli avesse sfiorato la nuca. Il profilo del paese si stagliava contro un arco di pallida luce su cui ancora brillavano due stelle. Rabbrividì, vide la piatta grafia dei prati sotto gli impassibili olmi e riprese a pensare, con violenza. Gli riapparve la lunga faccia rosea di Tyler, poi quella più densa e fedele di Lince. «Dài, muoviti per Dio», si disse. E per un momento pensò anche di avere paura, per qualcosa che forse lo aspettava a pochi passi, d’improvviso.

Era quel profilo inerte, misterioso di case asserragliate che gli dava la sensazione di un pericolo imprevedibile. Istintivamente si portò sotto un lungo fabbricato dal muro di calce e attese, immobile, ascoltando il fresco respiro dell’alba. Stringeva lo sten sotto l’ascella.

  Sul muro c’era una scritta a carbone. Nel fondo una strada girava dietro una grande catasta di legna e fu là che vide, come fosse una proiezione del pensiero preminente, una figura massiccia e verde avanzare lenta verso la catasta di legna. Sembrava una cosa violentemente cresciuta nella notte; si muoveva con torpida certezza, come destinata ad aggredire.

  Quando le fu dietro, la figura si volse. La sua grande faccia grigia guardava Afro senza stupore, gli occhi rotondi e immobili sotto la corta visiera del berretto di tela. Afro fece un gesto con lo sten e l’ufficiale socchiuse gli occhi. Afro si ritrasse cauto e vide dietro la legna una grossa motocicletta nera col sidecar. Ripeté il gesto con lo sten e l’ufficiale si avviò verso la motocicletta, le braccia irrigidite lungo i fianchi.

  Dalle case si levarono scoppi sfrangiati di motori e un uomo apparve nel fondo della strada. Guardò verso i due, poi scomparve dietro il fabbricato dal muro di calce. Afro premette lo sten sulla schiena dell’ufficiale. Egli si infilò nel sidecar con inerzia orgogliosa, incrociando la faccia sul petto come volesse meditare, e pronunciò una breve secca parola.

  Lo sten nascosto sotto la giacca, Afro saltò in sella e guidò la motocicletta attraverso il prato per raggiungere una carraia che portava alla strada, di là degli olmi. La macchina sobbalzava rombando, l’ufficiale teneva le mani intrecciate sul ventre, il corpo immobile e dondolante come un grosso fantoccio di gomma e ogni tanto gli usciva quella secca parola di prima. Raggiunta la strada, la macchina s’infilò nera lungo i casolari sparsi nella tenera luce dell’alba, il suo rombo correva al di là del silenzio. Afro, il gracile volto nervoso puntato contro l’orizzonte, non pensava a nulla, perché troppo violenta gli stava nelle viscere l’emozione e solo sentiva, come altre volte aveva sentito, che ce l’avrebbe fatta e che dopo quella striscia di alberi che vedeva stendersi sinuosa dietro il paese di Tortiano avrebbe potuto prendere un’altra carraia, per evitare il blocco tra Tortiano e Traversetolo, ed era una carraia sicura che portava a una passerella di legno e dopo la passerella tutto sarebbe stato più facile per consegnare a quel maledetto Tyler il «grande offiziale» tedesco.

  Riuscì a compiere con facilità quello che aveva sperato, sino al punto in cui non avrebbe mai supposto che potesse presentarsi uno di quegli ostacoli che altre volte, insieme a Lince, lo avevano costretto a uccidere. Varcata la passerella, infilò un viottolo incassato tra l’argine e il limite di un prato e a una svolta, contro una siepe, vide l’ostacolo e subito decise di rallentare.

  Sentiva asciugarsi sulla pelle il sudore, una sensazione di calmo piacere che gli allontanava i pensieri. Due tedeschi, larghi e duri nella tela mimetizzata sbarravano il passaggio, e uno alzò la mano, gridando, mentre il prigioniero puntava i gomiti sulle sponde del sidecar. Afro non pensò un solo attimo che potesse a sua volta gridare, continuò a rallentare e non pensò nemmeno che gli altri due trovassero strana la sua presenza nella motocicletta con quello sten che spuntava dalla giacca. Non pensava a nulla, di questo ricordò in seguito ogni particolare, ed ora stava rigido col suo istinto e quando fu a pochi passi dai due tedeschi fermò la macchina, sorrise, fece un segno amichevole con la mano verso l’ufficiale nel sidecar, che ora si era sollevato sui gomiti e guardava senza dire una parola.

  Poi ne fece un altro, un segno morbido, astratto, e appena ebbe riportata la mano sul petto tutto quello che avvenne dopo fu soltanto un breve crepitio tra ombre guizzanti. I due tedeschi erano caduti brancolando nello stupore, senza un grido.

  Pochi istanti dopo, l’ufficiale riprese a dondolare nel sidecar. Afro ogni tanto gli osservava la faccia pallida abbandonata sul petto, e intanto pensava che era meglio tentare di passare dietro Traversetolo. Sulle colline verdi e grigie le case avevano l’aspetto di chiare cappelle sepolcrali e il cielo splendeva di neutralità per tutto ciò che era accaduto. La motocicletta correva nera e mostruosa con le sue memorie di battaglie lontane. Il prigioniero sembrava un grosso fantoccio disarticolato nel vuoto della rassegnazione.

  In seguito, quando oltrepassata la linea di sicurezza ebbe consegnato al Comando di Brigata la macchina e l’ufficiale, Afro, dimenticando del tutto la sua avventura, si accalorò a discutere con William sull’opportunità di mandare più spesso pattuglie a perlustrare la pedemontana. Quei due tedeschi apparsigli cosììimprovvisi sul viottolo rappresentavano per lui un evidente segno di trascuratezza da parte del Comando. William gli dette ragione e Afro tornò nella casa di Teresa.

 

  Il giorno dopo Michael Tyler poté rinchiudersi nella sua stanza-ufficio con l’ufficiale tedesco.

  L’inglese non tornò a cercare Afro per ringraziarlo. Lince disse che ciò era prevedibile e che faceva parte della mentalità degli inglesi in genere e passarono giorni quieti nella casa sul Termina. Poi arrivò l’ordine di spostarsi sul monte Fuso e Teresa regalò ad Afro un grosso paio di calze.

  Altri episodi intanto accadevano agli sbocchi delle vallate nella zona presidiata dalla 47ª di cui tre distaccamenti, guidati da Max, occuparono di sorpresa Traversetolo. Fu questa una impresa che presentò aspetti curiosi e Max diede prova di avere delle qualità perfidamente tattiche.

  Escogitò lo stratagemma di far correre intorno al paese una pattuglia di cinque uomini i quali avevano soltanto il compito di sparare a caso e gridare come forsennati. Il grosso intanto si divise in due gruppi che aspettarono l’ora convenuta acquattati all’imbocco delle due strade che portavano alla piazza. Max diede il via alla pattuglia alle 10,30 dopo averla condotta sul punto di partenza. Osservò scattare i cinque indemoniati che sparavano tenendo sollevate le armi come ceri da chiesa, poi ridendo corse presso gli altri, dove Spumino stava concertando con Gim l’azione per circondare la caserma. Gli spari e le grida si arrestarono e per un momento Max sospettò che ciò fosse dipeso dall’intervento dei fascisti. Diede allora l’ordine d’assalto e i due gruppi, una ventina di partigiani ciascuno, a loro volta urlando e sparando raggiunsero la piazza, tornarono a dividersi accostandosi ai muri, mentre in ogni casa si chiudevano imposte e usci. Circondarono la caserma e di colpo, come Max aveva prestabilito, si arrestarono, le armi imbracciate, immobili come peoni vittoriosi che aspettassero l’umiliante uscita dell’haciendero crudele.

  Udirono riecheggiare gli spari e le grida della pattuglia a sud del paese. Spumino sorrise perché capiva che ormai era un diversivo superfluo e quelli che stavano dietro le imposte della caserma, sentiva di non potersi sbagliare, non avevano alcuna voglia di resistere.

  Le intuizioni di Spumino si erano sempre avverate e se poi, nell’inverno seguente, per averne sbagliata una egli cadde fucilato sulla via Emilia tra mucchi di neve sporca e prima di cadere trovò la forza di sputare contro chi gli sparava e per questo un tedesco, dopo, mentre ancora respirava, gli conficcò la baionetta negli occhi sbarrati, questo fa parte della fatalità, che sa aspettare il suo turno come nessun uomo ha mai saputo fare.

  La caserma fu occupata con brevi, tranquille manovre. Spumino vi trovò dignitoso e impassibile anche un capitano medico tedesco. I tre distaccamenti, incolonnati i prigionieri, tornarono da dove erano partiti e Max fece tutta la strada pensando al ponte sotto Provazzano, che era un maledetto ponte su cui potevano passare i carri armati e che bisognava far saltare.

  Lo fece saltare due giorni dopo, tra le timide proteste dei contadini che avevano i campi intorno e a loro quel ponte serviva per far passare i carri agricoli. Con la sua voce cantilenante Max rispose quattro o cinque parole che a quelli parvero piuttosto strane, aspettò che i suoi due dinamitardi risalissero dalla scarpata, fece un cenno distratto a chi stava sulla strada e i contadini si accucciarono. Per Max fu uno scoppio molto divertente.

  Due settimane dopo i tedeschi lasciarono le autoblindo lungo la strada, passarono il greto del torrente a monte del ponte rotto e s’imbatterono in due vecchi contadini, alle prime case di Provazzano. I due vecchi fecero un timido saluto con la testa. Il sergente che guidava l’avanguardia della colonna sorrise e loro videro i soldati inoltrarsi tra le case, prima lentamente, come cercassero acqua da bere, poi, a un urlo del sergente, saltare da un muro all’altro. I due vecchi udirono gli spari tagliare secchi l’aria estiva, poi le grida delle donne dentro le case e quando cercarono di capire cosa stava accadendo, un tedesco fu dietro di loro ed essi prima di cadere si guardarono e insieme sentirono sulla schiena la stessa cosa vasta e rovente, come una frustata di ferro.

  Il sergente che aveva sorriso aveva il viso bianco e sorrise ancora quando furono uccisi altri due contadini che stavano nella stalla, sotto il fieno della mangiatoia. Egli lasciò la sua immagine nella memoria degli abitanti di Provazzano, di Neviano, di Lupazzano, di Lodrignano; la lasciò bianca, esangue, sottile, col ciuffo dei capelli che gli scendeva sugli occhi privi di luce, la pistola serrata nella molle mano femminea, con la fibbia della cintura su cui era inciso «Gott mit uns».

  Era la mattina del due di luglio e dalla pedemontana alle pendici del Sillara, lungo le vallate dell’Enza e del Cedra, sulle colline, dentro le gole delle montagne e sui crinali, la zona presidiata dalla 47ª fu percorsa da una ventata di ferocia che durò sette giorni.

  I distaccamenti si difesero, si divisero, combatterono a gruppi isolati, ciascuno come gli era possibile, con allucinata disperazione, con le SS della «Hermann Goering» che aveva tanti altri sergenti che uccidevano e impiccavano sorridendo. Sulla sinistra della 47ª, la «Giustizia e Libertà» tenne duro per due giorni, poi i suoi distaccamenti si divisero anch’essi in piccoli gruppi e ognuno seppe difendersi prima di cercare la salvezza di fronte all’enorme superiorità numerica dei tedeschi. Anche la 12ª investita da tutti i lati combatté sparsa tra le siepi e le mulattiere del Caio e tenne duro per tre lunghissimi giorni.

  I sergenti della «Hermann», per sette giorni, col sole che riempiva anonimo il cielo e ogni cosa alla sua ferma luce di ferro strideva e un grido subito si spezzava e non si udiva alcun volo di uccello né il fruscio di una lucertola, con le montagne lucide e immote e gli alberi, ombre di granito sui dirupi, il metallo ardente nell’acqua del greto e l’aria orrendamente vuota, i sergenti della «Goering» fecero comodamente quello che si sentivano liberamente di fare per ordini ricevuti, per gusto di razzia e di ferocia, e lo fecero anche nella notte, coi loro pallidi soldati dalla pelle liscia di donna.

  Bruciarono case, impiccarono uomini, scagliarono il terrore sugli occhi dei bambini, e donne e bambini, con gli stessi occhi, immobili guardarono i distruttori tornare verso la pianura, con quelle tre parole incise sulla fibbia del cinturone.

  Per due giorni fu solo silenzio sopra le case, tra le ceneri nere e i cadaveri che penzolavano come rigonfi d’acqua azzurra. Sulle strade deserte e sui pendii, sull’erba dei prati e sugli alberi dove era solita passare l’ombra delle nuvole, non restava che l’impronta, vasta come la luce, di ciò che era accaduto.

 

  II primo distaccamento a riunirsi fu il «Buraldi»; poi il «Don Pasquino». Il «Griffith» stava scendendo dal monte Fuso e Max, col battaglione che aveva combattuto tra Lodrignano e Ceretolo, cercò William e lo trovò a Monchio di Sasso e insieme con Lupo e Spumino convennero sulla necessità di una riunione e mandarono staffette ai reparti sparsi nelle vallate.

 Nel convegno, presieduto da Ilio, si stese una relazione sulle fasi del rastrellamento, si elencarono le perdite, e tutto si svolse in una pulita stanza che odorava di frumento. Ognuno dei convenuti discuteva con tono neutro e William guardava tutti col suo sguardo asciutto e puntava ogni tanto il grosso dito sulla carta geografica. Ilio parlò a lungo, rilevò i difetti dello spiegamento tenuto sino allora dalla brigata e propose una maggiore elasticità nei reparti. Ivan, che da poco comandava la 47ª, acconsentì e William, rivolgendosi a Lupo, che coi suoi uomini stava sul versante dell’Enza, disse che ogni distaccamento doveva mantenere la propria autonomia.

  La discussione si animò. Dalla finestra si vedevano le case bruciate sulle colline e veniva dalla stanza attigua un rumore di ciabatte e il frignare di un bambino. William parlava con voce aspra, con pause piene di silenzi aggressivi, ma Ilio seppe acquietarlo e uscirono insieme per discutere, dietro la casa.

  A sera una pattuglia partì per portare la relazione al Comando Unico, che doveva trovarsi nell’alta valle del Parma. Cominciarono intanto a pervenire notizie delle altre brigate. Ciascuna aveva avuto i suoi morti e ancora non si poteva fare di essi un conto preciso, perché molti partigiani risultavano dispersi e tante altre cose occorreva subito fare per rianimare i distaccamenti.

  Afro, di cui nessuno sapeva dire dove fosse, ricomparve con due uomini che si guardavano intorno rapidi e assenti. Avevano i piedi nudi, le mani legate dietro la schiena. Uno aveva piccoli baffi teneri sulle labbra grigie e guardò William con aria curiosamente ardita, come volesse salutarlo.

  Afro li consegnò ai due partigiani che stavano sulla porta ed entrò nella casa, seguito da William. Tornarono fuori dopo alcuni minuti e William osservò di sotto la tesa del cappello il prigioniero dai baffi che fissava quasi sorridente gli occhi nell’aria. L’altro invece aveva piegato la testa e pareva dormisse, con lievi sussulti. William andava chiedendosi dove poteva aver già visto quello dai baffi e andava su e giù davanti la casa dove gli altri aspettavano, osservandolo, e intorno non si udiva volare una mosca.

  Il prigioniero dai baffi continuava, a tenere gli occhi nel vuoto. Non era un sorriso quello che gli stava nella fessura della bocca e solo di lontano sembrava che lo fosse. I suoi piedi erano piccoli e bianchi; inducevano ad immaginare un corpo femmineo, e tra i capelli luccicavano fili di sudore.

  William si volse di scatto e lo guardò obliquo col cappello che gli ombrava la faccia. Gli camminò contro adagio. – Tu sei di Reggio, – gli disse. L’altro non rispose e guardò oltre la spalla di William. – Tu eri alle Reggiane. Eri nell’ufficio progetti -. William parlava adagio e leggero come seguisse minuziosamente un ricordo. – Dopo l’otto settembre volevi mandare tutti in Germania -. Il prigioniero batté un attimo le ciglia e il suo sguardo riapparve dentro una molle luce giallastra. – Eri alle Reggiane. E ti chiami Cerruti, – ripete William. L’altro guardava verso le colline, una cosa vaga dietro altre cose che non potevano più esistere per lui che aveva guidato i tedeschi e che odiava, odiava col freddo tremore dell’odio, quelli che «erano scappati sulle montagne», ed era un odio nato da nessuna ragione umana, vuoto, anonimo, un oscuro male che gli stava come un’ombra sotto la pelle.

  Guardava coi suoi piccoli occhi scuri da ballerino e quando William gli andò più vicino, tanto da sentirne il sano tepore, agitò appena le spalle. – Ti chiami Cerruti. Ora ricordo. Perché hai guidato i tedeschi? – La voce di William passava fredda nello spazio che lo separava dal prigioniero e non si udiva intorno alcun altro rumore. – Sei un porco, – disse. – Un brutto porco.

  Verso sera arrivarono Franz e Franci. Il vicecommissario Franci disse a William che Tyler desiderava interrogare i prigionieri. – È meglio mandarglieli, – disse con calma. William andava su e giù nella stanza che odorava di muffa e Afro puliva lo sten smontato. Gli altri stavano fuori e avevano fatto sedere i due prigionieri contro il muro e Lince li sorvegliava e ogni tanto osservava i piccoli piedi di Cerruti.

  – Cosa vuole insomma questo inglese? Cosa crede di essere? – scattò improvvisamente William. – Non arrabbiarti. Lo sai che deve essere così, – intervenne Franci. – Eppoi devono essere processati regolarmente. Lo sai -. William si fermò e si mise a guardare Afro. – Di’ un po’, tu. Cosa ne dici? – Afro fece un gesto vago tenendo la testa piegata verso il tavolo dove luccicava l’arma bagnata di petrolio. – Comincia a rompermi i coglioni, questo Michele, – riprese William. – E voi sembrate dei cagnolini, con lui. Ma che razza di partigiani siete. Quello là, – incalzò segnando col capo verso la porta, – è uno schifoso maiale che ha fatto deportare centinaia di uomini. Ed è uno della brigata nera e ha guidato i tedeschi… – Franci gli andò vicino, l’onesta faccia grave. – Calmati William. Lo sai che bisogna fare così, – ripeté con dolcezza. Afro asciugava la canna dello sten, curvo sul tavolo. William uscì, senza dire niente. Lo sentirono andar giù per la strada, lento, deciso, e capirono che non sarebbe ritornato.

Quando lo fecero alzare per caricarlo sul camioncino, Cerruti chiese di riavere le scarpe e il suo compagno lo guardò con aria perplessa. Anche Lince lo guardò, di scatto, impallidendo. Gli si mise davanti e continuò a fissarlo in silenzio e il prigioniero, eretto nel suo vestito di shantung che metteva in rilievo le gambe nervose e sottili, tenne gli occhi immobili. – Vuoi le scarpe, – scandì piano Lince, sollevando lentamente lo sten. – Vuoi le scarpe, eh!

  Ora l’arma era orizzontale e faceva parte dell’ira. L’uomo dai baffi pareva tendervi contro il ventre. Fu Afro, apparso sulla porta, ad accorgersi di ciò che stava per accadere, perché gli altri stavano dietro il camioncino con l’altro prigioniero, di cui si sentivano le parole mozze e quiete come parlasse tra sé. Con una spallata colpì Lince e lo fece cadere.

  L’aiutò a rialzarsi senza dire niente e Lince si drizzò tornando a guardare Cerruti che era rimasto immobile, cereo con le sue lunghe ciglia femminee. Franci s’era messo vicino a Lince e ogni cosa intorno pareva deformarsi e dissolversi nel silenzio. Lince si volse, mise i suoi occhi limpidi contro quelli del prigioniero e, lentamente, gli sputò due volte sulla faccia. – Prendi. Queste sono le scarpe.

  Quella sera Afro evitò di parlare con Lince e la notte non dormì. Dalla stalla aperta vedeva sui crinali più tenue l’oscurità e l’ombra di un albero sul prato sotto la luna. La stalla era vuota e le ragnatele sui finestrini gli ricordarono i piccoli occhi vellutati di Cerruti. Ricordò l’ira di Lince e come avesse saputo trattenersi dallo sparare contro il ventre del prigioniero. «Forse era meglio che lo avessi lasciato fare», pensò. Udì dei passi sull’aia, poi la massaia che si aggirava al piano di sopra, il lamento di un bambino. «Dovevo lasciarlo fare. E anche William ha ragione…», continuò a pensare, sino all’alba.

  Quando fu l’alba andò a svegliare Lince e senza parlare partirono. Camminarono tutto il mattino ciascuno ai bordi della strada e ciascuno pensando a quello che era accaduto, a quel Cerruti che avrebbe trovato la maniera di cavarsela parlando con Michael Tyler. Camminarono tutto il pomeriggio, videro case bruciate e la gente che non li guardava mentre loro passavano e non si fermarono per chiedere acqua o un pezzo di pane. Sentivano di essere guardati come dei colpevoli perché sapevano che gran parte della gente vedeva nei partigiani la causa dei rastrellamenti ed era stato così sino dai primi giorni ed ora c’erano tutte quelle case bruciate e le stalle vuote ed era difficile far capire a quella gente perché era nato il movimento partigiano.

  Sotto la salita di Mossale, Lince si fermò e Afro, dopo alcuni passi, si volse e vide il compagno sedere sul ciglio della strada. Tornò indietro e gli sedette accanto. – Sei stanco? – Lince cavò la scatola del tabacco e vi grattò dentro con l’indice, senza rispondere.

  – To’, prendi, – disse Afro allungandogli una Raleigh. – Te le ha date Michele? – chiese improvviso Lince. – Sì. Perché? – Aveva avvertito nella voce del compagno un accento provocatorio. – Perché? Non posso accettare sigarette dall’inglese? – ripeté, tranquillo. – Lascia perdere. Pensa ad altro.

  Su dal campo sottostante, tra le spighe basse del grano saliva un vecchio. Pareva osservasse una per una le spighe e aveva un’aria stranamente distratta, da sordo. Quando fu a pochi passi si eresse un poco fermandosi e guardò i due partigiani in silenzio, poi riprese a salire e come arrivò sotto la strada si volse e disse: – Stenta a diventare maturo. E ce n’è poco quest’anno -. Poi scosse adagio la testa e sorrise. Aveva sottili capelli lucenti sulla nuca tagliata da rughe nere.

  – È vostro? – gli chiese Afro. – Sì. Ne ho un altro più giù, vicino al fosso. Tre biolche in tutto, – rispose, e aveva la voce rauca e stanca. Sedette e continuò a guardare il campo. Al di là della siepe si udiva il suono dell’acqua sui sassi.

  – Come è stato qui? – chiese Afro senza guardarlo. Il vecchio si scosse, portò lo sguardo sul fondo dell’avvallamento, dove spuntavano i tetti di due case e dietro c’era un gruppo di frassini. – Figliolo, – disse. – È stata una cosa brutta. Molto brutta in quelle case là -. Il fumo azzurro della Raleigh spandeva un lieve profumo stordente. – Cosa hanno fatto? – chiese Lince senza guardare il vecchio.

  Lui chinò il capo e raccolse uno stecco. Pareva più piccolo e più gracile nella calma luce del sole. – Cosa hanno fatto? – ripeté Lince, quasi con violenza. Afro gli fece cenno di stare quieto e il vecchio vedendolo sorrise con la sua aria amara, stranamente distratto. – Figliolo. Hanno fatto di tutto. Quello che hanno fatto dalle altre parti -. Gettò via lo stecco. Ora stava con le braccia appoggiate sulle magre cosce e pareva raccontasse di una cosa lontana nel tempo.

  – Sono arrivati di mattina presto. Li vidi nella strada e si fermarono davanti al viottolo che mena giù alle case. Quelle là che vedete. Io stavo in mezzo a questo campo e vidi i primi due della fila che parlavano, e poi uno infilò il viottolo e gli altri restarono sulla strada. Capii che erano tedeschi, ma non avevo paura e attraversai il campo e quando fui a pochi metri dalle case vidi quello che era andato giù solo parlare con la Lisa che aveva il bambino in braccio. Mi fermai dietro la legnaia e udii il tedesco dire «uomo tuo» e la Lisa rispondere che suo marito era andato via il giorno prima. Poi, dopo essersi guardato intorno, lo vidi che tornava verso il viottolo e poi gridò delle parole e allora vennero giù anche gli altri.

  Il vecchio si fermò e riprese lo stecco. Guardò i due partigiani, poi ancora le case. Riprese a parlare con la sua voce da convalescente, più affannata ora. – Entrarono in casa ed io sentii che spostavano dei mobili e quello che era venuto giù solo gridava ogni tanto delle parole e poi sentii la Lisa che urlava. «No. No. Lui non è partigiano. Lui buono». Mi spostai sotto quegli alberi, dietro la siepe del fosso. In quel momento due tedeschi trascinarono fuori Tonino, il marito della Lisa, che si era nascosto dietro i sacchi della farina, sotto la scala che porta alla camera da letto. Lo portarono al centro dell’aia e poi dalla finestra della camera si sporse un tedesco tendendo un fucile da caccia e la cartucciera piena di cartucce. Rideva agitandola e Tonino scuoteva la testa pallido come un morto. «Non partigiano. Non partigiano», diceva e si mise in ginocchio piangendo. Quello che era venuto giù da solo lo colpì con un calcio e Tonino cadde e restò immobile. Gli altri tenevano stretta la Lisa, dentro la casa, e io udivo i suoi urli e il bambino che piangeva. Anch’io tremavo e non riuscivo a muovermi, e scivolai nell’acqua. Avevo i piedi nell’acqua e mi stesi sull’erba. Sentivo come voglia di dormire e mi pareva di non avere più la testa.

  Si fermò ancora. La sua mano reggeva inerte lo stecco. Il vecchio fissava distratto tra le spighe. – Udii due o tre colpi, poi un urlo terribile. L’ho ancora qui, – disse toccandosi il petto con lo stecco.

Si volse verso Afro, poi guardò verso i tetti. I suoi capelli luccicarono esili sopra le rughe nere della nuca, – Gli spararono addosso, mentre era ancora svenuto per quel calcio al ventre. Poi bruciarono il fienile e portarono via le vacche e il maiale. Sulla strada erano intanto arrivati dei camion. E uccisero il cane, – terminò, – anche il cane…

  Si rialzò e ritornò nel campo. Si volse un poco di traverso e fece un saluto lieve con la mano, poi curvandosi accarezzò timidamente le spighe, sotto il sole a picco.

  – Andiamo, – disse Afro. – Andiamo via -. Lince si mosse lentamente, lo sguardo verso le case. Ripresero il cammino senza più guardare verso il campo, come avessero il timore di rivedere il vecchio. La strada era dura e bianca nella vampa estiva. E Afro pensava a quello che avrebbe potuto fare nella pianura, con Lince al suo fianco. E pensava che avrebbero fatto qualsiasi cosa, ricordando il racconto del vecchio.

 

  Quell’anno, settembre dischiuse una tenera luce celeste e nei primi giorni grandi nuvole bianche passarono alte sulle vallate dirette al mare. I montanari dicevano che da molto tempo non si era visto un mese con l’aria così chiara, i pascoli sotto i valichi non avevano mai avuto l’erba così buona, e pensavano alle bestie razziate. Dalla Lunigiana, per le mulattiere di Comano, venivano ogni tanto uomini dalla grossa giacca di velluto per scambiare formaggio pecorino con un po’ di farina. Portavano notizie vaghe sulla linea del fronte che correva lungo la pedemontana, al di là delle Apuane, tra le cui gole operavano altre formazioni partigiane. Un giorno, frammentarie, arrivarono notizie sugli eccidi di Sant’Anna e di Vinca e un pastore che veniva di là raccontò di un certo Reader, un maggiore tedesco alto e magro, che aveva la mano destra inerte e rigida dentro un guanto nero.

  Guidava personalmente i suoi distruttori, precedendoli su per le mulattiere, silenzioso, con la visiera del berretto che gli copriva gli occhi. Nella piazzetta di Vinca si era messo sulla scalinata della chiesa per dirigere il massacro, la mano nera infilata tra i bottoni della giacca, alto e immobile, come sull’attenti, mentre intorno i suoi biondi soldati, le maniche rimboccate e lo sguardo come velato di polvere azzurrina, sparavano sugli uomini, sulle donne e sui bambini addossati ai muri delle case, e nessuno gridava, perché il terrore aveva già ucciso il loro cuore e solo gli occhi sopravvivevano spalancati contro la figura del maggiore ritta davanti la chiesa.

  Il pastore raccontava come di un fatto ormai lontano, avvenuto in chissà quale giorno, e andava di casa in casa per riempire il suo sacchetto di farina. Ripeté il racconto anche a Charles Holland, nella canonica di Monchio, dove in settembre stava la Missione Alleata. Holland interrogò a lungo il pastore chiedendogli molti particolari sulla persona di quel Reader e trascrisse tutto con cura sul taccuino.

  Dall’agosto, la 47ª aveva cominciato a ricostituire i suoi reparti affidandosi ai criteri più razionali della mobilità manovriera e della aggressività capillare. Fu adottato un nuovo sistema di collegamenti e di sorveglianza, i distaccamenti cominciarono ad agire con quell’autonomia che permetteva di ingannare con continui e rapidi spostamenti lo spionaggio nemico e scomparvero le squadre che sino allora avevano operato per loro conto, guidate solo dall’istinto e dall’ardore. I comandi dei battaglioni assunsero una maggiore autorità, le azioni poterono essere sviluppate su larga scala, si crearono servizi di intendenza, di sanità, di controspionaggio e un Tribunale militare.

  La Brigata aveva preso un aspetto robusto e consapevole, fu nominato un Capo di Stato Maggiore e la scelta cadde all’unanimità su Nardo, che era un ufficiale dell’esercito e aveva tutte le qualità per guidare i guerriglieri nel modo migliore che si potesse desiderare.

  Nardo era un giovanotto serio e tranquillo che aveva combattuto al fronte meritandosi una promozione per meriti di guerra, ma per i partigiani della 47ª egli rappresentava la serenità al servizio del risultato e nessuno mai gli chiese quali fossero le sue idee politiche. Egli, cresciuto in un ambiente dalle strette osservanze militari, mostrava grande simpatia per i ragazzi saliti dalla città accesi di furore classista. Ne aveva subito afferrata la sincerità sotto il burrascoso temperamento, e si era messo a iniziarli con molto tatto alla disciplina e loro, a poco a poco, scostandosi da una congeniale diffidenza, lo seguirono e da lui impararono ad obbedire e a distinguere i risultati del buon senso da quelli dell’anarchia.

  Erano ragazzi rudi e schietti, qualche volta la loro schiettezza si manifestava troppo sbrigativa, e per questo essi erano guardati con timore dalla gente dei paesi dove sostavano. Questo dipendeva anche dal modo come essi chiedevano del pane, o un fiasco di vino o un pezzo di burro, e, in gran parte, da come ritenevano ingiusto che un fascista del luogo potesse circolare tranquillo con la sua segreta aria di speranze inconfessabili.

  Il «Griffith» era formato dai più decisi e silenziosi di questi ragazzi e li comandava Corrado, un tipo che non scherzava mai e che prima di concedersi la più piccola delle poche cose voluttuarie che era possibile ottenere si preoccupava che tutti l’avessero ottenuta. Il «Griffith» fu sempre all’altezza delle situazioni più gravi, combatté sempre con valore e spesso col freddo furore che gli veniva dalla sua struttura proletaria, e fece tutto questo senza curarsi troppo di quello che andava sospettando il maggiore Charles Holland, il quale vide sempre nel «Griffith» e nel suo comandante «uno dei pericolosi risultati della propaganda comunista».

  Nardo invece vide e capì altre cose e altri aspetti in quei ragazzi e capì che in tutta la 47ª c’era lo stesso spirito del «Griffith»; un grande desiderio di poter essere una brigata inimitabile.

  Il primo segno di questo desiderio fu la salda coordinazione tra i reparti e il loro reciproco rispetto per le diverse opinioni politiche. Il secondo, tra tanti altri minori che qua e là vennero alla luce per un residuo di personale intraprendenza, fu il combattimento sostenuto dal 3º Battaglione, affiancato dal distaccamento «Cosacco» della Brigata «Giustizia e Libertà», che presidiava il versante destro del torrente Parma.

  Alle prime ore del 25 agosto era giunta la notizia che centocinquanta tra tedeschi e fascisti, assalito e distrutto l’esiguo posto di blocco di Torrechiara, stavano entrando in Langhirano. Il Comando della 47ª ordinava ai distaccamenti «Pontirol» e «Griffith», che presidiavano le coste di Urzano, di attaccare il nemico prima che esso riuscisse ad attestarsi in un punto strategico della vallata.

  Le due formazioni, munite solo di armi leggere, con marcia forzata e suddivisi in gruppi di cinque uomini, seguirono la riva cespugliosa del torrente e verso mezzogiorno si unirono a quelli del «Cosacco», che era sceso dal versante di Beduzzo. Dopo un rapido consiglio tra i comandanti si stabilì la manovra d’attacco. L’impresa era più disperata che difficile, i tedeschi avevano occupato il paese e avevano il vantaggio del numero, delle mitragliere, e delle autoblindo.

  Il « Griffith» fu il primo a portarsi sotto le case del paese e, sotto le raffiche intermittenti delle mitragliatrici tedesche, ciascun uomo cercò riparo come gli riuscì di trovare e rispose al fuoco senza preoccuparsi di poter essere colpito.

  Tutto il pomeriggio e nella sera, col pallido chiarore del greto che svaniva verso la pianura, quelli del «Griffith», del «Pontirol», del «Cosacco», settanta uomini armati solo di sten, di Mauser e di moschetti, rimasero aggrappati sotto la riva, sotto il fuoco ininterrotto e lineare delle mitragliere, ognuno solo con la propria solitudine disperata, invocando l’oscurità.

  I tedeschi e i fascisti, temendo il sopraggiungere di altri distaccamenti, abbandonarono il paese, spararono le loro ultime raffiche dalle autoblindo, poi si udì il rombo dei motori sulla strada e sorse la luna.

  I partigiani ripresero la via del ritorno lungo i sentieri tra le brevi ombre delle siepi. E poi fu la notte ancora nelle vallate, con le case bianche nel silenzio, e solo si udirono i passi lenti e disuguali del «Griffith», del «Pontirol» e del «Cosacco», sino all’alba.

  Da quel combattimento il comando di brigata trasse la certezza che i reparti avevano raggiunto un sufficiente grado di disciplina e rafforzato lo spirito di aggressività. In una riunione a Sasso di Neviano, il comandante Ivan, il vicecomandante William, il commissario Ilio e il vice commissario Franci, ascoltarono da Nardo una relazione sul dispiegamento e sull’efficienza dei distaccamenti e tracciarono la nuova delimitazione del territorio che la 47ª per ordine del Comando Unico doveva presidiare. Esso andava dalla pedemontana al valico di Lagastrello e, ai lati, dall’Enza alla vallata del Parma, sino ai costoni del Caio. Era un territorio percorso da molte strade e, per la sua dispersa configurazione, di assai difficile controllo.

  Discutendo di queste difficoltà, William propose di concedere la vecchia autonomia ad alcune squadre, ma Nardo gli dimostrò che ciò poteva in seguito riportare tra gli uomini quello spirito di iniziativa troppo personale che, se nei mesi iniziali del movimento aveva dato buoni frutti, ora avrebbe invece presentato temibili aspetti di indipendenza e riacceso certe divergenze politiche. Ilio fu d’accordo con Nardo, Franci completò l’opera di persuasione e Ivan prestabilì i nuovi presidi.

  La 47ª era diventata una formazione equilibrata, forte di oltre cinquecento uomini suddivisi in tre battaglioni, i quali avevano gregari combattivi e comandanti audaci. Tuttavia, per una necessità marginale ed anche perché il loro temperamento richiedeva uno speciale e graduale assorbimento nella stesura militare, alcuni guerriglieri ottennero di operare per conto loro a ridosso delle linee nemiche.

  Essi avevano combattuto in città, isolatamente, ciascuno con la propria audacia, e avevano sparso la paura tra i fascisti che avevano il compito di arrestare e torturare le persone sospette. Corrado, Pilade, Vezio, Bulén, nomi che si affiancavano ad azioni spericolate, che correvano sulla bocca di tutti, segretamente, tra i borghi proletari; nomi che rappresentavano la ribellione taciturna, clandestina, tenace, e che simboleggiavano i giorni del ’22, quando dalle vie disselciate altri uomini, guidati da Guido Picelli, avevano umiliato la tracotanza delle squadre fasciste calate da ogni parte per occupare Parma.

  Verso la metà di settembre il Comando della 47ª si trasferì a Campora, un paese che trovandosi al centro della zona presidiata offriva una visuale strategica rassicurante. Il distaccamento «Griffith» si insediò a un tiro di schioppo, in una grande casa da cui si poteva controllare per un lungo tratto la Val Toccana e la costa di Lupazzano. C’erano stati alcuni scontri isolati nella pedemontana e a Provazzano era avvenuto un proficuo scambio di prigionieri: quindici partigiani per quell’ufficiale catturato tre mesi prima da Afro.

  Lo scambio si svolse con una certa solennità da parte dei tedeschi, che si presentarono al ponte rotto con una grossa auto grigia su cui sventolava un grande fazzoletto di seta bianca. Il prigioniero attraversò il greto scendendo con difficoltà il ripido sentiero e quando raggiunse la riva opposta si erse sul ciglio per riassumere la sua vecchia aria teutonica, ma c’era qualcosa nella sua larga faccia che denunciava una certa aria di preoccupazione. Egli guardò i partigiani schierati di là del ponte, poi lasciò scorrere lentamente gli occhi sui crinali e sui cirri che veleggiavano freschi nel cielo. A qualcuno parve che lo avesse fatto con un senso di rammarico e lo seguirono con ironica simpatia mentre si dirigeva verso gli ufficiali rigidi e gravi ai lati dell’auto.

  Il giorno dopo Max e Spumino penetravano inosservati in Traversetolo. Mancava poco a mezzogiorno, le strade erano tranquille con l’ombra azzurra lungo le case. I due partigiani avanzarono per quell’ombra e arrivarono dietro un autocarro carico di farina fermo davanti al Consorzio Agrario. Due soldati tedeschi stavano nella cabina, altri tre sulla porta del fabbricato.

  Max e Spumino non si scambiarono una sola parola. Erano abbastanza affiatati per fare cose del genere, bastava scambiarsi un’occhiata. Salirono sulla cabina puntando lo sten sui due soldati, che lì per lì non si resero conto di quanto stava accadendo. Quando lo capirono era troppo tardi e restarono immobili, mentre Max si metteva al volante. L’autocarro girò lento e massiccio davanti a quelli che stavano sulla porta, i quali, a loro volta, quando si resero conto di ciò che avveniva, non poterono che sparare con rabbia contro i sacchi. L’autocarro correva ormai a pieno motore sulla strada che portava agli avamposti della 47ª.

  Per ordine di Ilio il carico fu distribuito fra gli indigenti della zona e Cesare ne inviò gran parte al paese di Rusino, che era stato interamente distrutto durante il rastrellamento di luglio.

  Michael Tyler, che in quei giorni, con la sua sorridente faccia rossa, capitava spesso al comando, cavò fuori parole di elogio e, senza che lui glielo chiedesse, promise a Ilio di riferire il fatto a Charles Holland, il quale teneva molto ai buoni rapporti con la popolazione. Ilio gli rispose, come faceva di solito in tali occasioni, con una occhiata estranea di sotto le nere sopracciglia.

 

  Nella trama psicologica che sorreggeva la vita della Brigata, Ilio, osservato con quella obiettività che qualche volta scalza opportunamente la diffidenza, poteva essere considerato un infaticabile rigeneratore di idee, di astuzia e di orgoglio. Intelligente, vivace, la liscia fronte intellettuale sotto una massa di capelli corvini, gli occhi tondi dall’acutezza sinuosa e la parola che rappresentava sempre una sintesi precisa, egli muoveva i fili di quel complicato organismo che era la 47ª, obbedendo con eguale misura alla sua responsabilità di commissario e alla sua fede di comunista.

  Molti lo temevano per le sue maniere sbrigative nel decidere certi casi e nelle altre brigate passava per un tipo animato da fanatismo politico, ma egli non si curò mai troppo di quelle voci e continuò a lavorare sodo per rendere sempre più efficiente la 47ª. Il capitano Tyler lo rispettava nella giusta proporzione concessa dalle diverse opinioni politiche e quando arrivò Charles Holland fece da intermediario, con sottile astuzia, tra la superba riservatezza del Maggiore e la passionale intraprendenza del commissario.

  A Campora il Comando poté anche dedicarsi a opere di «ripulimento» nel territorio presidiato. Tyler faceva pressione affinché fossero completate entro un breve periodo di tempo, perché gli pervenivano continuamente segnalazioni di azioni brigantesche compiute da ignoti, i quali si spacciavano per guerriglieri seminando giustificati timori e diffidenza nella popolazione.

  William era furente per questo dilagare di misfatti e ottenne il permesso di agire personalmente, con una squadra composta in gran parte di elementi del «Don Pasquino». Intanto era stata circoscritta la zona in cui frequentemente avvenivano gli atti di brigantaggio e una sera, verso la fine di settembre, furono sorpresi e arrestati i colpevoli: sette giovanotti che ritenendosi estranei alla lotta per la libertà si erano presa quella di irrompere mascherati nelle case per depredarne gli abitanti. Ideatore e capo della banda era un maestro elementare, ex ufficiale dell’esercito, un tipo dall’aria innocua, che portava stivaloni rigidi e un panciotto a fiorellini.

  L’arresto fu regolarmente segnalato al Comando di Brigata e a Michael Tyler. Il processo avvenne in una stalla di Mulazzano e il parroco diede gli estremi conforti al maestro che, dopo aver implorato clemenza, parve prepararsi con paziente vigore al momento supremo. Gli altri, tenuto conto della giovanissima età, furono inviati nelle retrovie, sotto la sorveglianza del Tribunale militare.

  Ma il condannato non riuscì a morire con molta dignità. Il plotone di esecuzione lo condusse al posto prescelto, dietro il paese, alle dieci di sera. La scena era illuminata da due lanterne a petrolio; il prete, dopo aver data l’assoluzione, si allontanò lento verso il margine del prato e contro la siepe, lambita dall’alone rossastro delle lampade, rimase sola la figura sfrangiata dell’ex maestro. Dalla giacca aperta spuntava, irrimediabilmente anacronistico, il panciotto a fiorellini.

  Per un momento il condannato parve umile e consapevole delle sue colpe e tra i partigiani pronti a sparare calò fredda l’angoscia per quanto erano costretti a fare. Le fiammelle oscillavano dentro i vetri polverosi, più cupa pareva la notte e di là dei campi più neutrale il silenzio. Il maestro stava immobile, la testa piegata sulla spalla. I partigiani sollevarono i fucili.

  Poi fu come se l’oscurità sollevandosi di colpo dal campo avesse scoperto uno scenario nuovo e imprevedibile. Contro la siepe, al posto del morituro non c’era ora che il senso astratto della sua presenza, una cavità orlata di luce rossa nel buio acquiescente.

  La disperata, fantastica fuga del condannato durò pochi secondi. Lo trovarono impigliato, a cavalcioni, sul filo spinato di una siepe, nel campo di sotto. Si torceva, le mani legate dietro la schiena, nell’ultimo tentativo di liberarsi da quell’ostacolo e il suo viso bianco e contratto pareva riflesso da uno specchio lunare. Gridò qualcosa dentro gli spari.

  L’esecuzione diffuse tra i contadini della zona un senso di pietà e di sollievo, e il capitano Tyler espresse il suo compiacimento, anche per conto del maggiore Holland. Disse che era stata una cosa necessaria, quanto lo era il combattere tedeschi e fascisti, ma usò un tono di voce che a William parve eccessivamente burocratico, in cui l’inglese pareva sottintendere una più vasta opera di risanamento.

  Tyler era arrivato al Comando inzuppato di pioggia ma la sua faccia sembrava ravvivata dalla felicità per la fresca camminata tra le amichevoli colline. Veniva da Tizzano, dove aveva presieduto una riunione dei comandanti della «Julia». Batté sull’uscio, come faceva sempre, e senza attendere risposta, entrò, con quel suo rapido ed elegante incedere da cui traspariva un’attenta, sospettosa curiosità.

  Seduti intorno al tavolo c’erano Ilio, Ivan e William. Dante, che stava infilando un foglio di carta nella macchina per scrivere, vide Tyler stagliarsi sulla soglia. – Olà, Michele! – esclamò allegramente. Gli altri sollevarono la testa e fecero un cenno di saluto. Poi William la riabbassò fingendo di leggere i fogli sparsi sul tavolo.

  Tyler non diede segno di aver avvertito quel gesto di freddezza e accentuò il sorriso, togliendosi con lenta e ampia manovra la mantellina cerata. Si avvicinò a Dante e mise con indifferenza gli occhi sui fogli che stavano a lato della macchina. – Rapporti? – chiese, distaccato.

Scrollando le spalle William rispose: – Sì. Rapporti personali. Per noi -. Teneva la testa piegata, come si preparasse ad altre risposte del genere. Tyler l’osservò un attimo e nel suo sguardo passò un lampo ostile. – Già. Personali, – disse allargando le parole. – Sì. Personali, – ripeté William imitandolo.

  Ivan allora si alzò e chiese a Tyler quando sarebbe avvenuta la riunione con Holland. – Presto, – rispose adagio Michele. – Presto. Appena il Maggiore potrà -. Si alzò anche Ilio, si mosse per la stanza con aria grave, in silenzio. – Questo Holland, da quando è arrivato non ha mai trovato un minuto per venire da noi, – scattò sollevando le braccia.

  Tyler rimase col sorriso fermo sulle labbra, ritto vicino alla macchina, guardando impersonalmente i tre partigiani. – Bene quella cosa di ieri, – disse con lentezza. Si riferiva all’esecuzione dell’ex maestro e continuò a parlarne con quel tono che non piaceva a William.

 

  Ivan, tranquillo, aspettava qualcosa che per l’atteggiamento del compagno doveva accadere da un momento all’altro e sentiva la voce dell’inglese risuonare liscia nella stanza. Sapeva che William voleva discutere con Tyler il ritardo dei lanci.

  Nell’ultimo ben poca roba era toccata alla 47ª, mentre Holland aveva inviato molte armi e vestiti alle brigate «sicure» e William non sopportava, e da qualche giorno ne parlava continuamente con ira, che la Missione Alleata insistesse su quella «stupida paura di armare i partigiani comunisti». Ivan aveva tentato di calmarlo, ma anche Ilio era dello stesso parere e William proprio non voleva saperne di star zitto alla prima buona occasione.

Ora l’occasione era venuta e il capitano stava lì con la sua faccia troppo sorridente e parlava troppo di quella brutta faccenda avvenuta a Mulazzano, e si capiva che non voleva discutere di altre cose, perché William le aveva tutte spianate improvvisamente sulla faccia contratta, dentro gli occhi socchiusi, nell’attesa che l’inglese dicesse con franchezza come quelle cose stavano nella realtà.

  – Cosa necessaria. Dolorosa ma necessaria… – continuava Tyler. La sua mantellina sgocciolando aveva formato una pozza scura sul pavimento. Ilio tornò al tavolo e riunì i fogli. – Michele! – interruppe William. – Diamo un taglio a questa storia. Parliamo invece dei lanci.

  Tyler tentò di proseguire, dopo una breve pausa in cui parve concentrarsi, ma William incalzò: – Ci occorrono armi. E anche vestiti -. Ilio, senza voltarsi, rise e Tyler lo udì. – Voi avete avuto lancio nel mese passato, – disse. – Già, – commentò Ilio, – bel lancio. Venti sten e scarpe spaiate! – William riprese: – La roba buona la date agli altri, no? È sempre così.

  – Io mandato messaggio nuovo. Verrà lancio per voi, – rispose Tyler con tono più conciliante. – Dite sempre così. Ci vogliono armi, e fate presto, – incalzò William. Parlava ad alta voce, con quel raspare tra le parole che la rendeva affannosa e un po’ inespressiva. – Sennò faremo per conto nostro. Dillo pure al maggiore Holland, – ribatté puntando un dito contro l’inglese.

  Ivan si mise lento e sereno tra Tyler e William. La sua snella figura spiccò nello spazio, attenuò la crudezza del silenzio che era seguito alle parole del compagno. – Calmatevi, – disse. – Tu, Michele, devi però dire a Holland che noi abbiamo veramente bisogno di armi… e di munizioni -. Tyler si chinò sui fogli e fece un vago cenno affermativo.

  La pioggia aveva ripreso a cadere con violenza, si udivano gli schiocchi sulle pietre dell’aia e il vento che muoveva le imposte. Dante cominciò a battere sulla tastiera e Ilio disse: – Scusaci Michele. Dobbiamo lavorare -. Tyler sorrise, andò a sedersi dietro il tavolo e cavato dalla giubba un taccuino segnò qualcosa lanciando a William una occhiata volutamente distratta.

  – Venti settembre. Una squadra del «Griffith», – cominciò a dettare Ilio, – sorprende un’autoblindo tedesca nei pressi di Bannone… – Teneva gli occhi sull’inglese, di traverso, – e la distrugge con bombe a mano uccidendo i quattro occupanti.

  Le dita di Dante battevano veloci. – Ventidue settembre. Il distaccamento Nadotti cattura sulla strada di Traversetolo sei tedeschi e due motociclette… – Tyler alzò lentamente la faccia. Aveva acceso una Raleigh e il fumo gli azzurrava le tempie rendendole più delicate. – Buono questo, – disse. – Due motociclette…

  Ilio spostò gli occhi sugli altri che stavano vicino alla porta e li arrestò su William come volesse impedirgli di parlare. Dante aspettava che Ilio riprendesse a dettare e osservava Tyler che si era messo a scrivere sul taccuino e William che guardava la testa dell’inglese china tra le spire di fumo.

  – Da ora in poi, i prigionieri li teniamo noi, – disse con violenza William, attraversando la stanza. Apri la porta, indugiò come aspettasse la risposta di Tyler, ma siccome questo taceva continuando a scrivere sul taccuino e Ilio stava immobile coi suoi tondi occhi privi di decisione, e tutto nella stanza pareva si fosse silenziosamente allontanato come per assecondare un compromesso, una cosa odiosa e insopportabile per lui che aveva comandato il «Don Pasquino», e mai il vecchio distaccamento aveva accettato qualcosa che assomigliasse appena a un compromesso, prima che apparisse quell’inglese della malora, William, pensando a tutte queste cose, uscì e attraversò l’aia sotto la pioggia.

  Tyler partì verso sera dopo aver chiesto notizie di Afro, che era andato con Lince e Moschetto nella pianura, ma non ottenne le informazioni che desiderava e solo capì che stavolta Afro era andato a fare qualcosa che non riguardava la cattura di ufficiali tedeschi.

  Prima di imboccare il viottolo dietro la casa si volse e chiamò Ilio, che si era fermato sulla porta. Il commissario della 47ª si avvicinò lentamente con marcata indifferenza. – Scordavo, – disse Tyler. – Ohimè, non bene. Holland deve parlarti. Io mandare a dirti giorno preciso.

  – Michele, potevi dirlo prima, per Dio. Hai sentito William, no? In fondo si trattava di questo.

  – Già, vero. Scusa, – Tyler scandì, sorridendo, con impertinenza.

  – Michele, tu non capisci niente, – scattò Ilio. – O lo fai apposta, perché ce l’hai con William.

  – Apposta? Oh nooo. Io scordavo davvero, – rispose Tyler. Si aggiustò la mantellina tirandola sul capo. La pioggia vi batteva sopra con un sottile crepitio. Si avviò a larghi passi sino alla strada, dove lo aspettava un uomo infagottato in un lungo pastrano verde.

  Ilio, curvo nel suo giubbotto di panno scuro agitava le sue piccole mani contro le cosce. La pioggia su di lui faceva un corto suono felpato, come forasse uno strato di polvere.

Nella notte arrivò la segnalazione di un movimento di truppe tedesche tra Langhirano e Traversetolo, più rilevante sotto le colline di Rivalta. Ivan, William e Nardo, dopo una rapida consultazione inviarono le staffette ai distaccamenti dislocati a ridosso della pedemontana e il «Griffith» si appostò sulla strettoia della Val Toccana per proteggere l’eventuale ritiro di quei reparti che, stando alle previsioni, potevano essere investiti alle spalle.

  All’alba i partigiani della 47ª, quelli della 12ª e della «Giustizia e Libertà» erano pronti a difendere le loro posizioni. Nardo, William e Ivan si spostavano per controllare lo spiegamento. Max e Gim, che comandavano il secondo e il primo battaglione, si erano spinti con due pattuglie nel punto in cui i tedeschi stavano concentrandosi. Il sole spianandosi sulle colline sarebbe stato ancora una volta l’imperturbabile spettatore della battaglia.

  Alle sette e venticinque, come fu poi segnato nel rapporto del Comando, i tedeschi abbandonarono improvvisamente le posizioni su cui si erano attestati, il rombo delle autoblindo virò, si disperse verso la pianura. Sino a mezzogiorno la 47ª, la 12ª e la «Giustizia e Libertà» attesero che il mistero di quella inspiegabile ritirata rivelasse un secondo fine e nei reparti si diffuse il senso di una oscura premonizione.

  Non accadde nulla. Allo stupore seguì a poco a poco l’inebriante sensazione di uno spazio pieno di cose rigogliose e di echi familiari, col sole dolcemente disteso sui campi. Tra le colline e la striscia bluetta dell’orizzonte brillava la luce e nella luce si stendeva pigro il silenzio. I tedeschi erano tornati alla loro base, avevano ripercorso la pianura come richiamati da un pericolo imprevisto e lontano. Due settimane dopo il Comando Unico poté sapere che essi erano stati avviati al fronte nella Versilia.

 

  Venne ottobre, e fu una sera, con l’aria più fredda e fremiti di ombre fra le stelle. Nel fondo valle più sordo e lontano scorreva il torrente. Alcuni scontri isolati tra pattuglie del 1º Battaglione e truppe tedesche portarono il presagio di nuovi rastrellamenti. Ilio e Max avevano finalmente parlato con Charles Holland e nonostante le solite riserve del Maggiore avevano ottenuto la promessa per un lancio di armi e vestiti.

  Tornando verso Ranzano dopo il colloquio, Ilio, lungo la strada istruì Max al comportamento più adatto per mantenere buoni rapporti con la Missione Alleata e Max promise che avrebbe fatto tutto il possibile per riuscirvi. Il commissario aveva capito la necessità di un coordinamento più stretto col Maggiore e d’altra parte con l’inverno alle porte e quasi tutti gli uomini privi di scarpe e con scarse munizioni, non c’era molto da indugiare sull’esame delle divergenze. – Vedi Max, – disse traendosi da altri pensieri e cominciando ad agitare la corta mano nervosa, – Holland non è cattivo. E non è stupido. Ricordatelo. È un inglese, ecco tutto. Un inglese con la mentalità che hanno un po’ tutti gli inglesi, di essere soltanto loro grandi organizzatori. Eppoi deve essere dell’Intelligence Service. Questo ti dice altre cose. Non bisogna toccarlo nella sua suscettibilità, anche se lui sa nasconderla molto bene. E ricordati anche che in fondo lui ha capito di poter contare sulla 47ª, più che sulle altre brigate. E sono sicuro che Michele deve avergli detto tutto quello che abbiamo fatto, e Michele, anche lui, è intelligente. William non se lo vuole mettere in testa… e fa male.

  Max camminava e ascoltava con aria quasi divertita, gli occhi che brillavano fedeli all’ironia. La strada saliva a svolte nell’aria grigia, e da poco la pioggia era cessata.

  – Non senti delle raffiche? – chiese Ilio arrestandosi. Max avanzò ancora di qualche passo, poi dalla sommità del pendio guardò verso la curva dell’Enza sotto i dirupi di Scurano. Una coltre di nebbia ondeggiava giù per l’altro versante. – Sì. Deve essere una raganella, – rispose. – Allunghiamo -. Si avviò rapido e Ilio lo seguì dopo un attimo di titubanza, pronunciando parole che Max non poteva udire. Sull’uscio di una casa, dietro la svolta, videro una donna che ascoltava gli spari nella valle, la faccia assorta e rigida. Ogni tanto giungeva un crepitio sottile, indistinto, come un tremore di vetri.

  Max e Ilio accelerarono il passo, videro altre persone sugli usci. A Ranzano, Franci li avvertì che il 2º Battaglione stava combattendo dalle parti di Bazzano. Una colonna tedesca approfittando della nebbia aveva attraversato l’Enza e si era dapprima attestata sotto il mulino, poi aveva preso sul fianco gli uomini di Gim asserragliati tra le case del paese.

  Max saltò sulla motocicletta del portaordini, fece segno a Franci di salire e partirono. Presero la strada vecchia di Bazzano per avvisare il «Pontirol» e il «Nadotti», e i due distaccamenti si avviarono subito per i sentieri che portavano all’Enza. Si udiva ora distinta la fucileria tranciare l’aria di là del monte e a tratti lo scoppio dei mortai.

  Max curvo sulla macchina pensava a William e a Gim isolati a Bazzano e pensava anche a Holland, il quale poteva avere tutte le ragioni di questo mondo, ma ora, se anche lui fosse stato dove erano gli uomini di Gim e di William avrebbe potuto vedere cosa sapevano fare quelli della 47ª e una buona volta si sarebbe deciso davvero a chiedere il lancio, perché lui, Max, non era del tutto convinto che l’inglese l’avrebbe fatto subito, come aveva promesso. E pensava anche che Ilio cominciava a essere un po’ troppo cedevole di fronte alle argomentazioni del Maggiore.

  Aveva ripreso a piovere. Sulla valle calavano grosse nuvole e la pioggia batteva di traverso contro la montagna scura, davanti alla motocicletta che saliva sobbalzando per la strada fangosa. Max sentiva il fiato caldo di Franci sulla nuca e anche Franci stava chiedendosi se il «Pontirol» e il «Nadotti» ce l’avrebbero fatta a resistere.

  Nel rapporto del Comando, due giorni dopo, Dante scrisse: «6 ottobre. – Truppe tedesche provenienti da Castelnuovo Monti e da Ciano d’Enza, armati di mitragliatrici e di mortai, cercano di forzare le linee col favore della nebbia. In postazione sulla riva sinistra dell’Enza il 2º Battaglione reagisce prontamente, poi, per non essere accerchiato si porta sulle creste di Bazzano. Il combattimento si protrae sino a tarda sera, si combatte tra le case con estrema violenza e il nemico costretto a ritirarsi lascia sul terreno diciassette morti. Nostre perdite: cinque morti e undici feriti. Si prevedono nuovi attacchi nei prossimi giorni».

  La previsione si basava sulle notizie che alcuni informatori fecero pervenire al Comando, e si avverò esattamente il giorno dieci, alle prime luci del mattino, quando un rigo di uomini fu scorto muoversi sul greto dell’Enza da una pattuglia in perlustrazione. Quel rigo scomparve dietro le pendici selvose, poi tra la nebbia che ondeggiava se ne videro altri più a valle, e altri ancora a mezza costa, più lunghi e compatti.

  La pattuglia si portò tra i cespugli vicino alla riva e sulla strada di Vetto vide un grosso nucleo di tedeschi che stava calando verso il torrente. La pattuglia rimase immobile, Marco vide i mortai coperti di tela cerata, sulle spalle dei soldati la canna delle «raganelle» e più giù, alla svolta, una fila di camion e un ufficiale sul ciglio della strada. Guardava il monte Fuso col cannocchiale. – Ci siamo, – disse Saetta. – Sì, ci siamo davvero stavolta -. Marco, puntando gli occhi verso l’ufficiale rispose: – Bisogna correre su a Sarignano. Vai tu Saetta. E muoviti.

  A Sarignano c’era il 4º Battaglione comandato da Juan. Carponi tra i cespugli Saetta infilò un sentiero e si arrampicò aiutandosi con le mani. Si volse, non vide più i compagni, e in quel momento udì gli spari sotto Bazzano, dove stava il 2º Battaglione. – Perdio, cominciano, – disse riprendendo a salire. Sentiva un sapore acre e freddo nella gola, come di zolfo. Saliva spartendo i rami spinosi, le mani lucide e bagnate che gli tremavano. Sdrucciolava sulla viscida mota del sentiero, battendo i ginocchi sulle pietre. – Presto. Bisogna far presto, – ansimava nel tremore del petto. – Senti come sparano, quei porci -. Pensava alla pattuglia rimasta nel greto. «E se li circondano? Cosa potranno fare? Perché non si ritirano? Cosa vuol fare Marco, laggiù? Sono in quattro. Cosa vuol fare? » Saliva e tremava e i rami gli foravano le mani e la faccia. Ora udiva il crepitio lineare delle «raganelle» frantumarsi tra i cespugli, dove era rimasta la pattuglia.

  Si fermò. Vedeva lontano segni vaghi e scuri che si dilatavano e sparivano. Si scosse, ma non riuscì più a salire. Le «raganelle» erano più vicine, alla sua destra, dietro la china che vedeva ignota sotto la nebbia. «Ho sbagliato strada», pensò. Immobile, sprofondato nell’unico pensiero che gli riempiva il cervello, non poteva accorgersi di trovarsi all’inizio di un prato, allo scoperto, al centro di un pauroso silenzio. Pensava soltanto a Marco circondato laggiù nel greto.

  E non vide il lampo guizzante nella nebbia, al di là del prato. Gli parve di poter ancora muovere le braccia e fece in tempo a scorgere tre grandi figure proiettarsi nella calma luce che aveva dentro gli occhi.

  L’attacco delle truppe tedesche si dispiegò a cerchio sul Fuso, verso Scurano e Sarignano. Durò sino a tarda sera. Il 5º Battaglione, verso le due pomeridiane, sostituì il 4º Battaglione che aveva ripiegato su Rusino.

  Cinque volte superiori, coi mortai che sparavano ininterrottamente, i tedeschi occuparono Scurano ma non riuscirono a raggiungere il valico di Ruzzano, di dove avrebbero potuto spezzare in due lo schieramento della Brigata.

  Il terreno tra Scurano e il valico fu difeso con disperata volontà, la lotta ebbe fasi drammatiche. Il 5º Battaglione centrato dai mortai sul valico non mollò un metro di terra. I tedeschi cominciarono a ritirarsi dividendosi in quattro colonne, con le retroguardie che continuavano a sparare senza interruzione, e quando questo avvenne, il 5º Battaglione non aveva più munizioni.

  Alcuni giorni dopo la radio della repubblica di Salò trasmetteva che nell’attacco i partigiani avevano subito la perdita di settecento uomini e i tedeschi centodue.

In realtà i caduti della 47ª furono sette. Il corpo di Saetta fu ritrovato da un contadino. I rastrellatori gli avevano strappato dal giubbotto lo stemma in panno rosso della Brigata, e questo in seguito accadde anche ad altri partigiani. Saetta aveva sul viso un’aria stupita, che la pioggia non aveva cancellato.

 

  in gran parte dalle circostanze, il maggiore Charles Holland considerava la fatalità un sottoprodotto della suggestione e amava commentare argutamente «il gusto singolare degli italiani per gli aspetti misteriosi delle vicende umane». Egli aveva il vantaggio di guidare le sorti delle brigate da una posizione privilegiata, anche nell’aspetto convenzionale dell’avventura, e il suo temperamento non gli permetteva alcuna concessione sia pure formale nei riguardi della emotività. La sua faccia rimaneva dolcemente impassibile di fronte agli avvenimenti più oscuri e nei suoi chiari occhi di smalto vibrava costante una maliziosa luce di prudenza.

  La 47ª costituiva per la sua calma intuizione un problema da risolversi gradualmente giorno per giorno, una specie di diario distribuito tra le occasioni e i fatti imprevedibili su cui era necessario inserire una minuziosa punteggiatura. Holland era un uomo di freddo buon senso, curava con particolare meticolosità il distacco cerimonioso che lo separava dai partigiani e sapeva disporre i provvedimenti disciplinari con indifferenza. Per questo, la sera del quattordici ottobre discusse brevemente con Ilio l’impostazione giuridica di tutto quello che sarebbe avvenuto nella notte seguente e tornò nel suo covo tra i dirupi di Monchio lasciando nei pochi presenti alla sua partenza il solito senso di signorile freddezza che accompagnava le sue azioni.

  Pioveva a rovesci, una pioggia nera e lucida. Le case di Ranzano parevano cumuli di fango e su per la vallata dell’Enza si avviluppavano tormentate le nuvole sotto la spinta del vento e si vedeva soltanto un filo di luce solitario galleggiare nell’ombra fradicia sotto i castagni al di là della strada.

  Il Maggiore salì sulla groppa del mulo e sollevò la mano di sotto la mantellina, poi fu una macchia rigida sul moto oscillante dell’animale nel fondo della strada e scomparve diluendosi nella pioggia. Ilio fece un cenno a Max e gli altri lo seguirono. Imboccarono il sentiero che saliva l’erta sopra la strada, il filo di luce si dilatò illuminando i tronchi dei castagni e sulla porta spalancata apparvero due figure con lo sten imbracciato. – Siete voi? – dissero.

  Nessuno rispose, la domanda scivolò nel buio e le due figure si scostarono quando Ilio si stagliò nel rettangolo di luce. Egli entrò rapido, di traverso, togliendosi il berretto di pelo, e quando tutti furono nella piccola aula, raggruppati sotto l’alone bianco della lampada, e richiusa la porta il fragore della pioggia fu come un lontano desolante respiro, ciascuno sentì fluire la presenza della fatalità. Era presente in ogni cosa, udibile e percettibile nei gesti che ognuno faceva, nelle occhiate furtive, nelle immagini remote; una presenza insidiosa e crudele.

  In seguito, quando apprese come si erano svolti i fatti, Holland chinò il capo un istante e sussurrò qualcosa che nemmeno Tyler riuscì ad afferrare. Poté soltanto udire il nome di Juan, ripetuto due volte. Il Maggiore stava eretto contro una parete come volesse rendersi estraneo a tutto ciò che lo circondava, forse persino a se stesso, duramente ostile al ricordo di ciò che aveva dovuto decidere quella sera.

  L’arresto di Juan, comandante del 4º Battaglione, fu deciso due giorni dopo il combattimento di Sarignano e le ragioni che lo determinarono erano tutte giustificate dal comportamento che Juan aveva tenuto, sin dai primi giorni del suo arrivo nella zona, nei confronti del Comando di brigata. Irascibile, provocante sino all’indecenza, istrionico e subdolo nelle manifestazioni più naturali, certe sue azioni avevano mostrato l’impronta della pazzia.

  Fuggito dal carcere di Parma durante un bombardamento aereo, avrebbe potuto scegliere indifferentemente, per sfuggire a una nuova cattura, le formazioni partigiane o la brigata nera, e solo il caso lo portò nei pressi di un paese dove incontrò una pattuglia della 47ª. Le sue dimostrazioni di entusiasmo nei confronti del movimento non suscitarono alcun sospetto e d’altra parte erano giorni in cui non c’era molto tempo per sondare le intenzioni di chi si presentava per essere arruolato. La pattuglia lo accompagnò da William e questi pochi giorni dopo gli consegnò un vecchio revolver di marca spagnola, l’unica arma che eccedesse sull’armamento del «Don Pasquino».

  Juan si assoggettò alla rude disciplina del distaccamento e nel giro di un mese, con l’aiuto spettacolare di quel revolver e con un modo tutto suo nel comparire inaspettatamente nei luoghi e nei momenti più propizi per guadagnarsi la notorietà, divenne comandante di una banda che operò con una certa irruenza. Il suo nome corse presto sulla bocca delle ragazze e ciò dipese dalla straordinaria bellezza della sua persona più che dalle sue imprese.

  All’inizio la sua banda era composta di ragazzi animati dal solo desiderio di rompere la monotonia dei lavori campestri ed egli seppe legarli alla sua intraprendenza con appassionati discorsi in cui sovente si alternavano parole caste e oscure. La notorietà di Juan si estese anche nelle zone presidiate da altre formazioni, quando egli in un fulmineo duello uccise Buck sparando con la pistola senza toglierla dalla fondina.

  L’unico testimone affermò che la contesa era scaturita dalle giuste rimostranze rivolte dal suo capo a Buck, il quale pretendeva intervenire in certe faccende della banda. Buck era un isolato e si trasferiva da una zona all’altra per incarichi che lui definiva delicati e segretissimi, ma quel giorno incontrando per la prima volta Juan sulla strada di Rigoso non seppe intuirne la pericolosità potenziale e non colse il lampo di furore nei suoi occhi quando iniziò il diverbio. Pochi istanti dopo cadde con un proiettile nel mezzo della fronte.

  William ascoltò attentamente il testimone, conservò nella mente tutti i particolari che ritenne ambigui e col suo buon istinto cominciò a sorvegliare le azioni di Juan, il quale intanto procedeva nella strada dei suoi ambiziosi propositi, favorito dall’incerta situazione in cui si trovava la Brigata in quel tempo e dalla cieca devozione dei suoi ragazzi.

  Le sue gesta spettacolari crearono intorno alla sua figura un alone di leggenda ed egli, assumendo aspetti paterni, promise ai montanari fantastiche elargizioni di benessere materiale. All’insaputa del Comando di brigata autorizzò persone sospette a scendere nella pianura, alimentò nella sua banda la presunzione di poter essere indipendente. Fece tutto quello che poteva danneggiare la faticosa coesione della Brigata e lo fece con istrionica spavalderia, sino al giorno in cui la sua viltà prese il sopravvento e ciò accadde nel combattimento di Sarignano.

  Il Comando della 47ª sospettava che Juan fosse anche l’autore di alcune rapine ma ne ebbe le prove soltanto il dodici ottobre. Il mattino di quel giorno Ilio radunò nella scuola di Ranzano i comandanti dei battaglioni e dei distaccamenti e appena arrivò Tyler, quale rappresentante della Missione Alleata, fu concertata la cattura di Juan, che si era rifugiato col suo battaglione nei pressi di Rigoso.

  Ilio considerò le varie difficoltà di quella cattura perché sospettava che Juan avesse percepito quello che stava per accadergli, ma la discussione fu ristretta ai limiti della necessità, che non permetteva dispersioni di tempo. Max, William e Spumino si assunsero l’incarico dell’arresto. Tyler approvò flemmaticamente l’espediente escogitato per attirare Juan nella scuola di Ranzano ed il resto fu affidato in parte al caso e in parte alla stessa spavalderia di Juan.

  Il caso prese avidamente la parte che gli era stata concessa e ne dispose a suo piacimento, con crudeltà, dal momento che Juan apparve sulla svolta della strada seguito da un ragazzo che teneva con noncuranza il moschetto in bilico sulla spalla. Erano le tre pomeridiane del quattordici ottobre.

  Sull’ingresso della scuola Spumino fumava una sigaretta e come vide Juan gli rivolse un saluto distratto. Ilio, William, Max, Lupo, Scheggia stavano seduti intorno al tavolo fingendo di osservare una carta topografica. Nessuno avrebbe potuto cogliere nella loro indifferenza il segno più lieve di ciò che pensavano mentre di fuori rallentava lo spiaccichio dei passi di Juan sulla strada bagnata. Egli si profilò alto e sottile nella fugace prospettiva al di là della porta spalancata, contro il pendio erboso che sovrastava la strada. Dietro, minuto, stranamente infantile con la blusa chiara, gli occhi scintillanti e vigili, il gregario di Juan pareva sorridesse con voluttà nell’attesa di un fatto imprevedibile e desiderato.

  Solo Max seguiva con freddezza l’inavvertibile determinazione di quel ragazzo e quando Juan si avvicinò alla porta e gli altri si scostarono per lasciarlo entrare, egli rimase immobile, perché sentiva che sarebbe accaduto tutto quello che in un lampo era apparso nella sua percezione.

  E quello che accadde fu troppo breve per la devozione del gregario di Juan. Egli vide il suo comandante avanzare dalla soglia verso il tavolo e Spumino che girava lentamente su se stesso, troppo lentamente, gli parve, per essere un movimento amichevole, poi vide Juan curvarsi verso i partigiani seduti e subito compiere un largo gesto con le braccia e poi udì il suo grido echeggiare acuto, metallico, seguito da un frastuono di seggiole e di scarpe chiodate.

  Vide e udì da una distanza che gli apparve di colpo come un calcolo stranamente errato, mentre puntava il moschetto contro il vano della porta per fare quello che Juan lungo il cammino gli aveva chiesto di fare, il più rapidamente possibile se fosse accaduto quello che ora stava accadendo; ma sentì che tutto era diverso da come aveva supposto avvicinandosi alla casa, un fatto irragionevole e lontano, troppo lontano… Fece in tempo a scorgere il grande cappello di Juan rotolare sul pavimento, poi sentì che tutto intorno a sé spariva senza luce. E cadendo sentì di morire senza dolore.

Ora, mancavano soltanto Franci e Cesare. Chino sul tavolo Ilio scriveva veloce, occhieggiando ogni tanto impersonalmente gli uomini seduti sul pavimento. Ivan era arrivato da pochi minuti e parlottava con Spumino, la calma faccia piegata un po’ di traverso. Si udiva lo sfreghio sottile della penna, come un filo sperso nell’attesa, e più viva pareva ora la luce sotto il piatto smaltato della lampada.

  – Stanno arrivando, – disse improvvisamente Lupo dirigendosi alla porta. Il fragore della pioggia invase l’aula quando Franci e Cesare entrarono. Ilio continuò a scrivere e Tom ritto contro la parete lo fissava, gli occhi stretti nell’ombra.

  Fu lui a rompere il silenzio. – Andèm? – disse, avanzando verso la porta. Infilò con violenza il mitra a tracolla e arrestandosi sulla porta ripeté: – Andèm? – Gli altri guardarono Ilio, istintivamente cauti, come se la corta, legnosa parola di Tom avesse rotto qualcosa di segreto che faceva parte dei loro pensieri. Ilio ripose i fogli nella borsa e si levò. Gettò una occhiata a Max e Max fece un cenno col capo, un movimento che parve involontario.

  Salirono l’erta curvi e silenziosi sotto la pioggia preceduti da Spumino che reggeva una lanterna e giunsero sulla cima del poggio, davanti alla grande casa grigia dalle imposte serrate. Venne dal buio un suono di catene e una voce rauca di donna. Sull’ingresso Spumino alzò la lanterna, apparve la ripida scala di mattoni tra i muri screpolati. Quando entrarono nello stanzone, l’orologio sulla parete segnava le 22,15. Sotto c’era un divano e al centro un grosso tavolo di noce.

  Il processo ebbe inizio quando Juan sedutosi sul divano chiese una mestola d’acqua. Scheggia uscì per prendere un secchio dai contadini che vegliavano nella cucina al di là del pianerottolo e quando rientrò Ilio stava elencando i capi d’accusa. Scheggia rimase accanto alla porta e depose il secchio, perché Juan guardava inerte i partigiani allineati contro la parete e pareva già morto, e questo fu il pensiero che colse improvvisamente Scheggia quando la figura massiccia di Tom si stagliò a lato del divano.

  Il commissario della 47ª leggeva con voce troppo alta il foglio dattiloscritto che teneva teso e diritto sotto il raggio della lampadina e Scheggia ora pensava che egli così lo tenesse per non vedere il viso di Juan. Ai lati del commissario stavano Passatore curvo sulla macchina per scrivere e Max coi gomiti incrociati sulla canna del mitra. Tutti gli altri convenuti si erano addossati alle pareti, immobili e silenziosi, e soltanto quando Tom inaspettatamente si mise a lato del divano la loro ostentata rigidità fu percorsa da un breve tremore, come sfiorati da un presagio di colpa.

  Deposto il secchio, Scheggia, al di là della voce incalzante di Ilio vedeva Juan stranamente assorto e lo riprese il pensiero ch’egli non avesse più vita e che tutto quello che ora stava accadendo intorno alla voce del commissario altro non fosse che la lugubre proiezione di un fatto irreale. Ma la massiccia presenza di Tom duramente immobile a lato di Juan lo ricondusse di fronte a ciò che realmente stava per accadere.

  Terminata la lettura del foglio, Ilio sedette lanciando un’occhiata alle sue spalle. Dalla parete qualcuno avanzò verso il tavolo. La pioggia batteva contro le imposte alternandosi al cupo silenzio della vallata, e a tratti pareva uno stridore di sabbia.

Il processo durò sino all’1,35 e dalla relazione stesa da Passatore il maggiore Charles Holland apprese poi come tutto si fosse svolto regolarmente, ma egli non seppe mai quello che avvenne dopo la sentenza perché nessuno gli riferì il racconto che fece Tom quando tornò dal bosco battendo forte i piedi sulla scala.

  Alla lettura della condanna Juan non disse una parola. Il suo viso biancheggiava impassibile sotto l’orologio e solo l’ombra delle ciglia ebbe un tremito impercettibile. Quando Max gli disse ch’era l’ora di uscire, il condannato si alzò come non avesse più le ossa e fece un cenno vago col capo verso le mani legate. Ilio stava radunando frettolosamente i fogli sul tavolo e Passatore rimase seduto, chino sulla macchina per scrivere. Tutti gli altri parevano scolpiti nella parete.

  Fu nel momento che Tom stava mettendosi al suo fianco, che Juan vide il secchio colmo di acqua ai piedi di Scheggia. Vi si diresse falcando leggero lo spazio e tese le mani legate verso il recipiente. Scheggia immerse la grossa mestola di rame, la ritrasse un poco tremando e l’avvicinò alla bocca di Juan, mentre lungo la parete qualcuno sporse il capo con dolorosa curiosità.

  Poi Juan uscì e la porta rimase aperta, anche dopo che Tom fu nelle scale. Si udì dalla cucina dei contadini una voce affaticata: – Fa’ nenèn… Fa’ nenèn, – a cui seguì il lamento di un bambino.

  Tom fu l’esecutore della sentenza e ciò per molto tempo raggelò il ricordo di quella notte. Anche Holland dovette riconoscerlo come un fatto irragionevole e sgradito e in seguito ebbe modo di disapprovarlo.

  Tom tornò alle 3,40. Entrò guardando quelli che erano rimasti come si aspettasse un applauso e si allungò sul divano. Ilio, Max, William e Spumino erano andati via. La pioggia continuava a strusciare contro la casa e fu Scheggia con una brusca domanda a provocare il racconto.

  – Per Iddio, non credevo che fosse così quieto, – cominciò Tom, agitando gli occhi verso la figura impassibile di Scheggia. – Quando siamo arrivati dietro la casa non vedevo il sentiero ed è stato proprio lui ad indicarmelo. Io gli stavo dietro e la lanterna rischiarava appena dove mettevamo i piedi. Un bel tipo davvero, Juan! Ad un tratto ha detto: «Tu forse pensi che io abbia paura, no? » Io lì per lì non sapevo cosa rispondere e l’ho spinto con la canna del mitra. Temevo che mi potesse colpire anche con le mani legate e gli ho risposto: «Io non penso niente». Lui ha ripetuto che io stavo invece pensando proprio che avesse paura e questo mi ha dato fastidio, perché non lo pensavo affatto e soltanto stavo attento alle sue mosse. Dopo un centinaio di passi si è spenta la lanterna e non ho visto più nulla. Ho allungato una mano e l’ho afferrato alla spalla. «Non preoccuparti, – mi ha detto, – non cerco di scappare». Dal tono della voce ho invece pensato che lo avrebbe fatto. Ho riacceso quella maledetta lanterna tenendo il mitra puntato su Juan, che intravedevo nel buio. Lui stava immobile, e quando la lanterna ha fatto luce ho visto che mi guardava sorridendo, così almeno mi è parso. «Vai avanti e stai zitto», gli ho detto e lui, ancora: «Non devi pensare che io abbia paura». Non gli ho risposto, temevo che volesse farmi un brutto tiro. Sapete, era un tipo che non scherzava e anche con le mani legate poteva colpirmi…

  A questo punto Scheggia si voltò di scatto e guardò con violenza gli altri partigiani che ascoltavano, poi gridò, facendosi più vicino a Tom: – Lascia perdere e di’ come è andata, dopo! – Tom si drizzò sul divano, spianò gli occhi grigi e duri sulla faccia di Scheggia e disse: – Cosa ti prende, dì? Se non vuoi ascoltare puoi anche andartene.

  Scheggia si ritrasse e andò a sedersi vicino a Passatore, gli occhi socchiusi e la faccia pallida e contratta. Tom prosegui: – Dunque, allora siamo arrivati a uno spiazzo e pensai che quello era il posto giusto. Juan si era fermato, voltandosi: «Va bene qui?» mi ha chiesto, e io gli ho risposto che andava bene. Ho appeso la lanterna a un ramo e mi sono spostato indietro puntando il mitra. Vedevo benissimo Juan, ma la sua testa stava nell’ombra. «Sei pronto?» gli ho chiesto. Lui non ha risposto. Stava fermo e guardava contro gli alberi. Pioveva forte. «Sei pronto?» ho detto ancora. Lui si è scosso e ha detto: «Senti Tom, ti devo chiedere un favore». Credevo volesse una sigaretta, ma non avrei potuto dargliela perché non ce l’avevo. Invece ha chiesto: «Senti, io mi metto in ginocchio per pregare, ma tu non ridere di questo. Mi metto in ginocchio e quando sentirai la parola amen, spara. Ma non prima. Questo è il favore che ti chiedo. Ti va?» Era un bel tipo davvero, Juan. Parlava con voce tranquilla, troppo tranquilla. «Fai pure», gli ho risposto e ho aspettato che si mettesse in ginocchio, senza perderlo di vista. Si è inginocchiato voltandomi le spalle, cominciando a pregare. Ora vedevo bene anche la sua testa e senza che lui se ne accorgesse gli ho messo la canna a pochi centimetri dal collo. Borbottava delle parole che non capivo e aspettavo di udire quell’amen. Pioveva ancora più forte e sentivo appena quello che andava dicendo, perché si era messo a parlare piano e mi è parso anche che piangesse.

  Poi ho visto che sollevava la testa. Mi sono tirato indietro di mezzo metro. Lui si è curvato appoggiando le mani sull’erba e ha detto: «Amen». Sono rimasto un attimo indeciso, poi ho sparato.

  Tom levò il fazzoletto e si pulì la bocca. Le sue grosse scarpe infangate spiccavano sospese oltre il divano, nello spazio che lo divideva dai partigiani ritti intorno al tavolo. Scheggia vedeva le scarpe di Tom sotto la luce della lampada, sporche scarpe mostruose, e ora pensava a qualcosa che gli era penetrata nel cervello durante il racconto, forse quando Tom aveva pronunciato la parola amen con quel tono di volgare indifferenza. Sentì il battito dell’orologio sulla parete e gli riapparve, dove ora stava Tom, la figura di Juan stranamente assorto mentre Ilio leggeva il foglio dattiloscritto. Poi avvertì che gli altri si muovevano, diretti alla porta, in silenzio, e Tom che levava dalla tasca un pacchetto di sigarette.

  – Porco! – gridò rizzandosi. – Porco! – Dalla porta gli altri si volsero, tornarono accanto al tavolo. Passatore aveva afferrato il braccio di Scheggia e questi, divincolandosi, ripeté «Porco! »

  Lo trascinarono sul pianerottolo e Tom rimase tranquillo sul divano, accendendo la sigaretta. Egli finse di non udire quello che Scheggia gridava dalle scale. «Scommetto che gli ha sparato subito. Prima di quella parola».

 

  L’alba fu breve e lontana, una luce stremata ai confini del mondo. Riprese a piovere, la stessa pioggia della notte, massiccia e fredda col suo vasto fragore di fiamma ossidrica. Contro la finestra spalancata Marco udiva alle spalle il rapido muoversi di Scheggia intento a riordinare lo stanzone. Insieme avevano sotterrato il corpo di Juan ed ora non restava che allontanarsi, come avevano fatto gli altri due ore prima, ma Scheggia sembrava volesse disperatamente cancellare ogni traccia di ciò che era avvenuto là dentro, anche l’immagine di Juan seduto sul divano, la sua voce.

  Erano scesi sdrucciolando per il sentiero e la torcia di Scheggia scavava buchi spettrali nell’oscurità. Quando il raggio di luce scoprì il cadavere Scheggia spense la torcia. Marco lo sentì irrigidirsi, poi sentì il suo lieve ansimare nella pioggia e aspettò in silenzio. – Lo hai visto? – disse Scheggia con voce ferma. – Ora dobbiamo fare come si è raccomandato Max -. S’interruppe, accese la torcia e la tenne alta contro gli alberi. – Dobbiamo seppellirlo in modo che nessuno possa ritrovarlo. Non ha detto così, Max? – La voce era ancora ferma, proteggeva il dolore. – L’hai visto? – ripeté, abbassando la torcia.

  Il raggio di luce ondeggiò sul cadavere, si arrestò sul viso, una piccola macchia chiara tra i capelli fradici. Sembravano scorrere dal capo, come fili di catrame. – Dammi la vanga, – disse Scheggia. – Tieni tu la torcia. E facciamo presto -. Colpì il terreno, era tenero. Non si fermò un istante, continuava a scavare come volesse sprofondare e quando si rialzò e la sua faccia fu interamente nella luce a Marco sembrò di non averla mai vista. Per un attimo si sentì stranamente solo e indifeso, come di fronte a uno specchio. – Così va bene. Adesso dammi una mano, – disse Scheggia.

  Poi tutto era stato facile, persino sollevare il cadavere, deporlo adagio nella fossa, ed ora Marco pensava che nemmeno quattro uomini avrebbero potuto farlo, in quel modo. Vedeva come da lontano Scheggia incrociare le mani di Juan sul petto e aggiustargli i capelli, senza dire una parola, agile, preciso, come un necroforo. E in quel momento la pioggia pareva traboccasse da un immenso acquario, rovesciava i rami sulla schiena di Scheggia e lui aveva cominciato a rovesciare la terra sul corpo di Juan.

  Quando la fossa fu piena vi saltò sopra e cominciò a battere i piedi, eretto, la faccia contro la pioggia. Poi coprì la fossa con foglie e stecchi e disse: – Guarda bene dappertutto -. Gettò ancora foglie, le sparse con le mani appiattendole, ogni tanto ritraendosi per osservare se fossero rimaste tracce della sepoltura. Si chinava a scatti, spariva e riappariva nel raggio di luce come animato da una fredda esaltazione. Poi lentamente si mise a fianco di Marco, gli tolse la torcia, la diresse al centro della fossa, le foglie luccicavano, non si vedevano tracce. – Mi pare che vada bene, – disse. – Che te ne pare? – Non attese la risposta. – Il Comando può essere tranquillo. Nessuno ritroverà il corpo di Juan -. Raccolse la vanga. – Un bel lavoretto, no? – La sua voce tremò quando disse: – Ciao, Juan. Spero di poter fare la stessa cosa per Tom, molto presto.

  Erano risaliti in silenzio, il sentiero sembrava più lungo, la casa lontana. La videro d’improvviso alta e grigia come si fosse proiettata per sbarrare il passaggio. Videro un filo di luce e udirono una voce. Marco pensò che fosse la stessa che aveva udito durante il processo provenire dalla cucina dei contadini, quella voce affaticata di donna che diceva «Fa’ nenèn… Fa’ nenèn…» I contadini erano ancora svegli, aspettavano che tutto fosse terminato dentro lo stanzone, che se ne andassero anche loro due. Immaginò la donna in ascolto dietro l’uscio, sentì che stava arrivando il momento più difficile. – Anche loro hanno passato una brutta notte, – mormorò Scheggia salendo le scale. – Mettiamo un po’ di ordine là dentro -. Aprì lentamente la porta.

  La lampadina al centro del soffitto era ancora accesa, oscillò leggermente quando Marco spalancò la finestra, la luce sembrava rischiarasse soltanto il divano su cui Juan aveva aspettato la sentenza. – Faccio presto, – disse Scheggia. – Comincia a far chiaro -. Marco si mise contro la finestra e vide il tenue fremito dell’alba. La pioggia era cessata, di sotto la casa il bosco mostrava braccia nude e contorte, nel paese brillò un lume, si spense, e nella valle si levò il suono fuggente dell’Enza. Immobile Marco pensava alla donna insonne dietro l’uscio della cucina e rivedeva Scheggia battere i piedi sulla fossa, nel fondo della notte.

  Lo scossero i colpi sull’uscio. Si volse e incontrò gli occhi di Scheggia. I colpi si ripeterono, quieti, cadenzati, poi l’uscio si apri lentamente e apparve una donna. Era piccola sotto lo scialle nero, osservava lo stanzone come si fosse ritrovata in un luogo visto nel sogno. Aveva le pupille larghe e dense, un pallore di chiesa. – Posso rimettere a posto, qui dentro? – domandò. La voce era come le sue pupille, come il suo pallore. – Se non disturbo, – aggiunse continuando a osservare dentro lo stanzone. – Lo stiamo facendo noi, – disse Scheggia con tono esitante. La donna evitò lo sguardo dei due partigiani, avanzò di un passo. La luce della lampadina sembrava filtrare nel suo calmo respiro. – Lo avete sotterrato? – chiese d’improvviso e fu come se avesse voluto sorprendere i due partigiani nel momento più propizio. Si diresse verso il divano, strusciò un piede sull’impronta bagnata lasciata dal secchio, gli occhi come intenti a cogliere tutto ciò che doveva ritenere ostile alla sua presenza. Spinse il divano contro la parete, passò una mano sulla fodera, poi si avvicinò al tavolo e rimase immobile, piccola, scura, nel suo silenzio audace, col suo pallore che mandava riflessi di ombre. Scheggia e Marco si trassero da parte: la donna tornava all’uscio senza guardarli.

  Dall’uscio, senza voltarsi disse: – Lo troveranno -. Contro il buio del pianerottolo sembrava inchiodata da una determinazione violenta, e ora non era più la piccola figura dolente che era apparsa difesa dallo scialle per chiedere se poteva lei riordinare nello stanzone. Ora, voltando le spalle, rigida nel suo risoluto fervore, si separava da tutto ciò che era accaduto nella notte e che lei aveva seguito da dietro il pianerottolo, col suo bambino tra le braccia e con l’anima piena di ghiaccio. – Lo troveranno, – ripeté. – Lo ritroverà Maddalena -. Richiuse l’uscio.

  Scheggia non disse nulla. Si guardò intorno e spense la luce. Ormai si era fatto chiaro. Chiusero la finestra. Dalle scale non udirono alcun rumore. Nell’aia videro di sotto tra gli alberi la strada, deserta, luccicante di pioggia e oltre la strada il solco buio del torrente. Si avviarono affiancati, ciascuno a modo suo pensava a Maddalena, a quello che avrebbe potuto fare.

 

  La sera dopo Maddalena apparve dal fondo della strada. Era seguita da un uomo che si tirava dietro una broscella a ruote. Camminavano con passi brevi e pesanti. Maddalena teneva il capo un po’ reclinato sulla spalla e la pioggia sgocciolava sui capelli. L’uomo era molto magro, vecchio; camminava a testa bassa. Si arrestarono sotto un albero che sporgeva sulla strada, Maddalena sembrava indecisa guardando verso la sommità del poggio. Da quel punto si vedeva la casa. Ripresero a camminare, più lentamente, guardandosi intorno con indifferenza. Chi da dietro una finestra poté vedere spianata contro la pioggia la faccia della donna e i suoi occhi color latte, il pallore grigio intorno alle labbra serrate, non dubitò un istante che Maddalena avrebbe fatto quello che in paese sospettavano dal mattino. Era venuta per portarsi via il corpo di Juan e nessuno l’avrebbe potuta fermare.

  Lasciarono la broscella all’inizio del sentiero e cominciarono a salire verso la casa. L’uomo portava un grosso involto sulla schiena ma saliva senza sforzo, il mento sottile proteso sul bavero del cappotto. Metteva i piedi sulle impronte lasciate da altri e ad ogni passo faceva uno scarto preciso col dorso. Maddalena lo precedeva in silenzio, ora sotto i rami la pioggia li sfiorava appena, qualche lume si accendeva nella valle. Raggiunsero il prato e si fermarono. Dalla casa non veniva alcun rumore, solo un filo di luce segnava una finestra chiusa. – Non abbiamo tempo da perdere, – disse Maddalena. – Bisogna fare tutto prima che venga buio del tutto -. L’uomo assentì col capo e attraversò il prato verso il bosco. Trovarono il sentiero e Maddalena cominciò a scendere senza incertezza come se conoscesse il punto in cui Scheggia aveva sotterrato il cadavere. Scendeva senza respirare, allontanando i rami con leggeri gesti delle braccia. Si arrestò e si volse per aspettare l’uomo. Sapeva di essere sulla fossa e quando l’uomo le fu accanto disse: – Ecco, dobbiamo scavare qui.

  Per tacita intesa sedettero. Maddalena fissava le foglie che coprivano il terreno smosso, vedeva i segni lasciati dalla vanga di Scheggia. L’uomo aprì l’involto e ne trasse una pala di tipo militare, poi stese una coperta. – Posso cominciare, – disse. Maddalena non rispose e l’uomo affondò la pala adagio pressando il ventre sul manico. Udirono uno sfregolio sotto gli alberi, forse era un cane. L’uomo continuò a sollevare le zolle, poi si chinò e raspò con le mani. Maddalena stava dritta come senza respiro, ora vedeva affiorare il cadavere, le mani dell’uomo che ripulivano il viso di Juan. La pioggia cadeva leggera, c’era ancora un velo di chiarore tra le nubi, sfiorava il cadavere ora del tutto scoperto, sembrava un riflesso di polvere.

  Maddalena si mise dalla parte della testa e sollevarono il corpo di Juan, lo deposero sulla coperta e non appena fu avvolto si ripeté lo sfregolio tra i rami e Maddalena vide una donna ferma con un grosso scialle nero sulla testa. La riconobbe: – Siete voi, Cesira, – disse con dolcezza. – Lo sapevate che era qui… – Accennò con la mano al cadavere. La donna assenti liberando il capo dallo scialle, avanzò sino all’orlo della fossa e disse: – Credevano che nessuno potesse trovarlo -. Si avvicinò al grosso involto.

  – Ma io gliel’ho detto a quei due che sareste venuta.

  – E loro che cosa hanno detto? – domandò Maddalena.

  – Niente. Non avevano niente da dire.

  L’uomo si mise dietro, per ricevere il peso maggiore, e risalirono il sentiero pressando i piedi contro ciuffi d’erba. Cesira si chiedeva come trovassero la forza per farlo; quattro uomini avrebbero stentato a trasportare quell’involto, in quelle condizioni, ed ora s’era fatto buio, la notte si avventava ostile su ogni cosa. Non osava offrire aiuto, li seguiva assorta in pensieri lontani, dove rivedeva Maddalena passare nella strada in un mattino di sole, spavalda, altera, ignara delle occhiate che tutti le lanciavano, indifferente al saluto dei ragazzi, solo propensa a un freddo sorriso. Era la staffetta di Juan e qualcuno affermava che sarebbe stata capace di uccidere per difenderlo anche da un oltraggio. E tutti sapevano che amava Juan di un amore sordo e violento, perché quando lui parlava con un’altra donna Maddalena spuntava d’improvviso sempre da qualche parte e aveva la faccia assente e spietata, come fatta di vetro. Non era bella, il corpo sgraziato, vestita da uomo, i suoi occhi avevano una luce piatta e bianca; ma quando Juan le metteva una mano sulla spalla bastava per farle schiudere le labbra in un tremore infantile di tenerezza.

  I partigiani avevano imparato a evitarla perché sospettavano che fosse una confidente di Charles Holland, ma lei lo aveva intuito e li ricambiava ostentando una dura indifferenza quando le passavano accanto. Ora, Cesira ricordando avrebbe voluto manifestare solidarietà a quella donna, ma non riusciva che a seguirla in silenzio e ancora si chiedeva dove trovasse tanto vigore. La vide arrestarsi, come l’avesse colpita un sospetto. L’uomo si volse e depose l’involto, poi avanzò sino all’orlo del prato. Tornò e disse: – Possiamo scendere -. Maddalena si avvicinò a Cesira, la osservò intensamente prima di chiederle: – Non è rimasto niente di lui, là dentro? – Ora fissava la casa. – Qualcosa, un fazzoletto… – ripeté. – Non credo, – rispose Cesira. – Stamattina ho ripulito nello stanzone. Non ho trovato niente -. Fu presa dall’idea di suggerire a Maddalena di salire in casa, perché guardasse anche lei, ma sentì che diceva: – Grazie di tutto, allora -. Poi la vide curvarsi e riafferrare con decisione i lembi intrecciati dell’involto, mentre l’uomo lo sollevava dall’altro capo. Rimase fermo all’orlo del prato, la mente piena di voci e di stridori, gli stessi che nella notte prima le avevano detto che cosa accadeva nello stanzone. L’uomo e Maddalena cominciarono a scendere.

  La discesa fu difficile, il sentiero non offriva appigli ed era coperto di mota vischiosa. Quando raggiunsero la strada ascoltarono il silenzio, non c’era che il sibilo della pioggia. Sollevarono con un solo strattone la salma e la incastrarono nel cesto della broscella. I piedi uscivano dalla coperta e sporgevano alti, come due pezzi di legno. I tetti delle case mandavano scuri riflessi di smalto. Maddalena e l’uomo si affiancarono all’incrocio delle stanghe e si avviarono senza parlare per la strada che portava contro le montagne più alte. Le nuvole cominciavano a sollevarsi, si scorgeva la cresta dentata del Marmagna dura e maestosa. Ora l’uomo sembrava più vecchio, procedeva curvo, esitante nei passi. – Sei stanco? – chiese Maddalena. Continuò a camminare come temesse che l’uomo accennasse a fermarsi.

  Lui invece si strinse più addosso alla stanga, poi si volse a guardare dietro. La pioggia era cessata. Tra le nuvole si affacciò una striscia di cielo, il vento ora veniva ampio da settentrione. – Forse domani ci sarà tempo buono, – disse l’uomo.

 

  La cronaca approssimativa di quello che riuscì a fare Maddalena si arricchì nella fantasia dei montanari e diventò subito leggenda. Il disseppellimento del cadavere e il suo trasporto nella notte tempestosa verso un luogo sconosciuto, dove, nessuno lo dubitava, aveva ricevuto la benedizione, era il riscatto della legge di Dio. Si disperse il senso di sgomento provocato dall’esecuzione di Juan. La fedele staffetta aveva ristabilito l’ordine della pietà, ora non era più la donna altera e scostante che non rispondeva al saluto dei bambini, la sua immagine splendeva nella cornice del rispetto. Nessuno si chiese dove Maddalena avesse sepolto il suo uomo e se realmente avesse chiamato un prete: preferirono riceverne la certezza dalla suggestione e immaginarono la salma di Juan dentro un crepaccio inaccessibile sull’alpe di Succiso.

  Al Comando della Brigata il caso fu discusso per gli effetti che doveva aver provocato tra la popolazione, ma si tenne conto che trafugando il cadavere Maddalena aveva contribuito a ristabilire un certo equilibrio in una situazione in cui cominciavano a manifestarsi reazioni contro il necessario rigore della guerriglia. Tuttavia la staffetta aveva sfidato e umiliato il Comando e ciò che più preoccupava era il sospetto che Maddalena intendesse istigare gli uomini più fedeli a Juan alla rivolta. – Lo farà, ne sono certo, – aveva detto Max. – La conosco bene -. Anche William era dello stesso parere. – Bisogna impedirglielo, – era scattato. – E bisogna spiegare alla popolazione che la guerriglia, anzi la guerra, è una cosa brutta per tutti -. Con una larga smorfia aveva aggiunto: – Anche per noi. Nel caso che non lo sappiano…

  Ilio mandò un rapporto al Comando Unico giustificando il seppellimento clandestino con la necessità di impedire, almeno in quei giorni molto difficili, celebrazioni esaltate e morbose da parte di alcuni partigiani che si erano opposti alla condanna del loro comandante. Ma dubitava che lo approvassero, sapeva di essere considerato un commissario dalle iniziative troppo personali, quasi nella stessa misura in cui lo vedeva il maggiore inglese, anche se questi aveva delle ragioni diverse e forse accettabili. Non ricevette risposta al rapporto, immaginò la freddezza dei superiori nel leggerlo e nel commentarlo, e trovò più utile prepararsi ad affrontare i nuovi gravi problemi che pesavano sulla Brigata. Non poteva certo immaginare che la mancata risposta dipendeva da un tragico episodio avvenuto poche ore dopo la consegna del suo rapporto al comandante Arta.

  Il problema da affrontare subito era quello della suggestione che regnava nel distaccamento comandato da Juan, una suggestione resa più viva e pericolosa dall’impresa di Maddalena. Occorreva parlare ai partigiani, spiegare che Juan aveva meritato la condanna, che altri erano morti contro il nemico, non per viltà. Ma era difficile, e quando trovò schierati gli uomini di Juan, immobili con le armi ostentatamente imbracciate, Ilio sentì che era inutile spiegare, chiarire, giustificare, quei giovani lo fissavano «con occhi pieni di polvere», come confidò dopo a Nardo: – Sentivo che a una parola sbagliata qualcuno mi avrebbe sparato.

  E fu Max ad alleggerire la tensione. Si mise a fianco di Ilio e guardò a uno a uno i partigiani colpendoli con lo scintillio freddo degli occhi. – Mi auguro che abbiate capito perché siamo venuti qui, – disse calmo. – La condanna di Juan è stata dolorosa anche per noi. Domani dovete eleggere il nuovo comandante -. Poi si voltò, rimase un attimo in attesa come si aspettasse una reazione, guardò Ilio, gli fece un cenno; insieme adagio si allontanarono e d’improvviso Max, senza voltarsi, disse a voce alta: – E state attenti. Abbiamo notizie di un prossimo rastrellamento.

  Tornando al Comando, lungo la strada Max distrasse Ilio raccontandogli episodi della sua infanzia ma poi s’interruppe per chiedergli che cosa avrebbe pensato Holland di quella brutta storia e che cosa avrebbe suggerito di fare. Il Maggiore aveva mandato a dire che aspettava i comandanti dei battaglioni il giorno dopo, al solito posto. – Non so come l’abbia presa. Non riesco nemmeno a immaginarlo, – rispose Ilio.

  – Immagino invece che cosa avrà detto Michele, purtroppo -. Al comando li aspettava William. – Dobbiamo andare subito, – egli disse. – Quello là ha mandato a dire che ci vuole vedere stasera -. Nella stanza attigua c’erano Lupo e Spumino. – Andiamo, – disse Ilio. – È meglio sapere subito che cosa vuole.

  Il Maggiore li salutò dal muricciolo che cintava il sagrato: come al solito la riunione si sarebbe svolta nella parrocchia di Monchio, il punto più lontano dalla pedemontana. I quattro partigiani non risposero al saluto, per istinto sentivano che Holland fingeva un’accoglienza cordiale. – Fa il filone, – sbottò William. – Poi farà il resto -. Ilio procedeva in testa deciso a non subire alcuna pretesa dell’inglese. Ultimo seguiva Lupo, distanziato, quasi che volesse mostrare quanto gli dispiacesse intervenire alla riunione. – Buonasera, – disse Holland tendendo con dolcezza la mano a Ilio.

  Nella saletta c’era un odore di mele, dai vetri la luce del tramonto acquietava il lungo corpo di Michael Tyler appoggiato alla credenza. Il Maggiore sedette al tavolo e fece cenno a Ilio di fare altrettanto, vicino a lui. Gli altri capirono che dovevano sedersi sulle seggiole disposte contro la parete. Holland distese le mani sul tavolo e sorrise ai tre partigiani di fronte. – Allora. Come va? – Il tono era troppo cerimonioso, la riunione cominciava male. Tyler era troppo duramente immobile. E fu lui a cominciare, proprio quando il Maggiore stava per farlo. – Perché dare a Tom incarico di esecuzione? Non è stato intelligente -. La sua voce risuonò aspra e sottile. Holland non seppe frenare un piccolo gesto di noia e lanciò un’occhiata a Ilio. – Non intelligente, – ripeté Tyler scuotendo una mano. La sua faccia si era avvampata, solo le tempie restarono azzurre. – Non intelligente, – gridò ancora, puntando gli occhi su Max. – Capito?

  Holland sollevò una mano senza guardare Tyler e Lupo vide il suo gomito toccare quello di Ilio. – Lasciamo perdere questo, – disse tranquillo il Maggiore. – Dobbiamo parlare di cose più importanti -. Era la prima volta che il Maggiore interrompeva in quel modo il suo subalterno. Lupo lo osservava di sfuggita per cogliere un altro suo gesto d’intesa con Ilio, ed ora Holland mostrava chiaramente di voler dirigere solo lui la discussione. Sorrideva, gli occhi dedicati all’arguzia. – Bisogna ristabilire rapporti buoni con popolazione. È molto importante. Anche Comando alleato così dice -. Parlava quasi con grazia, ignorando Tyler. – Le formazioni partigiane hanno necessità di aiuto e popolazione può dare aiuto. Ma occorre disciplina…

  Volse lo sguardo a Ilio, lo riportò vigile e cordiale contro gli altri, cedeva a loro la parola. Ilio si alzò lentamente. – Prima di tutto, – cominciò, – vorrei rispondere al signor Michael Tyler. Il plotone scelto per l’esecuzione all’ultimo momento si è rifiutato di obbedire. Non potevamo aspettare e Tom ha fatto quello che in quella situazione si doveva purtroppo fare. Capisco che poteva andare in un altro modo, ma il signor Tyler farebbe bene a non giudicare con superficialità… – Tyler scattò verso il commissario: – Cosa? Superficiale? Tu offendere -. Si ritrasse a un cenno di Holland, rinculò verso la parete. – Sì, superficiale, come sempre, – ribadì Ilio. – Anche il Maggiore si alzò e stavolta videro tutti che toccava il braccio del commissario. – Calma, ragazzi. Non parliamo più di questo -. Era la prima volta che diceva «ragazzi» e Tyler lo guardò stupito.

  L’affettuoso invito di Holland tradiva una insinuazione autoritaria, ma ognuno sentiva che da quel momento iniziava un nuovo metodo per conciliare i contrasti e che il Maggiore aveva capito finalmente una realtà da troppo tempo ignorata. – Devo avvertire, – riprese egli, – ho ricevuto avviso di lancio. Sarà presto -. Indugiò prima di ammonire: – Però più disciplina in brigata vostra -. Terminò con malizia: – Armi e vestiti, speriamo bene distribuiti -. Tyler tornò alla carica. – Disciplina, soprattutto il «Griffith», soprattutto -. Stavolta fu Lupo a scattare: – Basta col «Griffith», basta per la Madonna, cominci a romperci i coglioni, Tyler…

  Holland aspettò impassibile che Lupo si sfogasse, poi seppe cogliere l’attimo giusto per innalzare il suo prestigio. E lo fece con maestria offrendo quello che di meglio aveva la sua faccia. Levò lentamente le braccia a croce e con la punta delle dita sfiorò il capo di Ilio. – Ora andiamo. Verrò io in Brigata, per il resto, –   disse compiaciuto e regale. Si avviò alla porta e i partigiani furono sicuri che non avesse rivolto una sola occhiata a Tyler, e che lo avesse fatto di proposito.

  Il sole era già quasi tutto dietro i crinali, si annunciava una sera stupenda. Il Maggiore trattenne Ilio per un braccio, mentre gli altri erano già nella strada. – Però, quella donna, molto forte, – disse piano. Siccome Ilio fingeva di non capire aggiunse quasi sillabando: – Maddalena.

 

  Nell’Appennino emiliano le brigate partigiane combattevano in condizioni particolarmente difficili, chiuse tra il fronte della Padana e la Linea Gotica. Da alcuni documenti trovati indosso a ufficiali tedeschi catturati durante la ritirata dell’aprile 1945, si apprese poi come il Comando Operazioni Antipartigiane avesse sempre considerato assai temibile la «continua penetrante azione dei ribelli» in quel settore e come due brigate fossero ritenute estremamente pericolose: la 47ª e la 26ª.

  La prima operava lungo il versante di sinistra dell’Enza, la seconda nel versante di destra, nel Reggiano, ed ambedue, composte in prevalenza da operai, amavano portare i loro attacchi sino alle rive del Po. Per questo, nelle zone presidiate dalla 47ª e dalla 26ª più frequenti e feroci furono le puntate delle truppe nazifasciste.

  Anche il maggiore Holland riteneva pericolose queste due brigate, ma la sua era una considerazione rispettabile e accettabile, poiché egli, da fedele suddito di S. M. Britannica, temeva una eccessiva prevalenza dell’ideologia comunista, e Ilio e Eros, rispettivamente commissari politici della 47ª e della 26ª non nascondevano la loro opinione nei riguardi di un nuovo riordinamento sociale.

  La zona presidiata dalla 47ª era una delle più difficili di tutto l’Appennino emiliano. Intersecata da numerose strade, per due terzi poco montuosa, priva di boscaglie e assai povera di risorse naturali, presentava grandi difficoltà tattiche e di assistenza. I rastrellamenti si susseguivano uno dietro l’altro e la 47ª dovette affrontarli subendo spesso gravi perdite. Charles Holland tenne sempre conto di questo svantaggio, anche se richiese i lanci per la Brigata dopo minuziosi calcoli di genere esclusivamente cautelativo.

  Tre giorni dopo quella notte in cui Tom esegui la condanna di Juan, una staffetta portò al Comando della 47ª una grave notizia. Una colonna di SS, guidata da un ex partigiano, Mario «lo slavo», aveva circondato col favore della nebbia, il mattino del 17, la sede del Comando Unico a Bosco di Corniglio. L’attacco aveva sorpreso i comandanti partigiani e ad essi non restò che difendersi disperatamente, undici uomini contro duecento tedeschi armati di mitragliatrici e bombe a mano.

  Pablo cadde sparando l’ultimo colpo contro il tedesco che gli piombò alle spalle, colpito da una raffica alla gola. Renzi, dopo aver scagliato le uniche due bombe che aveva, fu crivellato da una cinquantina di proiettili, e altri tre partigiani caddero fulminati mentre tentavano di portarsi al piano superiore della casa. Gli altri sei, tra cui il Comandante Unico, Arta, e il commissario Mauri, riuscirono a salvarsi gettandosi tra le rocce di un canalone.

  La notizia corse tra i distaccamenti come una folata gelida. I montanari parteciparono con sincero dolore alla costernazione della 47ª, nel tepore delle stalle i bambini parlavano sommessi e ascoltavano il passo grave dei partigiani risuonare lungo le strade. Pareva che una mano enorme avesse spiaccicato nel fango tutto quello che si erano abituati a vedere e a capire giorno per giorno, e pensavano a Max, a William, a Ivan, a Franci, a tutti gli altri che erano diventati a poco a poco i personaggi di una grande favola fatta di vicende tristi e allegre, una grande terribile storia che ogni giorno sempre più li affascinava e che ora pareva soltanto un avvilente, oscuro presagio.

  La 47ª subì il colpo. Giunsero i particolari del sanguinoso episodio, per un momento i partigiani dell’Enza sentirono il vuoto aprirsi senza limiti intorno alle speranze e restarono immobili negli accantonamenti come aspettassero un’altra e più nefasta notizia.

  Il nome di Pablo era un’ombra dolorosa che si stendeva nel loro animo e la morte dell’eroico comandante sembrava l’annuncio di nuove tragedie. E anche Renzi era morto, e lui rappresentava la tenacia, la volontà di combattere e di vincere, perché tutti quelli della 47ª sapevano chi era Renzi, come egli fosse uguale a Pablo, anche se erano diversi per condizione sociale e per ideologia; e come entrambi fossero stati in ogni momento una sola forza, una sola decisione contro i nemici del movimento partigiano.

  Ma lo sgomento durò pochi giorni e Ilio diede subito l’esempio di come si doveva reagire al dolore. La sera del 18 i comandanti della 47ª si riunirono e fu presente anche Tyler. Si discusse l’eventualità di un vasto rastrellamento, il quale, come aveva trasmesso la radio repubblichina, avrebbe finalmente annientate le forze partigiane dell’Appennino emiliano. Tyler suggerì un dispiegamento più serrato nella pedemontana e promise l’immediato richiamo di lanci per rafforzare la Brigata con armi pesanti. William insisté che ciò avvenisse immediatamente e precisò che occorrevano fucili mitragliatori e mine anticarro. Parlò con tranquillità, ma la sua voce tradiva l’amarezza per non aver ottenuto molto prima ciò che ora Tyler riteneva necessario concedere. «Mi raccomando, Michele. Stavolta che non ci siano storie!» fece prima di uscire. Tyler lo guardò con aria grave, mosse appena il capo, e i suoi occhi non ebbero la solita luce fredda e distante. Per questo, William aprì la porta lentamente e rivolse all’inglese una specie di saluto.

  Il mattino del 24 ottobre, mentre il 1º e il 3º battaglione fermavano con aspri combattimenti un grosso reparto di tedeschi ai piedi del monte Fuso, due «Douglas» lanciavano nei pressi di Palanzano le munizioni richieste da Tyler.

  Il «Griffith» e il «Pontirol» si erano assestati sul passo di Lagrimone per ostacolare il passaggio del nemico nel caso esso fosse riuscito a forzare lo schieramento. I due grossi «Douglas» poterono lanciare tranquillamente il materiale richiesto e Tyler a sua volta poté con esasperante lentezza elencarlo e assegnarlo, mentre Max sorrideva ai partigiani sparsi sul pendio.

  C’era in gran parte quello che William desiderava e Max esegui la distribuzione, a seconda delle varie necessità dei distaccamenti, tenendo conto soprattutto del nuovo dispositivo tattico elaborato da Nardo.

  Infaticabile, attento, curvo sulla carta topografica, in quei giorni Nardo fu l’anima della Brigata e lo fu con la solita modestia che lo rendeva schivo di ogni superficiale riconoscimento. La sua onesta vita di ufficiale si era ravvivata al contatto delle tragiche vicende della guerriglia ed egli si era fatto partigiano cosciente di una libertà che non accettava più le scorie del passato. Aveva capito la 47ª, questo era tutto per la sua dedizione di combattente e la 47ª imparò da lui molte cose. Quelli del «Griffith», che sino al giorno in cui furono deposte le armi passò per il distaccamento più turbolento e insofferente di tutto l’Est Cisa, scoprirono nella seria faccia di Nardo quella solidarietà umana e sociale che andavano cercando in altri personaggi dei vari comandi e gli obbedirono nello stesso modo che obbedivano a Corrado.

  Le brigate si disposero a resistere al nuovo grande rastrellamento che già si sentiva nell’aria. Le notizie del SIM non ammettevano dubbi e arrivavano sempre più fitte, anche se non sempre precise. I patrioti che ancora agivano a Parma osservavano le mosse del nemico per quel tanto che era loro possibile e inviavano avvertimenti che indicavano con sufficiente crudezza quali erano le intenzioni di Kesselring. Infine, ciò che più toglieva qualsiasi speranza in un periodo tranquillo era proprio l’aria grave di Tyler, il quale visitava spesso i comandi dei distaccamenti con l’apparente scopo di constatare se erano rimasti soddisfatti dell’ultimo lancio.

  Anche Ilio, accompagnato spesso da Colombo, visitava notte e giorno i distaccamenti, ma la sua visita conservava la sbrigativa rudezza che il bruno commissario usava sempre quando fiutava il pericolo. Colombo aveva poi un modo tutto suo nel far intendere ai partigiani che non bisognava abbandonarsi a incertezze di sorta e toccava sapientemente ogni tasto per risvegliare la volontà di resistere ad ogni costo. Sapeva di non essere molto simpatico a Holland ma non diede mai segno di provarne amarezza, perché da molti anni aveva imparato a tener conto, come lui diceva, delle cose estremamente necessarie.

 

  L’alba del 20 novembre un colpo di fucile echeggiò solitario nel fondo valle, sotto il versante di Ramiseto.

  Per la 47ª Brigata Garibaldi, quel colpo, che in altri momenti non avrebbe attirato troppa attenzione, fu l’inizio del più vasto e sanguinoso rastrellamento che dovette subire nel corso della guerriglia.

  Quando l’eco della fucilata si spense, il parroco di Pratopiano, che tutta la notte aveva pregato vicino al fuoco, si accostò alla finestra e guardò sui crinali di là dell’Enza, dove pigra e giallastra ondeggiava una striscia di luce. Grosse nuvole nascondevano il passo sopra Nirone.

  – Pioverà anche oggi, – mormorò meccanicamente. Il suo pensiero era rimasto tra le cose del giorno prima. Aveva visto passare lunghe file di partigiani gravi e silenziosi e Max, di solito cosi allegro e scanzonato, andare su e giù tra le coste sotto Ranzano con aria preoccupatale anche William era partito con Spumino dopo un rapido colloquio con Tyler, il quale aveva anche lui la faccia stranamente assorta.

  Aprì i vetri e rabbrividì stringendosi sotto il mento la sciarpuccia di lana nera. Il sordo fragore del torrente portava sotto le ombre della vallata il cupo residuo di una notte angosciosa ed ora il prete, piccolo, mite, il volto segnato dalla veglia, pensava ai suoi parrocchiani che stavano nelle stalle, gli uomini pronti a fuggire con le coperte e il tascapane, i bambini stretti alle donne nel buio, e udiva continuo dalle stalle il suono delle catene per le bestie che si agitavano.

  Tornò presso il camino, soffiò con la canna di ferro sul ceppo e breve guizzò la fiamma. Vi spinse accanto il pentolino con l’infuso d’orzo e tornò a pregare. Udì dei passi nel sagrato, una voce lunga dalle case alte del paese, poi ancora il silenzio che aveva fasciato la notte.

  Ora sedeva nel vecchio seggiolone, le dita tra le pagine del breviario. La fiamma si era spenta. Egli pregava, una preghiera comune a tutti: – Dio mio, fa’ che non succeda… – L’aria fredda entrava dalla finestra aperta. E in quel momento, mentre solo gli pareva di sentire il battito della sveglia sulla credenza, una raffica di mitragliatrice batté secca sotto la strada.

  Il parroco di Pratopiano aspettò pregando l’arrivo dei tedeschi e questi arrivarono nel sagrato verso le otto. Una parte della colonna proseguì in direzione di Lalatta. Avevano mitragliatrici e due mortai coperti da tela cerata. Salivano l’erta sassosa con passo eguale, profondo, e il parroco li vide sparire sotto i castagni come enormi insetti in cerca di cibo.

  Una diecina si fermarono davanti la canonica e un sergente batté sulla porta col calcio del fucile. Il parroco si sporse dalla finestra e fece cenno col capo. Il sergente non disse nulla. Batté ancora più forte il calcio dell’arma. Improvvise crepitarono raffiche dal bosco quando il sergente scostando brusco il prete entrò nell’andito.

  Era massiccio e potente nella tuta mimetizzata, e teneva le braccia piegate sui fianchi. Entrò nella cucina e girò intorno al tavolo per mettersi con la schiena contro il camino. Aveva un viso sottile, da convalescente. – Qui partisani, – disse occhieggiando sulle pareti. – Tu amico partisani -. Sembrava recitasse una formula imparata in caserma, aveva l’aria di aver visto altre cucine simili a quella, continuava a guardare contro le pareti come volesse nascondere gli occhi al prete. – Tu amico partisani, – ripeté. Si voltò lentamente, il suo corpo si stagliò contro il chiarore delle braci; per un attimo apparve come una carica di violenza vicina a scoppiare.

  Il prete non ebbe più paura. La sentì svanire nella profondità delle viscere. Guardava le spalle del sergente e ascoltava i rumori sul sagrato, pensava ai soldati che aspettavano gli ordini per andare a uccidere. – Molti partisani, – ripeté il sergente senza voltarsi. Si era avvicinato col ventre alle braci, una guancia arrossata dal chiarore. Il prete pensò che fosse tenera, non cattiva. – Molti, in bosco, montagna, – continuava a ripetere il sergente. Poi, con voce diversa, insinuante. – Tu sapere. Devi dire -. Ma non c’era durezza né convinzione nelle sue parole.

  Il prete era sicuro di non aver più paura per la propria vita e improvvisa sentì la morsa dell’angoscia per ciò che sarebbe accaduto quando i tedeschi avrebbero ripreso a salire nel bosco. Il silenzio che ora lo separava dal tedesco, il palpito morente delle braci, gli davano la sensazione di una conclusione inarrestabile.

  – Perché fate questo? – disse. – Dio vi guarda… Non dovete… – Sentiva di balbettare, il sergente restava rigido contro il camino. Egli d’improvviso disse: – Dio, ja, gott, guerra -. Si voltò, ancora gli occhi contro le pareti. – Ja, Dio… – ripeté assorto. – Guerra.

  Si diresse alla porta e si arrestò di fianco al prete. Da fuori venne il trepestio dei soldati, colpi di fucile lontani, poi un grido di donna ingelidito dal vento. – Pochi partigiani… non cattivi… – disse il prete. Gli tremava la voce. – Non cattivi… – Sentiva il respiro del tedesco, si chiedeva che cosa avrebbe fatto ora, ma non pensava alla propria esistenza. Lo guardò con fermezza e solo allora si accorse che il sergente aveva un occhio immobile, senza luce. – Vi prego… – mormorò. – Non uccidete… – e capì quanto fosse inutile, terribilmente vano implorare; il sergente aveva detto chiaramente: – Guerra -. Nel sagrato i soldati lo aspettavano: battevano i fucili sulle pietre.

  – Tu amico partisani, – senti la voce del sergente alle spalle. – Loro uccidere noi… Noi uccidere loro… – Non era una voce cattiva, il sergente sembrava giustificarsi, stava di traverso guardando il prete con l’occhio sano, la mano contro l’uscio. – Tu non capire -. E ancora ripeté: – Guerra -. Aprì l’uscio, tornò a guardare nella cucina, le braci erano spente. Richiuse l’uscio, adagio. Il prete udì i suoi passi risuonare pesanti nell’andito, poi la sua voce stridula nel sagrato. Ora era una voce violenta, il sergente riprendeva il comando.

  Dalla finestra li vide penetrare curvi sotto i castagni. Riprese a pregare: – Mio Dio, fa’ che non succeda…

  Da quel momento, nella ferma luce di morte intorno al Caio, tra gli scoppi dei mortai, crepitò, diffusa come una terribile pioggia di ferro, la fucileria dei diecimila soldati tedeschi cui era stato affidato il compito di annientare le formazioni partigiane.

Tutti gli avamposti furono travolti e le SS salirono per le mulattiere e per i costoni sparando ciecamente contro le siepi e i pagliai, contro le case, su ogni punto che poteva nascondere un uomo. Usarono i lanciafiamme, incendiarono a volontà ogni cosa che attraesse il gusto della distruzione, gridando come ossessi intorno ad ogni cosa distrutta.

  Tutti i distaccamenti impegnati si difesero disperatamente. Nella vallata del Parma tennero duro la 12ª Garibaldi, la «Giustizia e Libertà», la 3ª «Julia», arretrando nelle posizioni più alte, dividendosi in gruppi di pochi uomini per meglio sfuggire all’accerchiamento. La 47ª si divise in due monconi.

  Il 2º Battaglione si portò su una altura presso Ruzzano, deciso a resistere sino all’ultimo uomo. Vicini all’unica mitragliatrice che possedevano si erano messi Max e Spumino. Il 1º Battaglione stava sul Fuso pronto a scendere verso il passo di Lagrimone, ma ricevette l’ordine di restare in postazione per sorvegliare un’eventuale puntata nemica dalla parte di Scurano.

  I carri blindati tedeschi si fermarono davanti al ponte crollato sulla Bardea e spararono ininterrottamente sui costoni del Caio, dove c’era il «Griffith», il «Pontirol», il «Nadotti». Da Reno, Tizzano e Agna sparavano i mortai per snidare i distaccamenti della 12ª, mentre colonne di mongoli si addentravano nelle forre e salivano su per i canaloni lanciando granate a mano. Tutta la grande montagna che costituiva il perno difensivo delle brigate fu investita da un uragano di fuoco e sulla cima invisibile si addensarono fosche le nubi.

  Sul monte Faggeto la lotta divampò terribile, senza un attimo di sosta, e dopo quattro ore di fuoco i tedeschi occuparono Palanzano. Il comandante della 47ª, Ivan, il vicecommissario Franci, e altri cinque partigiani, salirono all’ultimo momento su un camioncino e si diressero alla volta di Monchio per avvertire i distaccamenti che stavano portandosi sul passo di Zibana del nuovo pericolo che si affacciava alle loro spalle. Alla svolta di Lugagnano la raffica di una mitragliatrice tedesca li falciò tutti e sette.

  Quando scese la sera del 20 novembre il Caio si ricoperse di silenzio. I partigiani, accucciati tra le pietraie, aspettarono immobili l’oscurità e ciascuno pensò a quello che sarebbe accaduto il giorno dopo. La pioggia cadde tutta la notte, lenta, minuta, incessante e fu una lunga notte col fragore sottile e lontano dell’Enza nel fondo della vallata, le case invisibili sulle coste, i paesi come ricordi, ed ogni cosa che non si vedeva era come se dovesse irrompere violenta e inarrestabile con le sembianze di un orribile mostro coperto di tela cerata, e in ogni punto nell’oscurità, tra i vaghi profili di un sasso o di un tronco di castagno, il rumore più lieve era quello della ferocia pronta a colpire e a distruggere, appena fosse ritornata la grigia luce dell’alba.

  E fu come ciascuno aveva previsto. Riapparve la striscia di luce sui crinali e ricominciò la distruzione, da ogni parte, sotto la tetra nuvolaglia che copriva le montagne, dal Caio al Vercellino, dal Succiso alla pedemontana, i diecimila tedeschi del generale Kesselring ripresero la loro opera e fecero esattamente tutto quello che il loro Comando aveva deciso segnando tratti rossi sulle carte topografiche.

  Quello che accadde nei giorni 20 e 21 novembre fu poi minuziosamente descritto nella relazione di Nardo. Le brigate impegnate negli scontri ebbero 150 tra morti e dispersi, la 47ª ne ebbe 37, e il parroco di Pratopiano pregò a lungo nella piccola chiesa insieme con le donne e i bambini, mentre verso la pianura rombavano sinistre le colonne motorizzate della «Hermann Goering».

  I corpi di Ivan, Franci e degli altri cinque partigiani furono ritrovati sul ciglio della strada e trasportati in una casa vicina. La casa era deserta e i cadaveri furono deposti nella piccola stanza attigua alla cucina. Toti, che era cugino di Franci, li ripulì dal fango, poi arrivò Ilio e più tardi comparve Tyler.

  Quando l’inglese entrò, i sette corpi, bagnati di pioggia, stavano scuri e rigidi, allineati sul pavimento, e solo la faccia era una macchia chiara nell’ombra. Nella cucina Toti stava accendendo il fuoco. La pioggia aveva ripreso a cadere, tornava la sera, sulla strada passavano squadre di partigiani.

  Sui cadaveri svaniva il tremulo riverbero del fuoco. Toti pensava che nessuna cosa al mondo avrebbe potuto farli ritornare nella 47ª e chissà cosa essi avevano visto o creduto di vedere alla svolta della strada. Chissà cosa stava dicendo Franci prima di quella svolta. Tre giorni prima aveva detto di essere contento dei suoi uomini. Era stato quando era venuto a Ranzano per ricevere gli ordini del nuovo schieramento. Aveva avuto notizie di suo padre e di sua madre. Poi era ripartito con Ivan e avevano fatto un tratto di strada con Tyler, sino a Selvanizza. Toti pensava a queste cose e fissava i corpi allineati contro la luce del fuoco.

  Entrò Tyler e sedette sulla panca. Toti si spostò, fece un gesto col mento verso la porta, come volesse indicare qualcosa. Si udiva fuori della casa solo il rumore della pioggia.

 

  Ancora una volta tutto era da rifare per la vecchia 47ª, mentre la radio fascista annunciava «una schiacciante vittoria delle truppe tedesche sulle bande dei ribelli» e ancora una volta Ilio, William e Max andavano da un distaccamento all’altro per rincuorare gli uomini e riordinare lo schieramento.

  Le perdite erano state gravi, ma il maggiore Charles Holland paté constatare di persona come il morale dei partigiani, dopo la prima scossa violenta, fosse tornato più vivo di prima, e la mattina del 23 novembre, quando incontrò Max sulla strada di Palanzano, ne ricevette una prova.

  – Ciao, Maggiore, – lo salutò Max. Il Maggiore non tradì alcun segno di dispetto per quel tono confidenziale. Max era dimagrito, più scintillanti gli occhi celesti, ma senza quello strano velo di ironia che aveva colpito nei primi tempi l’inglese. – Ciao, Max, – gli rispose cercando di pronunciare il saluto con distaccata cordialità.

  Entrarono nell’osteria sotto il paese e Holland cavò dal giubbotto la fiaschetta colma di whisky. Max ne bevve un lungo sorso e chiese una sigaretta. Poi fecero il conto di come stavano le cose e discussero a lungo. Max dichiarò che ora occorrevano altri lanci.

  Holland assentì con lieve titubanza, ma fu una pausa quasi impercettibile prima di pronunciare – Yes, giusto, – e Max finse di non accorgersene. L’inglese, pensava, ha imparato a conoscerci. Ma è sempre un inglese. Però è simpatico. – Bene, Maggiore, – disse Max. – Così potremo rimetterci in forza alla svelta.

  Le cose, però, al punto in cui Max e Holland le avevano esaminate e discusse, non presentavano confortanti prospettive e c’era inoltre il timore che la popolazione della zona ritenesse lo spietato rastrellamento una conseguenza della «inutile guerriglia» e che potesse perciò covare un rancore passivo ma non per questo meno pericoloso. Ilio, in modo particolare, dubitava dell’amicizia dei montanari e sospettava che i parroci facessero un’opera volutamente denigratoria nei riguardi della 47ª. I suoi sospetti in parte non erano infondati. Non sempre la voce dei preti chiariva gli aspetti della dura necessità determinata dalle incalzanti situazioni. Anche William era della stessa opinione e lo era con gesti e parole che non ammettevano dubbi. Con la sua schiettezza egli non poteva accettare che non si capisse interamente il sacrificio dei partigiani e di questo gli diede atto anche il Maggiore.

  La situazione era allarmante e fu tenuta una riunione per concertare nuovi sistemi nei rapporti futuri con i montanari, i quali non erano da ritenersi colpevoli per quel loro atteggiamento passivo, poiché in realtà avevano subito molti danni nei lunghi mesi di guerriglia.

  Non era un’opera facile renderli coscienti dell’immutabile realtà, ma Nardo disse che ciò poteva essere realizzato convincendo i partigiani ad assumere un contegno meno sospettoso e brusco, come spesso accadeva. Nardo fu abile e saggio, egli capiva che alle brigate occorreva l’aiuto della popolazione e a questa l’amicizia più aperta di tutti i partigiani.

  Il grande rastrellamento aveva dimostrato che la salvezza delle formazioni dipendeva, oltre che da una maggiore efficienza nei fianchi dello schieramento, anche dall’aiuto dei civili e occorreva quindi organizzare squadre di collaboratori affidando loro compiti secondari, quali potevano essere un’assidua sorveglianza lungo i confini e una capillare organizzazione di vettovagliamento. Nacquero così i SAP, e, quando venne l’inverno, le brigate furono meno esposte agli attacchi improvvisi delle truppe tedesche. Giovani volenterosi, vincendo le prime titubanze, si costituirono in una mobilissima rete di appoggio e diedero presto la prova di aver capito definitivamente la causa per cui combattevano i vecchi guerriglieri.

  Un altro grave problema era la difesa delle centrali elettriche e dei bacini dell’alta valle dell’Enza e Holland dichiarò che il Comando Alleato contava molto sull’opera della 26ª e della 47ª Garibaldi, le quali presidiavano la zona in cui si trovavano gli impianti. Intorno ad essi furono dislocati reparti muniti di armi pesanti e i SAP ebbero il compito di una minuta sorveglianza lungo le strade di accesso.

  Durante la riunione non si dimenticò di fare il conto di altre cose avvenute nel corso del rastrellamento e oscura risultò, dopo una lunga discussione, la scomparsa di Tom.

  Egli, dopo aver accompagnato Ilio verso Lagrimone durante l’attacco iniziale delle SS, si era eclissato senza lasciare alcuna traccia. Nessuno in quel momento poteva pensare a quello che Tom avrebbe potuto fare e Ilio lì per lì non aveva dato peso a quella scomparsa, ma in seguito, quando taluni atteggiamenti dell’uccisore di Juan, prima inosservati, si ripresentarono alla mente, molti partigiani cominciarono a sospettare che Tom fosse tutt’altro tipo di quello che avevano sino allora creduto. Scheggia più degli altri s’infervorò nel tracciare le ambigue maniere di colui che dal fondo dell’animo aveva sempre odiato.

  Anche Ilio fu preso dai sospetti e, siccome Tom era stato la sua guardia del corpo, ne provò maggiore inquietudine. Per un piccolo residuo di dubbio ritenne opportuno dichiarare che occorreva avere in mano prove sicure prima di accusare Tom di tradimento, ma tutti oramai sentivano che Tom, il «milanese», aveva tradito e che forse era sempre stato una spia dei fascisti.

 

  Ai primi di dicembre la 47ª aveva riordinato i suoi ranghi, c’erano stati due lanci e il Comando poteva considerare la situazione meno allarmante. Ma le notizie dal fronte non davano conferma di una prossima avanzata.

  Gli Alleati erano fermi sulla riva del Senio e a Castelnuovo di Garfagnana. Quelli del «Griffith», quando ascoltavano i comunicati non nascondevano la loro contrarietà e tiravano fuori certe parole che facevano rabbrividire il piccolo prete di Pratopiano, il quale ogni giorno era a contatto col distaccamento e spesso passava le sere giocando a carte con Pilade, Vezio e Corrado, i tre uomini che avevano saputo dare una fisionomia inconfondibile al distaccamento più temuto della brigata.

  Anche il parroco pensava alla strana immobilità del fronte e qualche volta non nascondeva un gesto di sconforto. Egli amava la sua gente, desiderava la fine dei pericoli che intuiva addensarsi ancora col ritorno dell’inverno e sapeva che ormai più arduo stava facendosi il problema di procurarsi i viveri.

  Ai primi di dicembre Michael Tyler disse a Ilio che la possibilità di una prossima avanzata delle truppe alleate era da scartarsi. Il colloquio si protrasse sino a tarda notte e il commissario della 47ª espose francamente il suo parere sui nuovi disagi che si prospettavano con quella notizia. I partigiani erano stanchi, male equipaggiati, se resistevano ciò dipendeva dal fatto che essi odiavano i nemici e il Comando Alleato non si rendeva conto della loro situazione, come essi si trovassero tra due fuochi e con la crudezza dell’inverno che già si annunciava.

  Tyler, dopo aver tentato di spiegare i vari problemi che probabilmente ostacolavano l’avanzata, ammise di essere a sua volta molto preoccupato per quanto poteva ancora capitare alle formazioni partigiane e non gli restò che chiedere a Ilio di rafforzare la sua opera di organizzatore e di rianimatore. – D’accordo su questo, Michele, – gli rispose il commissario. – D’accordo perfettamente -. Poi, con tono apertamente ironico: – Mi farò aiutare da Colombo. Dillo anche a Holland.

  – Ohoo, sì, – rispose Tyler. – Bene, Colombo! – Cavò fuori la pipa e, come faceva quando intendeva nascondere un’ombra di dispetto, l’accese lentamente. – Certo, proprio Colombo. Non ti pare giusto? – ribadì Ilio.

  Tyler riprese nella notte il cammino verso Monchio, dove lo aspettava un ufficiale del Comando Alleato. Costui, come si apprese in seguito, era un tipo di ragazzone alto quasi due metri che aveva già varcato sei volte le linee tedesche, guidato da un giovane pastore di Comano.

  Qualcosa di molto importante doveva aver riunito quella notte i componenti la Missione. Essi si chiusero nel salottino della canonica e discussero sino all’alba, mentre squadre di partigiani sorvegliavano le vie di accesso. Nella stessa ora anche i comandanti della 47ª discutevano, dentro una piccola casa in riva al Bardea, ma si trattava di un argomento che non poteva interessare la Missione Alleata, poiché riguardava soltanto la necessità di mettere certe persone in condizione di non nuocere alle future operazioni della Brigata.

  William aveva compilato una lista di queste persone e, se alcune di esse furono escluse dai provvedimenti decisi per altre, in seguito tale generosità fu pagata piuttosto cara. William non era il tipo da lasciarsi disorientare dall’animosità, e il suo fiuto di vecchio guerrigliero raramente sbagliava. Ma in quella riunione prevalse l’indulgenza e William dovette cedere alle ragioni di chi riteneva opportuno ridurre il numero delle persone sospette.

  Il mattino seguente lui e Spumino si avviarono verso Campora, dove li aspettava Afro con i suoi uomini. Rifecero per conto loro una seconda riunione, come ai tempi del vecchio «Don Pasquino», e concertarono alcuni sbrigativi emendamenti che, non portando il segno dell’indulgenza, diedero poi ottimi risultati.

  Di là del lungo ponte che varcava l’Enza, in una grande casa subito fuori di San Polo c’era il tenente Hetter. La casa era grande, protetta da cavalli di Frisia, e il tenente, che comandava una cinquantina di tedeschi, era diventato noto per la sua specialità di piombare molto tempestivamente sulle squadre dei partigiani che si avventuravano verso la pianura.

  La «specialità» di Hetter consisteva nell’entrare in una casa colonica a breve distanza dalla strada, rinchiudere gli abitanti in una stanza, e aspettare. Una volta, quando sorprese Drago e Moschetto, rimase in agguato tre giorni e tre notti, e i suoi soldati, forse per ripagarsi della lunga attesa, dopo aver uccisi i due partigiani gli cavarono gli occhi.

  Hetter era molto scaltro, sapeva fiutare i giorni buoni per le sue sortite, e Afro trovò il modo di avvisarlo che ce l’avrebbe messa tutta per riuscire a prenderlo vivo. Una sera, un biglietto arrivò nell’ufficio del tenente attraverso la finestra, legato ad un sasso, e Hetter, dopo che l’interprete lo ebbe tradotto, uscì con i suoi uomini e per un’ora terrorizzò il paese.

  Afro si era reso conto che catturare quel maledetto tenente era un’impresa quasi impossibile, ma quel mattino a Campora chiese a William cinque uomini decisi a tutto da unire alla sua squadra, e completa libertà d’azione per una quindicina di giorni. – O io o lui, – disse, quando William aderì alla richiesta.

  Afro non usò mai parole superflue durante la guerriglia e se disse così era segno che aveva veramente deciso di mettercela tutta, proprio come aveva scritto nel biglietto lanciato al tenente tedesco. William gli indicò gli uomini adatti e Afro li radunò due giorni dopo a Lupazzano.

  La sera del 12 dicembre si appostarono in una baracca di legno sulla riva dell’Enza e attesero l’arrivo di un SAP di San Polo, col quale Afro aveva preso accordi tre giorni prima. Da lui aveva saputo che Hetter, dopo cena, si recava solo nella casa della sua amante, una maestra elementare capitata a San Polo due mesi prima.

  La donna era bella, credeva nella vittoria delle armi segrete e aveva libero accesso al comando tedesco. Di lei si raccontavano, forse con esagerazione, imprese feroci, ma in fondo tutto questo era una faccenda da chiarire dopo, perché ora quello che contava era catturare vivo, se era possibile, quel cane di Hetter. Afro pensava a questo mentre aspettava il SAP dentro la baracca.

  Il SAP arrivò alle 22. Il suo breve fischio ripetuto tre volte scosse i partigiani e Afro avanzò nel buio verso la scarpata su cui passava la strada che portava dietro il paese. Il SAP stava acquattato dietro un mucchio di ghiaia e confermò che a quell’ora Hetter era nella casa dell’amante. – Andiamo, – fece Afro, senza aggiungere altre parole.

  Quando penetrarono tra le prime case, un’auto passò veloce a pochi passi e per un momento Afro pensò a un tradimento. Sulla macchina scorse cinque o sei tedeschi col mitra imbracciato. Fece segno di buttarsi a terra pronti a sparare, ma l’auto dopo una breve sosta, riprese a correre dentro il paese. – È la solita perlustrazione, – soffiò il SAP dietro le spalle di Afro. – Andiamo, – ripeté questi. – Vai avanti tu, ora.

  Erano ormai vicini alla casa. Si vedeva un filo di luce verde tra le imposte serrate. Si portarono sotto il porticato attiguo, Afro guardò l’orologio e bisbigliò nell’orecchio del SAP: – Sono quasi le undici -. Il SAP gli toccò il braccio. Stava accadendo qualcosa. Restarono immobili, senza respiro, e solo le mani si muovevano dure stringendo l’arma.

 

  Quando a William raccontò com’erano andate poi le cose, Afro convenne di aver avuto una sfacciata fortuna. William lo ascoltava con la solita aria corrucciata, ma i suoi occhi seguivano lucidi e felici le parole di Afro; e questo accadeva la sera dopo che Hetter fu catturato nel cortile.

  – Non credevo che potesse andare così bene. Vero, Scheggia? – cominciò Afro, mentre Scheggia, che stava ripulendo il suo sten, assentiva curvo e disattento come si trattasse ormai di un episodio remoto.

  – Eravamo fermi sotto il portico e siccome il SAP mi aveva toccato il braccio per avvertirmi che stava accadendo qualcosa credetti lì per lì che arrivassero altri tedeschi. Invece si aprì la porta e apparve una donna con uno scialle. Aveva le ciabatte, rideva tenendosi una mano contro la bocca. Scorgevo una figura dietro di lei che ogni tanto le metteva qualcosa tra i capelli. Non avevo capito subito che si trattava di Hetter. Si divertiva a stuzzicare la donna sfarfugliandole i capelli con la mano. Mi mancò quasi il respiro e avevo una tremenda paura che qualcuno dei miei facesse un rumore qualsiasi, che gli sfuggisse un colpo di tosse. Invece andò tutto bene e Hetter, dopo aver baciato la donna, uscì e si voltò ancora verso la porta ridendo. Anche la donna rideva e vedemmo bene che era in vestaglia. Poi, dopo alcuni istanti che mi parvero un secolo, essa richiuse lentamente la porta. Hetter era solo e si avviò verso il cancello. Gli piombammo alle spalle e lui non disse nulla. Scheggia gli tamponò subito la bocca col fazzoletto e Meco gli legò le mani. Tutto qui.

  La parte più difficile dell’impresa, il ritorno con Hetter attraverso l’oscurità sino alle coste di Bazzano, guadando l’Enza con l’acqua sino al collo, e i tedeschi che accortisi della cattura correvano verso il torrente sparando razzi luminosi e raffiche di raganella in tutte le direzioni, Afro non la raccontò.

  Capiva di aver detto sin troppo, non voleva passare per uno che cercasse un glorioso riconoscimento; del resto lo sapeva bene che tutt’al più gli avrebbero detto: «Va bene».

  Difatti, al termine del racconto Lupo disse: – Va bene, Afro -. Poi lo lasciò sullo spiazzo davanti alla casa e salì al piano di sopra, dove aveva sistemato il Comando del battaglione. Levò un quaderno dal cassetto del tavolo e scrisse: « Oggi, 13 dicembre 1944, il partigiano Afro, alla presenza di William, mi ha dato in consegna il prigioniero tedesco tenente Hetter. Il prigioniero sembra indifferente a tutto, non ha chiesto niente. Il portafogli e l’orologio verranno consegnati al Comando di brigata. Non aveva indosso nessun foglio che possa interessare il Comando». Ripose il quaderno nel cassetto e scese al piano di sotto. Davanti a una porta montava la guardia Donez. Gli chiese: – Gli avete dato da bere? – Donez fece cenno di sì col capo tre o quattro volte, in silenzio.

  Hetter era seduto curvo sulla panca e pareva scrutasse qualcosa sul pavimento. Si sollevò quando sulla soglia apparve Lupo, lo guardò distratto, tornò a fissare il pavimento. Una ciocca di capelli gli pendeva sulla fronte, un velo di sudore luccicava sulle guance, non c’era altro che rivelasse paura. Il prigioniero sapeva che l’avrebbero fucilato, non esisteva altra soluzione, anche lui lo aveva sempre fatto coi partigiani che gli capitavano tra le mani.

  Lupo entrò nella piccola stanza, si fermò davanti a Hetter e gli batté un dito sul capo. Hetter lo sollevò adagio, sorrise, tornò ad abbassarlo e Lupo vi batté ancora sopra il dito. Poi andò alla porta e il prigioniero lo seguì. Si era alzato lisciandosi accuratamente la giacca, sorridendo ai partigiani che aspettavano di là della porta. Si lasciò legare le mani dietro la schiena curvandosi, il velo di sudore era scomparso. Donez si trattenne e non spinse il prigioniero. Lupo li precedette e camminarono spediti verso il bosco. Hetter guardò nella vallata e pareva cercasse il punto in cui essa si apriva contro la pianura, nella faccia gli era rimasto incollato quel sorriso inerte che Lupo aveva scambiato per alterigia. Il prigioniero si arrestò dove aveva intuito fosse il punto scelto per l’esecuzione, e si voltò verso gli uomini già allineati con le armi imbracciate. Poi, quando Lupo si allontanò da lui, allargò le gambe e drizzò alto il capo. Fu allora che i partigiani prima di sparare videro sulla camicia del tedesco qualcosa che pareva una fotografia.

  Dopo l’esecuzione Lupo risalì al piano di sopra. Sul quaderno scrisse: « Il tenente Hetter è stato fucilato alle 11,30. Non ha opposto resistenza. Sul petto, sopra la camicia, aveva una foto di Hitler ritagliata da un giornale tedesco». Poi andò alla finestra e vide i suoi uomini che scavavano la fossa dietro una quercia. Quel tedesco era morto da par suo, pensava, proprio come uno che sapeva di dover morire comunque, in un modo o nell’altro. Gli era capitato di dover morire in quel modo, ma era proprio quello che si meritava. Ora giù a San Polo, pensava Lupo, ce ne sarà un altro come lui, e chissà che non sia peggiore di lui. Si ricordò di aver letto il nome di battesimo nel documento trovato nel portafogli del tenente. Si chiamava Walter. «Chissà perché mi sono scordato di scriverlo sul quaderno», si disse. Tornò al tavolo, scrisse il nome. Gli tornò agli occhi quella foto di Hitler stesa sul petto, con cura, perché non cadesse.

  La faccenda di Hetter mise in guardia il presidio tedesco di San Polo. Il nuovo tenente si limitò a sorvegliare le strade, fece disporre altri cavalli di Frisia a monte del paese e tornò, più fredda, più scura la pioggia, e per molti giorni grosse nuvole coprirono le montagne.

 

  Con la pioggia venne anche lo strano messaggio di Alexander, col quale si consigliava i partigiani di ritornare alle loro case, e riprendere le operazioni all’inizio della primavera. La 47ª pensò subito a una specie di trucco radiofonico ma poi seppe da Nardo che quell’incredibile messaggio era stato inviato proprio dal generale inglese. Lo stupore e l’avvilimento calarono sulla Brigata, ma subito, come sempre era avvenuto nelle precedenti sciagure, i partigiani scrollarono le spalle, si guardarono in silenzio, e il nome del generale sostituì in seguito tutte le parole salaci che si usavano per coloro che ogni tanto mostravano dubbi sulla vittoria finale.

  I partigiani restarono nella vallata dell’Enza e continuarono più intensa la guerriglia. La 47ª era ancora guidata da William, da Ilio, da Max, Gim, Spumino, Corrado e da tutti quelli che non avevano mai concesso tregua al nemico e ora c’era anche il ricordo di Ivan, di Franci e degli altri caduti e questo bastava, anche se nell’aria vagavano oscuri i segni che sarebbero tornate più forti e decise le SS per uccidere e distruggere.

  Più che strano quel messaggio del generale inglese era una stupida e tardiva confessione di incapacità militare. – Sparate, aggredite, non date tregua al nemico, patrioti italiani, – declamava Max ricordando i precedenti messaggi trasmessi da Radio Londra. – Ed ora senti che cosa ci dice di fare quel fesso. Ci invita a tornare a casa… – Andava su e giù con la sua larga falcata passando davanti agli uomini della pattuglia diretta alla pianura. – Ed ora noi dovremmo abbandonare la zona e intanarci… Dove? Me lo dite voi dove? – Fulmine gli sorrise, era difficile ignorare un sorriso di Fulmine, e Max rinunciò a dire quello che ancora aveva nello stomaco. – Ragazzi, – disse con voce stanca; – andiamo, è tardi.

  Quella sera la pattuglia guidata da Max andò oltre il compito assegnato dal Comando, penetrò nel paese di Basilicanova, uccise due della brigata nera e mise in fuga gli altri; poi costrinsero un ex segretario politico a improvvisare una cena nella sua ricca dimora e quando furono sazi ed era prudente tornare Max impose all’ex segretario di ballare sopra la tavola. Tornarono all’alba, pallidi e felici, convinti di essere stati i primi a dare una risposta al generale Alexander. Tuttavia in seguito Max ammise di aver giocato con eccessiva imprudenza ma lo fece soltanto per soddisfare la sfuriata di Ilio.

  Bisognava restare, ad ogni costo; la 47ª non era una Brigata che potesse concedersi il lusso di congedare nemmeno il più delicato dei suoi uomini e se al Comando giunse la notizia che alcuni partigiani di altre brigate avevano obbedito al messaggio di Alexander, ciò, disse William, dimostrava che la 47ª, con tutti i difetti che vi aveva scoperti Charles Holland e l’onnipresente Michael Tyler, era senza dubbio la migliore di tutte. – Se quelli sono tornati a casa vuol dire che sono delle cicche. Meglio farne senza, – aveva concluso William tranciando l’aria con la mano. In disparte, Spumino aveva commentato: – Ed era a quelli che il Maggiore dava le armi dei lanci. Proprio a quei signorini figli di borghesi, venuti quassù per villeggiare.

  Il giudizio di Spumino rispondeva solo in parte alla realtà, i partigiani che avevano ritenuto saggio l’invito del generale inglese potevano ottenere una giustificazione psicologica: con tutta la buona volontà non erano riusciti a inserirsi completamente nella spietatezza della guerriglia, forse l’avevano accettata da principio come un’avventura, forse come un diversivo alla loro vita sedentaria. Infine, tornando alle loro case sapevano di non correre alcun rischio.

  Mancava il giudizio di Holland sull’intervento del generale inglese, i partigiani del Comando si divisero a indovinarlo. La parte capeggiata da Lupo sosteneva che il Maggiore doveva aver approvato il messaggio del suo superiore e la rincasata dei «signorini»; quella capeggiata da Max, e nessuno se lo aspettava, proprio lui, era di parere contrario. E Max disse: – Mi sbaglierò, ma Holland deve esserci rimasto male. Mi sbaglierò, ma ho la sensazione che cominci a capire molte cose -. Ilio, in posizione neutrale, cavò fuori uno dei suoi sbrigativi accordi di sintesi: – Alexander, Holland, quelli che se ne sono andati, tutta roba che fa perdere tempo. Pensiamo ad altro -. Poi si allontanò in fretta sventolando le nere ali del suo berretto di pelo. Giù nella strada lo aspettava Toti, insieme dovevano fare un controllo sulla situazione del distaccamento che aveva comandato Juan. Ora lo comandava Meco, ma Ilio aveva deciso di non perderlo d’occhio.

  Il mattino seguente Holland capitò inaspettato davanti alla sentinella che sorvegliava l’accesso al Comando del 2º battaglione. Scivolò dalla pancia del mulo e fletté con grazia le ginocchia. – Alloo, – disse, – come vanno le cose? – Passò sorridente davanti al partigiano e infilò l’andito ripetendo: – Alloo -. Si aprì un uscio e apparve Marco con aria stupita. – Salve, Maggiore, – disse. – Se cerchi Max, non c’è -. Holland avanzò ed entrò nella stanza. I partigiani che stavano davanti al fuoco si levarono anch’essi stupiti. Nella stanza ogni cosa era disposta come fosse appena cessata una rissa, ma Holland continuava a sorridere, quasi compiaciuto di quel disordine. – Max non c’è? Non importa. Volevo soltanto riposare. Posso?

  Gim fece un cenno a Marco verso l’armadio e Marco capì a volo. Il Maggiore lo vide trarre una bottiglia, lampeggiò un’etichetta a lui ben nota, guardò Gim come si aspettasse uno scherzo. – È whisky, Maggiore, – disse Marco sollevando la bottiglia contro il chiarore della finestra. Riempi un bicchiere dal vetro spesso e Holland l’osservò perplesso, ma i partigiani intorno osservavano lui per cogliere nella sua faccia un segno di amicizia. – Bene, – disse. – Questo buono per mio riposo -. E bevve un sorso, poi andò a sedersi sulla panca vicina al camino. Sulla panca erano accatastate alla rinfusa armi e cartucciere e Holland scosse il capo fingendo disapprovazione, mentre Gim si stava chiedendo per quale ragione l’inglese fosse capitato là dentro, solo, senza l’immancabile, noiosissimo Tyler.

  Non c’era nessuna ragione, niente di preordinato. Charles Holland, come aveva affermato Max alcuni giorni prima, cominciava a capire le cose, la Brigata… Per questo si era fermato. Ed ora sorseggiava il whisky, si domandava dove mai l’avessero pescato. Là dentro, in mezzo a tutto quel disordine curiosamente allegro, quasi confortante, il Maggiore si sentiva un po’ meno inglese. Gettò un pezzo di legna sul fuoco. Gim pensava che fosse inopportuno chiedergli che cosa avesse da dire del messaggio di Alexander. Era molto piacevole vederlo davanti al fuoco, la faccia rossa, gli occhi come incantati. Pareva uno del distaccamento appena tornato da una missione nella pedemontana.

  Holland finì l’abbondante dose di whisky, poi si accomiatò con un largo gesto della mano e risalì sul mulo. Disparve alla svolta dondolando e riprese la strada che portava alla Missione Alleata. Da quel giorno egli si fece più comunicativo e attenuò senza astuzia la sua fredda eleganza, più spesso capitò nei distaccamenti interessandosi qualche volta ai casi personali dei partigiani e giunse persino a discutere con Colombo sull’avvenire politico dell’Europa. Portava sempre la fiaschetta del whisky, ma nessuno si prese mai la libertà di chiedergliene un sorso e lui per questo dimostrò sempre molta riconoscenza.

 

  Un mattino, l’aria si fece grigia, rapidamente, come al passaggio smarrito di una grande ala nel cielo. I distaccamenti della 47ª stavano per avviarsi verso le nuove posizioni prestabilite da Nardo, e verso sera cadde la neve.

  Nevicò tutta la notte. La vallata fu un piccolo segno lontano percettibile nella memoria e ogni cosa s’irrigidì. Gli alberi, le case, i sentieri si dispersero nel silenzio e solo si udiva nel fondo della valle il mugolio cavernoso dell’Enza. Nevicò tutto il giorno, era la prima neve, i montanari dissero che sarebbe nevicato ancora per molti giorni e la neve avrebbe favorito i rastrellamenti.

  Il maggiore tedesco Schoerer comandava il presidio di Ciano d’Enza e regolava i suoi interventi sulle occasioni favorevoli. La neve costituiva per lui una grossa possibilità di penetrare nel fianco della Brigata varcando il torrente nel punto più accessibile. Il comandante dello «Zinelli» mandò due squadre armate di mitragliere sui dirupi che fronteggiavano la mulattiera di Ramiseto, il «Pontirol» sorvegliò la costa sotto Ranzano e Max con trenta uomini si preparò alla difesa in una grande casa abbandonata sullo sperone di Ceretolo. La manovra era giustificata dalle abitudini del maggiore tedesco, il quale avrebbe meritato considerazioni del tutto negative sulla sua ostinata intraprendenza se non avesse approfittato di passare l’Enza sotto quel turbinio di neve.

  Ma Schoerer non si mosse. Per tre giorni Max, Lupo e Biscia, incitando i loro uomini a non trascurare di un solo secondo la sorveglianza lo attesero invano e il quarto giorno, quando cessò di nevicare e sui versanti più lontani si poteva scorgere il saltellare di un passero, a guardia rimase soltanto una pattuglia. Mirko puntando il cannocchiale vide una striscia scura ondeggiare lenta giù per il canalone di Groppano. Contò una ventina di uomini e notò subito che erano vestiti come i montanari, ma non ebbe il tempo di sincerarsene.

  Ordinò ai partigiani di nascondersi dietro i massi della riva. La striscia era scomparsa e per un momento Mirko sospettò che potesse trattarsi di uno stratagemma di Schoerer e che quella ventina di uomini, che poco prima aveva visto scendere affondando nella neve, fossero in realtà tedeschi travestiti. Non era la prima volta che Schoerer ricorreva a quella sorta di espedienti.

  L’attesa che essi riapparissero o che dessero un segno qualsiasi della loro presenza occupò la mente dei partigiani e nessuno pensò di risalire per avvisare il distaccamento. Mirko scrutava col cannocchiale ogni metro di neve, le ombre dei rovi, le brevi cavità agli orli del canalone, senza dire una parola, il cuore che gli batteva lontano.

  Poi, al di là del greto, nell’ombra azzurra che cingeva la base di una fenditura tra le rupi, nel punto in cui Mirko inspiegabilmente non aveva pensato di guardare, apparve un uomo. Stava immobile, una mano sugli occhi, e dal grosso zaino sulle spalle spuntava la canna dello sten. Mirko lo inquadrò nel cannocchiale e riconobbe Nobre.

  Dalla primavera Nobre non aveva più varcato l’Enza e di lui il Comando della 47ª aveva avuto notizie frammentarie. Durante il grande rastrellamento del venti novembre la banda di Nobre si era battuta nel Reggiano con le retroguardie tedesche che si erano appostate tra Castelnuovo e Ramiseto, e aveva perduto sette uomini. Due giorni dopo il combattimento Nobre era scomparso e qualcuno diceva che si fosse portato nella pianura per sottrarsi agli ordini dei comandanti delle brigate, i quali volevano inserire la sua banda nel riordinamento militare delle formazioni partigiane, ma Nobre si rifece vivo una sera bussando alla porta di una casa. Al contadino che aprì apparvero una ventina di persone lacere e barbute, gli occhi spalancati e febbrili. Quando entrarono nella stalla il contadino vide che tre di essi avevano le mani legate, e avevano l’aria di compiere automaticamente ogni loro gesto, come privi di pensiero.

  Tutta la notte il contadino pensò a quegli uomini legati che si erano messi nell’angolo della stalla, ritti, senza sguardo, nell’attesa che Nobre dicesse una parola, e pensò soprattutto a quello dal grosso ventre e la grossa faccia pallida, e a Nobre che gli aveva posato una mano sulla spalla quando si era arrestato un attimo sulla soglia, e gli aveva detto, piano, sospingendolo, come fossero parole dette altre volte, in altri luoghi, con lo stesso tono preciso e indifferente: – Vai avanti. Non faremo qui quello che tu pensi.

  Nobre aveva quarant’anni, un lungo viso affilato da vecchie sofferenze e le orbite soffuse di quell’ombra solitaria che protegge il dubitante sguardo dei convalescenti. Ma egli era provvisto di una energia esaltante che gli permetteva di affrontare estenuanti fatiche e imprese audacissime. Nel 1939 era stato arrestato mentre usciva dalla fabbrica dove lavorava come tornitore e il Tribunale Speciale lo aveva condannato a cinque anni. Prima di pronunciare la sentenza il presidente aveva chiesto agli imputati se avessero qualcosa da dire e Nobre, dopo aver dato una rapida occhiata ai compagni ritti nella gabbia, e ricevuto un fulmineo cenno d’intesa, si era unito a loro in un fragoroso suono dispregiativo che aveva lasciato di stucco giudici, avvocati e carabinieri.

  Quell’improvvisa ribellione procurò ai condannati un pesante incrudimento di pena e Nobre, nel mastio di Volterra, indurì l’animo con la stessa disciplina che aveva usato nel partecipare alle prime fasi del movimento cospirativo.

  Fuggito dal penitenziario pochi giorni dopo l’armistizio, aveva raggiunto Reggio Emilia e nell’inverno seguente aveva costituito una delle prime bande che affrontarono sulle montagne i rastrellatori nazifascisti; un gruppo di uomini affiatati proprio come Nobre desiderava e ognuno seppe offrire quanto di meglio ogni giorno e ogni notte il duro comandante chiedeva.

  La banda si rinnovò due volte dopo le perdite subite nei primi mesi. Nel marzo del ’44 fu circondata nei pressi di San Polo da un centinaio di tedeschi e Nobre ruppe l’accerchiamento dopo una notte di lotta disperata tra i fossati, strisciando coi sopravvissuti e coi feriti sotto l’ininterrotta fucileria e i raggi dei riflettori, e quando furono sulle colline altri due morirono. Prima che morissero Nobre promise loro qualcosa e quando si avviò verso le montagne la sua faccia stava alta e sicura nella luce chiara del mattino. Il suo nome prese una popolarità del tutto particolare, i ragazzini dei paesi del Reggiano parlavano di Nobre come di un grande cacciatore e lo accomunavano ai personaggi leggendari dei libri di avventure. I Comandi delle brigate tentavano con riguardosa persuasione di incorporare la sua banda e darle un aspetto organico, ma Nobre, col suo apparire silenzioso e improvviso e con la sua aria taciturna che diceva assai più delle parole, insofferente a ogni sollecitudine, continuava a percorrere la zona, solitario coi suoi uomini solitari, per cacciare a modo suo fascisti e tedeschi, spietato con le spie come lo era per chiunque dei suoi che avesse mostrato segni d’incertezza o di turbamento.

 

  Ora, avanzando di traverso, i piedi che affondavano nella neve, con i suoi uomini che uscivano dall’ombra della rupe, lenti e precisi come animati da un’aspra indifferenza, Nobre si dirigeva verso i sassi che rompevano la corrente e quando fu sulla riva si arrestò e rimise la mano sugli occhi per guardare sul pendio opposto.

  Mirko li vide stagliati nel chiarore, un’immagine stranamente remota nella immacolata trasparenza del cannocchiale. Si sollevò, agitò un braccio e anche i suoi uomini si levarono tenendo istintivamente puntate le armi. – Fermi ragazzi. È Nobre, – disse Mirko. Poi avanzò, vide subito i tre uomini legati da una stessa corda che penzolava tra l’uno e l’altro, serrati com’erano alle spalle di Nobre. – Ehi, Nobre, – gridò. – Devi passare? – Avanzando, sentiva la neve frangersi morbida e stridente e oltre la neve il ciangottio dell’acqua. Gli uomini di Nobre aspettavano fermi sulla riva e tra loro spiccavano per una diversa immobilità i tre prigionieri.

  Quando, insieme, iniziarono la salita seguendo la vaga traccia dei sentieri, Mirko tentò di chiedere a Nobre dove avesse catturato quei tre uomini, chi fosse quello dal grosso ventre e dalla grande faccia inerte su cui gli occhi parevano spenti da chissà quanto tempo e che procedeva sollevando i ginocchi con l’inconscia meccanicità di un giocattolo. Ne scorgeva a tratti la nuca piatta e bianca sull’orlo liso della giacca, le gambe stranamente sottili, e fu colpito da un senso di ripugnanza, come se lo sconosciuto, con la torpida sopravvivenza della sua carne volesse ad ogni costo presiedere la fine della propria vita.

  Nobre saliva leggero, le mani serrate sulle cinghie dello zaino, come privo di respiro. Gli altri seguivano le sue orme, i prigionieri pareva assecondassero con minuziosa attenzione il ritmo impersonale di quella salita. Mirko aveva rinunciato a soddisfare quella sua curiosità che ora, nel silenzio, gli appariva banale, quasi oltraggiosa. Pensava alla vita di Nobre, alle storie che di lui aveva sentito raccontare, e pensava anche a quell’uomo dalla nuca piatta su cui stagnava un vecchio pallore di morte.

  Era un procedere curiosamente articolato nell’anonima vastità dell’aria, coi lievi stridori della neve che s’intrecciavano nel freddo, e una luce immota e neutrale sul bianco solco della valle.

  Raggiunta la strada che tagliava i costoni di Ranzano si fermarono a un cenno di Nobre, e Mirko lo avvicinò per suggerirgli di mandare i prigionieri al Comando di Brigata. Ma come pronunciò le prime parole comprese di aver toccato un argomento inopportuno. Tentò di giustificarsi col ricordare al capobanda che più sicura sarebbe stata la custodia di quei tre uomini e che infine la sua proposta faceva parte del nuovo regolamento. – Sai, Nobre. Il Comando Unico ora vuole così. È meglio, così non ci sono grane… – concluse.

  Nobre non rispose, come se nemmeno avesse udito: s’era messo sul ciglio della strada e guardava il valico di Aneta. Senza voltarsi disse ad un tratto, la voce aspra: – Hai sentito, Nemo? Tu cosa ne dici?

  A Mirko parve che quella domanda contenesse un significato che soltanto quelli della banda potevano afferrare e pose lo sguardo sull’interpellato. Nemo si allineò a fianco dei prigionieri e sbirciandoli rispose: – Certo. Non sarebbe un’idea balorda -. Sorrideva, guardava i suoi compagni con astuzia feroce. – E tu, Bren, cosa ne dici? – Diede un breve colpo di gomito al prigioniero che gli stava accanto. – E questi, cosa ne dicono? – ripeté.

  Poi avanzò contro Mirko, adagio, come contasse i passi. – Lascia perdere. Sono nostri, e li teniamo noi, – disse freddamente. Nobre stava ancora fermo sul ciglio della strada, e quando riprese il cammino Nemo gli si mise al fianco dopo aver fatto un cenno a Bren. Questi diede un’occhiata alla fune che univa i tre prigionieri. Quello grosso mostrò le mani incrociate e Mirko pensò che era un movimento cupamente automatico, consueto, eseguito con la sollecitudine di un demente.

  Verdebruna la sera cominciava a scontornare le case, più neri i tronchi degli alberi segnavano i fossi tra i campi di neve e si udiva il rotolio dell’acqua giù per il greto; un suono solitario nella nudità della valle. Gli uomini di Nobre camminavano silenziosi e magri, i panni logori che emanavano un vecchio odore di paglia. Dietro i prigionieri seguiva Bren, distaccato di alcuni metri, il mitra sotto l’ascella, puntato contro la schiena del grosso uomo che ora, la testa piegata, pareva dormisse.

***

  Arrivarono alla casa che Mirko aveva consigliato durante l’ultimo tratto di strada. Era un fabbricato basso, composto di un solo stanzone e di un granaio a cui si accedeva con una scala a pioli. Duecento metri più su c’era l’abitato di Aneta e Nobre ne scorse il profilo denso e scuro contro il pendio nevoso.

  Mirko lasciò gli uomini della banda mentre accendevano il fuoco. Disse che avrebbe mandato del pane e con la sua pattuglia tornò a Lugagnano per inviare una staffetta al Comando di Brigata.

 

  La sera dopo, mentre il parroco di Aneta celebrava l’Immacolata, il vento cominciò a incrostare la neve che copriva i monti. Nobre davanti al camino fissava assorto un grosso ceppo fumigante nella bragia e udiva sul tetto le tegole muoversi alle impennate del vento. Di sopra, nel granaio, i suoi uomini dormivano e con essi, dietro una catasta di legna, vegliavano i tre prigionieri.

  Seduto rigido su una liscia panca tarlata, Nobre ripensava ai consigli che Biscia due giorni prima gli aveva propinato con la sua scomoda voce di balbuziente. – Fa’ come vuoi, – gli aveva detto, – ma se io fossi nei tuoi panni consegnerei i prigionieri al Comando. Ci sono ordini precisi in merito a queste cose, ora -. Nobre, ascoltandolo con ostentata curiosità, aveva guardato Nemo negli occhi e in quello sguardo scintillante di reciproca intesa Biscia aveva letto un freddo diniego.

  Si era allontanato scrollando il capo, trattenendo per un braccio Mirko, che aveva accennato a voler proseguire la discussione. – Vieni via. È una testa dura. Peggio per lui, – aveva detto a voce alta, affinché udissero anche gli altri due.

  Nobre aveva udito ed era rimasto con la faccia rivolta verso la valle, ma a Nemo parve si contraesse nel rapido tremito di un’emozione inconsueta. – Non pensarci più. Rientriamo, fa freddo, – gli aveva suggerito, precedendolo. Nobre era rimasto immobile, come ascoltasse affascinato il lungo suono dell’Enza spersa nel buio.

Più tardi, entrando nella casa aveva udito il tepido russare di Nemo e degli altri filtrare dall’assito e il solito agitarsi del grosso prigioniero, a cui, ora, seduto davanti al fuoco pensava.

  Anche il prete di Aneta gli aveva consigliato di rispettare gli ordini del Comando, gli aveva ricordato altre forme di responsabilità, la mano di Dio, con un tono umile, affaticato, stranamente piacevole. Era piccolo, la testa ovale e rossiccia, e gli occhi lacrimosi per il freddo, con la grossa sciarpa che gli nascondeva metà della faccia. A Nobre era parso che fosse malato, che non trovasse il tempo per curarsi, ma forse si trattava solo di una gracilità estenuata, oppure di un vigore inesauribile che bruciava nelle piccole pupille chiare, curiosamente immobili.

  Il rombo di un motore si levò dalla strada e Nobre sorpreso volse il capo alla finestra. Più che un rombo pareva a tratti un rotolio di sassi, un suono schioccante, con pause irregolari. Aperta la finestra, Nobre si era sporto per indagare nel buio.

  Dopo una pausa più lunga il rombo echeggiò più alto, dietro lo sperone che nascondeva la vista del paese, poi si appiatti in lunghi colpi radenti sotto i rami. «È una macchina, – pensò – e viene dal Comando». Richiuse la finestra. «Viene per i prigionieri».

  Si avviò alla scala che portava al granaio. – Nemo, – chiamò. – Vieni giù -. Il rombo era cessato con uno scoppio violento dietro la casa. Nobre udì passi spiaccicati nell’aia, una voce rauca che diceva: – Da questa parte -. Gli parve di riconoscerla, ma altre voci lo sviarono dall’indagine. Nel granaio qualcuno si muoveva. Sulla scala apparvero le gambe di Nemo fasciate con strisce di sacco, poi scesero Norman, Stalin, Cartuccia, poi gli altri, ammassati ai piedi della scala, pallidi per il sonno interrotto, con indolente stupore. – Chi è? – chiese Nemo dirigendosi alla finestra. Nobre scosse la testa e rimase in ascolto. – Apri Nobre. Sono Donez, – disse la voce alta dall’aia.

  Fu Cartuccia che ad un cenno affermativo di Nobre aprì la porta e nel vano, illuminate da una lanterna dietro le spalle di Donez apparvero quattro sconosciuti. – Salve, – disse Donez avanzando. Teneva lo sten abbandonato lungo la coscia.

Allungò la mano a Nobre e disse, la voce troppo alta, come temesse di essere frainteso: – Ho fretta. Sono venuto a prendere i prigionieri -. Poi si volse, indicò i quattro uomini che stavano ancora sulla porta. – Abbiamo l’ordine di portarli al Comando di Brigata. E dovresti venire anche tu, Nobre. Per le consegne…

  Nemo si mosse, fece un gesto impaziente, e anche Norman avanzò di un passo, mentre Nobre stava girandosi lento verso il fuoco, senza rispondere. Donez vide le grandi ombre spianate sulla parete, sentì lo spazio troppo colmo di silenzio. – Ho fretta, – ripete con tono vibrante. – Io non c’entro in tutto questo. Ho solo degli ordini.

  Uno dei suoi uomini chiuse adagio la porta. La figura di Nobre pareva più lunga contro le fiamme e più vasta la sua ombra sulla parete. Nemo si era accostato a Norman e a Stalin nell’angolo vicino la scala, Cartuccia era salito nel granaio e lo si udiva parlottare rapido con quelli che erano rimasti a guardia dei prigionieri. Poi scese Bren, la camicia aperta sul petto magro e liscio. – Cosa c’è? Chi sono quelli là? – chiese alterato. I suoi piccoli occhi senza luce parevano due cavità piene di polvere.

  – Sono del Comando, – rispose immobile Nobre. Poi, staccando con studiata dolcezza le parole: – Vogliono i prigionieri -. Bren guardò fisso Donez come cercasse di riconoscerlo, e sorrise. – Questa è bella. Il Comando vuole i prigionieri, – esclamò. – E tu Nobre, cosa ne dici? – La sua voce ondeggiò infantile tra gli uomini che ora aspettavano immobili una parola di Nobre.

  Poi, qualcosa che nessuno avrebbe potuto decifrare invase lentamente lo stanzone. Era come se ogni parola, il pensiero che ognuno tormentava, l’arrivo inaspettato di Donez, il furore di Bren, l’immobilità di Nobre contro il fuoco, e la stessa notte oscura, col vento che piegava i rami, si fondesse in una sola presenza rivoltante. Ogni cosa, un punto della parete o lo stecco sperso sul pavimento, lo sten di Nemo o gli occhi tetri di Bren, il granaio coi prigionieri, la porta chiusa contro la notte, ogni cosa che prima aveva partecipato al prologo della violenza si era irrigidita in un elemento anonimo nel silenzio insondabile. E così, tutto quello che era stato detto e quello che ancora quegli uomini dovevano dirsi, come un’ultima luce di brace si spense.

  Due giorni dopo, quando Donez dovette stendere il rapporto per il Commissario della 47ª, non trovò la forma che desiderava per descrivere il più esattamente possibile quello che avvenne in seguito tra lui e Nobre. Lo scrisse con sbadata burocrazia, riducendolo a poche righe. Ma, poi, a William, soli nella piccola stanza attigua a quella del Comando, poté raccontare com’era andata la faccenda e lo fece senza mai interrompersi.

  – Ormai credevo di non riuscirci. Bren mi guardava male e io temevo che i miei uomini reagissero alle sue parole. È stato un momento difficile. Nessuno parlava. Nobre stava vicino al fuoco e non parlava. Anch’io non sapevo più cosa dire, e vedevo benissimo la mano di Nemo pronta sullo sten. Non ho mai sentito un silenzio cosi pesante. Non si udiva nemmeno il nostro respiro, nemmeno il vento. E da un momento all’altro poteva accadere qualcosa di brutto. Vedevo sempre la mano di Nemo tremare sul grilletto e non sapevo proprio cosa fare. E Bren continuava a fissarmi con cattiveria. Era pallido come un morto. È stato lui, Nobre, a salvare tutto. Senza voltarsi ha detto: «Daglieli». Io non credevo alle mie orecchie, ma dopo un po’ egli ha ripetuto: «Daglieli», più forte, senza mai voltarsi dal fuoco. E Nemo pareva non capisse e Bren si era messo a fissare Nobre sulla schiena. Poi hanno fatto scendere i prigionieri e Nobre si è voltato verso quello più grosso, ma non lo ha guardato. Quello stava con la faccia un po’ reclinata, come non riuscisse a tenerla su. Pareva quasi che sorridesse, ma era solo una smorfia, secca, come hanno i moribondi all’ospedale. Anche in quel momento mi ha preso la paura che potesse accadere qualcosa di brutto. Ho visto Nobre fare un passo. Teneva la testa abbassata e le mani serrate dietro la schiena. Ha detto a quell’uomo: «Non ti guardo in faccia, se no mi vien voglia di ucciderti». L’uomo ha mosso appena il capo, come avesse voluto dire che aveva capito, e Nobre teneva sempre le mani strette dietro la schiena. Ho visto Bren che si avvicinava a quell’uomo. Ci siamo, ho pensato, ora succede qualcosa. Anch’io allora mi sono avvicinato e sentivo il fiato di Bren sulla faccia, freddo come l’aria di fuori. Poi Nobre si è voltato, mi è passato davanti, e dirigendosi alla scala mi ha detto: «Portaglieli… al tuo Comando».

  Terminando il racconto, Donez osservò William. Gli pareva curiosamente distratto, come si fosse addentrato nel ricordo di altre vicende. – Di’, – riprese, – lo sai che Nobre aveva catturato quel tipo otto mesi fa e che se lo è trascinato dietro come un vitello?

  – Si, lo so, – rispose William. Guardava intensamente sul tavolo un punto che apparteneva solo alla sua memoria. – Lo prese vicino a Reggio.

  Poi, alzandosi, si rimise il largo cappello e aggiunse: – Forse era meglio lasciarglielo, sai? – Passò nell’altra stanza e dalla soglia ripeté: – Forse aveva ragione, Nobre. Era meglio lasciarglielo.

  In quello stesso momento una colonna di tedeschi entrava in Ramiseto. Era la mattina dell’undici e aveva ripreso a nevicare. La banda di Nobre, ignara di quanto stava accadendo nel versante opposto si era incamminata per raggiungere Ligonchio a incorporarsi nella 26ª Garibaldi. Lo avevano deciso nella notte, rinchiusi nella casa. Prima di partire Nobre era andato nella parrocchia e quando i guerriglieri passarono sotto lo sperone il prete apparve sul muricciolo del sagrato agitando la mano.

  La strada che portava a Ligonchio era sotto la neve e passava tra le case di Ramiseto.

 

  Ancora preso dai ricordi di quella sera e negli occhi la figura del prigioniero perduto, mentre le calde ombre di lontane vicende si addensavano sui pensieri, e il silenzio faceva irreale ogni cosa intorno e tutto il cielo era neve, Nobre non percepì il pericolo e cadde nell’agguato. Il sergente tedesco che stava a una finestra della casa più a monte diede il segnale quando i partigiani attraversarono lo spiazzo davanti all’osteria.

  Lo scontro durò una ventina di minuti e tutto quello che poteva rallegrare il maggiore Schoerer fu compiuto con precisione. I tedeschi si allontanarono senza perdite e tornarono ai camion lasciati sulla statale di Castelnuovo.

  Norman, Bren, Stalin, Cartuccia erano caduti alle prime raffiche, Wilson e Marco mentre correvano sotto il portico dove Nobre da dietro un carro agricolo sparava contro i lampi che saettavano dalle case. Poi cadde anche Nobre, ma non morì.

  Verso sera lo stesero su una barella di fortuna e Nemo decise di tornare alla casa in cui avevano trascorso quei giorni. Passarono l’Enza sui sassi e i portatori ogni tanto cadevano. Ma Nobre rimase rigido, senza un lamento. Quando furono sulla riva scorsero degli uomini scendere dal pendio e Nemo riconobbe William.

  Il vicecomandante della 47ª ordinò ai suoi di dare il cambio ai portatori, risalirono il pendio e si fermarono a una casa tra Nirone e Selvanizza. La casa era abbandonata, aveva sui muri tracce d’incendio e nel portico, sotto il fienile, c’erano attrezzi bruciacchiati.

  Trasportarono Nobre sul fienile, Nemo aprì il finestrino e ammucchiarono del fieno ai lati del ferito. Poi si allontanarono, e questo dovettero farlo anche se Nobre restava solo.

  E venne la notte e poi tornò l’alba, e ancora la neve. Tornarono anche i tedeschi, dalla strada che costeggiava il Fuso, dal passo di Lagrimone, da altre parti, e per questo William aveva deciso di fare subito quello che occorreva per tentare di salvare il ferito. Ma Nobre non poteva capirlo, né poteva sentire i colpi dei mortai che spalancavano l’aria immota dietro la costa. – Non muoverti. Resisti, – gli aveva detto William, prima di partire. – Porteremo su il dottore -. Poi si era allontanato senza voltarsi sollevando alti i piedi sui mucchi di fieno. Anche Nemo non si era voltato.

Li aveva sentiti parlare nel portico e per un momento gli era parso che stessero per risalire, forse per ripetergli di star quieto e che avrebbero trovato il dottore. Ma subito aveva afferrato la scura presenza del silenzio colmare il vuoto sotto l’assito. «Sono andati, – aveva pensato. – Forse non li rivedrò…»

  Ora vedeva le falde di neve, lievi ombre incappucciate scendere tra fremiti di luce gialla e grigia. Qualcuna si posava sul davanzale e s’appiattiva morendo. Anche lui stava morendo, pensò.

  Adagio sollevò una mano e non senti dolore; soltanto la sensazione di una cosa molle sotto il costato che tentasse di aprirsi un passaggio tra la carne. «Forse l’emorragia si è fermata. Forse non ho più sangue». Tentò di immaginare una forma per quella cosa che si muoveva e, istintivamente, per rendere più assoluta l’azione del pensiero tese alto il braccio, attento al ripetersi del sottile gorgoglio viscoso sotto le costole. – Si è fermato, – mormorò, e udì la sua voce dilatarsi come una parte di se stesso verso le pareti.

  – Non ti devi muovere di un centimetro, – gli aveva detto William. – Sin che arriva il dottore -. William, con la sua chiara faccia di legno verniciato, gli occhi stretti senza cigli, e la voce breve sulle asciutte labbra sottili, aveva ripetuto: – Se ti muovi è peggio per te, Nobre -. Poi era andato via e Nobre lo aveva guardato calare lento nella botola, sotto la grande tesa del cappello di panno.

  Nobre capiva che stava per morire e riportando il braccio sul fianco tornò a guardare la neve. Così non poté scorgere la piccola figura nera contro la parete, e quando la vide era tornato sul versante di là dell’Enza, disteso nella barella fatta di rami.

  Stava sui rami che gli serravano il corpo e gli avevano messo una sciarpa sulla faccia dicendogli: – Dài, Nobre. Non è una ferita grave, – ma lui sentiva il caldo filo sinuoso muoversi dentro la carne, il battito rapido del cuore.

  – Ciao, Nobre. Come va? – Vaga e tenera nell’ombra, la figura avanzò proiettandosi nello sguardo spalancato del ferito. – Come va? – ripeté allargandosi fino a coprire tutte le immagini che Nobre sognava. – Va meglio? – Gli pose la mano sulla fronte, Nobre la sentì scendere fresca dentro la febbre. – Siete voi, padre?

  Il prete premeva la mano con dolcezza. La ritrasse umida e calda. Muovendosi lieve frugò sotto la veste. – Ora devi prendere questa pastiglia, – disse. – Qualcosa farà. Non ho trovato altro -. Gliela mise tra le labbra, la spinse con le dita. – Coraggio, Nobre. Te la caverai -. Nobre contrasse la gola, sentì la pastiglia passare insapore e dura tra la saliva densa. – Non c’è niente da fare, – rispose. – E lei lo sa.

  Il prete teneva il viso proteso sulla grossa sciarpa di lana. – Perché dici cosi? Io dico che te la caverai. E tra poco verrà il medico. Ti estrae il proiettile e tutto sarà come prima -. Parlava rapido, il sorriso tremulo ad ogni parola. Sedette piano accanto al ferito, spiandogli tra le palpebre i primi segni dell’agonia. Forse una pastiglia non basterà, pensò. – Don Ernesto… – mormorò Nobre. – Nevica ancora?

  – Si. Come ti senti? Non ti viene sonno?

  – Non so. Ho la testa lontana. Si sono ritirati? I tedeschi…

  – Sì, stai tranquillo. Sono tornati a Ciano -. Scorse le labbra di Nobre schiudersi in una smorfia densa, eccitata, e capì che il partigiano aveva avvertito la bugia. Sì, pensò, non ci crede. Ma come posso dirgli la verità. Perché dirgliela, ora, mentre forse sta per morire. – Si sono ritirati, – ripeté con voce sicura. – La neve è fitta. Non possono tornare -. Ma lui sapeva che sarebbero tornati, che avrebbero ripreso il rastrellamento appena cessato di nevicare e pensò anche che William in quel momento stava dirigendosi verso Campora per cercare il dottore e forse anche là c’erano i tedeschi, perché da due giorni si trovavano dappertutto e anche ora, mentre Nobre aveva chiuso gli occhi, il piccolo prete udiva ogni tanto, improvvise, deserte, voraci, le raffiche delle machinen-pistole scoccare nel vasto silenzio che copriva i monti. Nobre dormiva, rigido il corpo, e solo un battere impercettibile del collo segnalava la sua presenza terrena, mentre il prete guardava la neve cadere.

  Sul versante di là dell’Enza, dove era avvenuto lo scontro, si vedevano brevi macchie brune, ed erano i rovi, gli alberi, i dirupi che la neve non aveva potuto coprire. Più su, sotto il crinale, grosse volute di fumo nero si torcevano convulse, ora più dense e più nere, e tra il fumo scorrevano guizzi di fiamme arrossando il cielo.

  Tra quelle case che bruciavano Nobre era stato colpito, due volte nello stesso punto, e anche Norman, anche Bren e gli altri, ma loro erano morti subito, e non li avevano potuti trasportare. Ora Nobre stava per morire, disteso sul fieno, stranamente lungo nell’immobilità, coi grandi piedi aperti e le mani riverse.

  Se riuscissero a passare e tornare presto forse si può salvare, pensava il prete. Ma cosa potrà fare il dottore? Guardava il viso bianco di Nobre, un calco di gesso se non fosse stato per quel lieve battito sotto l’orecchio, un tremito appena visibile, come le ali di una mosca caduta nella ragnatela. – Non ha più sangue, – pensò il parroco.

  Nobre riaprì gli occhi, li tenne spalancati contro il soffitto, le pupille grandi e scure. Poi volse il capo al prete e don Ernesto vide nelle pupille le parole che forse Nobre non riusciva a pronunciare. – Fra poco saranno qui. Coraggio, – disse posandogli ancora la mano sulla fronte. – Non muoverti. Cerca di dormire -. Avvertì subito, come una fiammata al viso, la stupida inutilità di quell’incitamento e rimase a fissare la faccia di Nobre, in silenzio.

  – Più fermo di così, – disse il ferito. Imprevedibile la sua voce si era fatta sonora. – Don Ernesto, – riprese. – Forse lei vorrebbe confessarmi, no? – Rifece quella smorfia eccitata, più lieve ora, come si rendesse conto di non riuscire a sorridere. – Non è venuto qui per confessarmi? – L’ansimo gli attutì l’ultima parola. Tornò a guardare il soffitto.

  Don Ernesto non rispose. Aggiustò il cuscino e sentì contro le mani il freddo molliccio dei capelli di Nobre. Erano già morti. Tornò a guardare la neve. Non aveva fatto in tempo a confessare il moribondo; Nobre era spirato subito dopo quella domanda ed ora sembrava l’immagine di una determinazione cristallizzata nell’eternità, sfuggita ai sacramenti.

  Ora il prete pregava, anche per sé, per la sua anima distratta, e quando terminò aveva ancora la faccia rivolta alla finestra. Fu colto dal pensiero di aver smarrito il breviario, di non averlo portato. Lo vide tra il fieno, vicino al viso del morto. Non lo prese, rimase immobile a fissare gli occhi aperti di Nobre. Pensava che tra pochi giorni era Natale, pensava agli addobbi nella chiesa; anche la figura di Nobre era china davanti all’altare, dietro di lui c’erano i suoi compagni mischiati ai parrocchiani.

  Si scosse a un rumore dal portico. Ascoltò, il rumore non si ripeteva. Poi udì distinti e vicini i passi su per la scala di legno. Non si volse, aspettò che qualcuno lo chiamasse. Continuava a pensare, a Nobre morto senza confessione, alla domanda che gli aveva rivolto prima di spirare. C’era un accento di devozione nella sua voce, non era di sfida: Nobre aveva tentato di dire qualcosa che lui, prete distratto, non aveva afferrato. E forse l’aveva detta, pensava.

  William spuntò dalla botola tenendo alta la lanterna e l’alone rossastro sfiorò i piedi del morto. Dietro William apparve Busc, e poi il dottore, poi altri due partigiani, e tutti si fermarono a guardare il corpo di Nobre. Il dottore era vecchio e aveva le mani gonfie per i geloni. Avanzò incerto tra le buche del fieno e chinandosi non disse nulla. Anche gli altri non parlavano e la loro immobilità era il duro compimento di un fatto che solo il prete aveva seguito e che ora, in ginocchio, come si era messo quando era stato colto dal pensiero per il Natale, continuava a seguire tenendo serrata la mano di Nobre.

  – Quando è morto? – chiese William. Era una voce tranquilla, il dolore staccava precise le parole, le parole avevano ciascuna un proprio preciso dolore. – Quando è morto? – ripete.

  Il prete si rialzò, lentamente. – Non saprei. Forse due, tre ore fa, – disse. Si avviò verso la botola e i partigiani si scostarono. Nemo gli passò la mano sulla spalla, lo condusse sino alla scala. – Faccia piano. Si scivola.

  Prima di scendere, il prete vide di scorcio la faccia di Nobre dura e scavata nel chiarore della lanterna. Sul limitare del portico c’era una grossa gobba di neve e anche nell’aia la neve aveva formato vaghe forme che biancheggiavano nel buio.

 

  Quel prigioniero che Nobre si era trascinato dietro per tanto tempo si chiamava Toniato e fu consegnato al reparto che aveva il compito di custodire gli ostaggi. Il capitano Tyler tentò di conoscere le ragioni della sua lunga inspiegabile prigionia, ma Nemo non accettò di parlare con l’inglese e prima di ritornare nel reggiano si chiuse coi compagni sopravvissuti nella casa bruciacchiata, e soltanto William poté parlargli.

  Quando entrò nello stanzone trovò Nemo disteso su una coperta e gli altri che pulivano le armi. Sul pavimento stavano gli zaini allineati e c’era anche quello di Nobre. William rimase nella casa sino a notte alta. Parlarono di Nobre e Nemo gli disse perché Nobre avesse tenuto per tanto tempo con sé quell’uomo. – Vedi, – cominciò ad un tratto mentre stavano discutendo di altre cose. – Nobre voleva che morisse lentamente, da sé. Ti parrà molto cattivo questo, ma Nobre aveva le sue ragioni.

  Si mise a sedere, la schiena contro la parete. Le guance lisce e scarne luccicavano come di ottone nel riflesso del fuoco. – Lo avevamo preso sulla strada di Montecchio, mentre in auto si dirigeva a Reggio. Io, Bren e Nobre stavamo sotto il portico di una casa, vicino alla strada. Udimmo la macchina e Bren, nascondendo lo sten sotto la giacca, si portò sulla strada e sollevò una mano, come avrebbe potuto fare un contadino qualsiasi. La macchina si fermò e Bren puntò lo sten e quando io e Nobre ci avvicinammo l’uomo era già disceso con le mani alzate. Nobre lo riconobbe subito e io vidi che impallidiva. «Toh, ve’ chi si vede», disse mettendoglisi contro. Lo sconosciuto sembrava non capisse, stava immobile. «Come va?» gli chiese Nobre. Lui non rispose. Guardava Nobre intensamente e non diceva nulla. Solo gli tremava un poco la bocca. Nobre lo fece risalire mettendogli una mano sulle spalle, come fosse stato un suo vecchio amico. Era una scena curiosa ed io non capivo perché Nobre si comportasse in quel modo. Era veramente una cosa curiosa. Girammo la macchina e riuscimmo a passare di notte sopra San Polo. Poi la macchina s’arrestò, non c’era più benzina. Attraversammo i campi e ritrovammo Norman e gli altri. Il prigioniero non diceva nulla. Ogni tanto scuoteva la testa come dicesse di no.

  Nemo sollevò i ginocchi e vi pose sopra le mani incrociate. Fissava il chiarore del fuoco come volesse concentrarsi prima di riprendere il racconto. William gli stava accanto, seduto su uno zaino. La notte copriva quieta la casa e c’erano le stelle. – Nobre, – riprese Nemo, – non torse un capello a quell’uomo. Passò con lui due ore in una stanza e quando tornò tra noi non ci rivolse una sola parola. Ma una settimana dopo, mentre io e lui andavamo in pianura per incontrarci con un nostro informatore, mi disse chi era il prigioniero e cosa aveva fatto. Ed ora te lo racconto subito. Si chiamava Toniato; anzi si chiama ancora così, dato che ora lo ha preso in consegna il vostro Comando, e faceva il mascalzone. Lo aveva sempre fatto, da quando aveva cominciato a bastonare i socialisti del suo paese. Era stato un socialista anche lui, ma poi si era iscritto al Fascio ed era stato squadrista. In quel tempo ammazzò con una revolverata a bruciapelo un ragazzo sorpreso ad affiggere un manifesto. Quel ragazzo era cugino di Nobre. Poi divenne importante nella federazione fascista di Reggio, ma lo mandarono via perché era andato a letto con la sorella di sua moglie. Andò in Etiopia e quando tornò si rimise a fare il mascalzone e fece un po’ di tutto. Ma non era niente in confronto a quello che fece dopo, subito dopo l’otto settembre. Ed ora ti dirò subito quello che fece una sera nel gennaio dell’anno scorso, senza aggiungere una parola di più a quello che mi raccontò Nobre. Quella sera, Toniato ed altri due della brigata nera di Reggio, entrarono in casa di un meccanico, un certo Nicelli, che era stato in carcere con Nobre e che poi gli avevano amputata una gamba. Era un uomo malato e faceva quello che poteva per aiutare il nostro partito, e aveva una moglie anche lei malata e una figliola che studiava da maestra. Quella sera erano già a letto. Toniato bussò alla porta e la moglie di Nicelli aprì la finestra. Quei tre dissero che dovevano fare una perquisizione e che erano carabinieri. La donna, con l’oscurità, non li vedeva bene e ci credette. Andò ad aprire e soltanto allora capì che si trattava di un’altra faccenda. Uno dei tre la tenne ferma e Toniato e l’altro salirono di sopra. Presero quel povero Nicelli, lo portarono in cucina e lo fecero sedere su una seggiola e poi lo legarono e lo imbavagliarono. Poi presero la ragazza. Lei non riusciva a dire una parola. Era quasi nuda. Toniato disse a Nicelli: «Ora ti facciamo vedere cosa facciamo noi a quelli che aiutano i banditi». La ragazza stava ferma e guardava il padre. Non poteva immaginare quello che Toniato voleva fare, ma anche se l’avesse capito era troppo terrorizzata per dire qualcosa, e quando Toniato le strappò via la camicetta cercò di scappare, ma lui la buttò sul pavimento e le fece quello che ora puoi immaginare anche tu.

  Fermandosi, Nemo pose quietamente lo sguardo sul compagno. Teneva le mani ferme sui ginocchi e anche il corpo era immobile e quieto. Da fuori non giungeva alcun suono. – Vai avanti, – disse William.

  – Appena Toniato ebbe fatto quella cosa, l’altro si avvicinò alla ragazza per fare anche lui la stessa cosa, e fu allora che Nicelli riuscì a liberarsi dal bavaglio. Sua figlia stava accucciata, senza piangere, e lo guardava con gli occhi spalancati. In seguito, quando raccontò a Nobre quello che era accaduto, Nicelli confessò che non aveva visto quello che Toniato aveva fatto. Sentiva soltanto di non poter muovere un solo centimetro del suo corpo. Poi riuscì a scorgere Toniato che si abbottonava i calzoni; sghignazzando. Allora cominciò a gridare. Toniato gli sferrò un pugno sulla faccia, ma continuava a gridare. Non erano parole, ma solo urla. Grondava sangue dalla bocca… Riuscì a sollevarsi, attaccato alla sedia, ma cadde e si staccò la gamba di legno. Urlava disperatamente, dimenandosi sul pavimento. Toniato gli andò sopra, afferrò la gamba di legno e lo colpì, a due mani, sulla testa. Poi scapparono. Nicelli morì subito…

  Dopo una breve pausa, Nemo disse: – La ragazza s’incontrò con Nobre un mese dopo. Poi si ammalò. Adesso è in un manicomio.

  William non disse a Nemo che in parte conosceva quel fatto e si allontanò come non volesse lasciarsi guardare negli occhi. Si diresse verso Palanzano e il mattino seguente cercò di Michele Tyler. Quando fu alla sua presenza, senza testimoni, gli chiese qualcosa e l’inglese non volle subito cedere. Ma William aveva l’aria di fare lo stesso, ad ogni costo, quello che aveva proposto, e Tyler senza aggiungere una sola parola si mise a ripulire la pipa.

  Due giorni dopo il prigioniero subì un regolare processo. Confessò esattamente tutto quello che aveva raccontato Nemo e lo fece senza mai dare segno di timore o di pentimento. Assentiva col capo ogni volta che William esponeva i punti di accusa.

  Lo fucilarono alla schiena. Si era messo contro il muretto che cingeva un campo e la sua bianca nuca piatta pareva una cosa morta da molto tempo.

 

  La sera dopo l’esecuzione Holland informò Ilio di aver ricevuto conferma di un prossimo lancio di armi e di medicinali. La notizia rassicurò il commissario per un solo aspetto della situazione, ma il Maggiore inglese non poteva certo fare di più. Il Natale era trascorso nella quiete ma la prospettiva di un lungo inverno tra la neve creava nuovi problemi, e anche il Comando Unico era preoccupato. Nelle stesse condizioni si trovavano tutte le brigate dell’Appennino emiliano, di cui ogni tanto la 47ª aveva qualche notizia.

  Le scorte dei viveri si assottigliavano in modo preoccupante e dalla città arrivarono brutte notizie. Il «Comando di piazza» sentiva sempre più vicini gravi pericoli, i fascisti erano riusciti a scovare il filo che portava al centro dell’organizzazione cospirativa, molti patrioti erano stati seviziati e fucilati, e le truppe di Alexander stavano al di là della Gotica, ferme in quella maledetta valle della Garfagnana, al riparo di quel maledetto messaggio inviato un mese prima del generale Alexander.

  Per questo e per altro la 47ª capiva che doveva arrangiarsi come poteva, senza mollare un centimetro alla delusione, a fianco della 12ª, della «Julia», della «Giustizia e Libertà» e della «Pablo», mentre i tedeschi si preparavano a risalire su per le valli chiare di neve. Era facile scorgere e colpire un uomo; come una macchia d’inchiostro in un foglio di carta.

 

  Gennaio fu subito ostile e distese duramente il suo gelo. Il sole era una presenza arcana al di sopra della grigia lastra del cielo, voci e rumori morivano sulla crosta nevosa. Il lancio annunciato da Holland non avvenne «per cause impreviste» e il Maggiore inviò un biglietto a Ilio piuttosto antipatico: «Dispiaciuto per lancio mancato e confido su vostra pazienza. Arrivederci presto». Il commissario gettò il biglietto sul fuoco e ritenne opportuno non riferirne il contenuto a nessuno; i partigiani della 47ª cominciavano a dare segni di nervosismo.

  Discusse con Nardo e con Max la possibilità di serrare il dispiegamento dei distaccamenti su linee arretrate ma dovette convenire che ormai ciò non era più realizzabile. Mancavano i viveri, la popolazione era allarmata, i collegamenti con la pianura pericolosi, un arretramento avrebbe potuto suscitare sospetti tra i montanari; infine gli stessi partigiani non lo avrebbero accettato. La situazione si faceva sempre più difficile, la pazienza invocata dal Maggiore era allo stremo della sopportazione. Ilio scrisse sul diario del Comando: «Tutto quello che non accade in questi giorni sembra un presagio di sventura. I tedeschi non si fanno vivi nonostante le condizioni a loro favorevoli. Il terreno è completamente spoglio, col binocolo si può vedere uno stecco a dieci chilometri, gli uomini debbono escogitare rimedi spesso infruttuosi per nascondersi, non è facile mimetizzare una brigata di oltre cinquecento partigiani su questa distesa di neve. Dalla città non arrivano segnalazioni e noi temiamo un improvviso rastrellamento. Il maggiore Holland non si fa vivo da qualche giorno, anche dal Comando Unico non riceviamo notizie. Ma la preoccupazione che più ci pesa sono i rapporti con la popolazione. Colombo sostiene che in alcuni paesi gli abitanti dichiarano apertamente il loro sconforto e incolpano i partigiani di provocare il nemico con azioni inutili. Purtroppo è molto difficile in questo periodo organizzare riunioni con gli abitanti per spiegare loro le cose che non capiscono, o che non vogliono capire, mentre si registra un continuo affluire nella Brigata di giovani della zona. È un fatto che ci fa piacere ma crea il problema per il loro armamento. I lanci sembrano sospesi».

  In quei giorni la Brigata si sentì abbandonata, il messaggio di Alexander continuava ad aleggiare deridente nei silenzi che calavano sulla vallata. Le case, a cui il generale inglese aveva ottusamente accennato, erano una memoria lontana per i guerriglieri della 47ª, una visione quasi insolente; svaniva il senso di cordialità che Holland aveva saputo suscitare con le sue visite ai distaccamenti, tornava quello della maledizione. Per reagire, Lupo costrinse i suoi uomini a scavare trincee lungo la costa che dava sull’Enza, Max studiò nuove tattiche, Spumino andava solo nella pedemontana mostrando tranquilla sicurezza, ma tutto ciò non produsse gli effetti timidamente sperati. Quello che più preoccupava era l’assenza dei tedeschi, o meglio, come diceva Max, la loro nascosta presenza.

  Furono i giorni più cupi che mai la Brigata avesse vissuto, le truppe alleate stavano al sicuro di là dei monti, i contadini parevano solo intenti a ripetere: «Sarà un inverno lungo». Ogni tanto passavano alti e invisibili gli aerei diretti a bombardare città tedesche, la neve tremava al rombo maestoso dei motori. Holland e Tyler, anche lui, non si facevano vivi, chissà che cosa stavano combinando. Forse anche loro stavano pensando a quella sconcertante immobilità del fronte e a ciò che di conseguenza poteva ancora accadere.

  Michael Tyler ricomparve, e fu come sempre era avvenuto dal primo giorno della sua frenetica presenza tra le formazioni partigiane. Camminava nella strada di Lagrimone, con la sua faccia azzurro-rosa fresca di saponetta, la bocca stirata a freddo. Lo incontrò una pattuglia del «Don Pasquino» comandata da Guerra, e Guerra non ebbe bisogno di fare il minimo cenno ai suoi partigiani perché essi proseguissero indifferenti al misuratissimo saluto dell’inglese. Ma Tyler era abituato a ricevere e a digerire l’ostilità della Brigata, tirò dritto, immaginando i commenti che stavano facendo quelli della pattuglia. Però, a lui Guerra non dispiaceva, gli riconosceva soprattutto il modo corretto nel vestire e la giusta misura nelle parole. Tirò dritto affrettando il passo; il Maggiore gli aveva dato l’incarico di avvertire il Comando della 47ª che esisteva la possibilità di un prossimo lancio. Era un compito che richiedeva prudenza.

  Non accadeva niente, contro la pianura si era alzata una barriera di silenzio, i partigiani si spostavano da un posto all’altro presi dal timore di essere sorpresi da un rastrellamento improvviso. Accadde qualcosa un mattino, e come si svolse disorientò il Comando di Brigata. Una colonna di tedeschi salì per i declivi di Lupazzano, lenti e curvi, i fucili a tracolla, come avviati a una esercitazione. Entrarono nel paese e si fermarono nella strada, nessuno bussò a una porta, si guardavano intorno con noncuranza, poi tornarono nel fondo valle senza sparare un colpo. – Erano anziani, soltanto l’ufficiale era giovane, – informò in seguito un montanaro. – Mi sono sembrati stanchi, rassegnati.

  Inspiegabile, perlomeno strano, il fatto si ripeté tre giorni dopo dalle parti di Mulazzano. Una ventina di tedeschi si arrestò nella piazzetta del paese. – Hanno bevuto alla fontana, – raccontò una donna a Spumino. – Erano mal vestiti. Ho visto uno che rideva puntando un dito verso una gallina. Ma non hanno chiesto niente. Quando si sono allontanati ho avuto l’impressione che avessero paura. Hanno rifatto la stessa strada -. Spumino raggiunse il Comando di Brigata e riferì il racconto della donna. Nardo espose subito la sua opinione: quelle due puntate innocue nascondevano un raggiro, i tedeschi avevano voluto dimostrare di non avere più la possibilità di effettuare rastrellamenti, quindi stavano preparandone uno per sorprendere la Brigata.

  Nessuno propose di avvertire Holland, sicuramente egli aveva già ricevuto informazioni precise su ciò che era avvenuto e se non si faceva vivo significava che intendeva lasciare via libera alla 47ª per le misure che riteneva opportune. Fu una specie di sollievo per Max, soprattutto per Ilio, che il Maggiore non intervenisse: i partigiani avrebbero potuto fare ciò che avevano sempre fatto un tempo, prima che Holland piovesse sulla Brigata. Ma non fu semplice studiare le misure per parare il pericolo incombente, c’era tutta quella neve a impedire manovre di sganciamento, e i tedeschi sarebbero tornati con mortai e lanciafiamme, avrebbero potuto sterminare a volontà. E tornava molesto il pensiero per la popolazione che incolpava ciecamente i partigiani di aver creato quella situazione.

  Ancora furono giorni di silenzio, senza alcun indizio del nemico, coi montanari che passavano gravi e assorti e i bambini che non uscivano dalle case, le donne che occhieggiavano furtive dietro i vetri delle finestre e parevano ombre. Nell’aria fredda scorreva la premonizione, il sole era ormai soltanto una clemenza perduta: alla Brigata non restava che aspettare.

 

  Il 31 gennaio, partendo da Traversetolo, San Polo e Castelnuovo Monti, tre colonne motorizzate di SS si concentrarono intorno al monte Fuso bloccando le vie d’accesso alle vallate del Reggiano e dell’Ovest Cisa.

  L’attacco non era stato previsto e quando si sviluppò prese subito aspetti preoccupanti. A gruppi di circa cento uomini, le SS si diramavano per le pendici del monte con una tattica del tutto nuova e riuscirono a penetrare in profondità nello schieramento dei guerriglieri.

  Non c’era niente sulla neve che potesse nascondere un uomo e la lotta da entrambe le parti fu estremamente violenta. Le SS vestite con casacche bianche avevano il vantaggio di potersi mimetizzare, oltre la maggior potenza delle armi, ma i guerriglieri della 47ª sentivano che quello doveva essere l’ultimo grande tentativo dei tedeschi di annientare la formazione.

  I mortai non li sgomentavano com’era accaduto il 20 novembre e i partigiani resistettero agli scoppi micidiali, distesi sulla neve gelata, sparando sino all’ultima cartuccia. Verso le 17 il nemico si ritirò, raggiunse i punti da cui era partito e tanto per rifarsi dello smacco rastrellò un centinaio di uomini inermi a Traversetolo e a San Polo.

  La 47ª ebbe sette morti e Dante aggiunse i loro nomi al lungo elenco. Sino a quel giorno essi erano 87; i feriti 59; i dispersi 5. La vecchia Brigata mostrava le sue cicatrici e gli Alleati stavano sempre tra gli ulivi della Garfagnana.

  II grosso attacco tedesco dimostrò ancora una volta al maggiore Holland di quale pasta era fatta la Brigata dalla testa troppo calda ed egli non accennò più ai fazzoletti rossi che portavano gli uomini del « Griffith». La faccia un poco affilata e un velo di amarezza negli occhi, l’inglese lasciava intendere di aver scoperto molte cose interessanti nei sette mesi sino allora trascorsi nell’alta valle dell’Enza. Anche Michael Tyler era smagrito, le sue gambe si erano fatte più lunghe ed ora accendeva la pipa senza preoccuparsi di nascondere quello che pensava.

  Da Parma, le notizie davano l’impressione che la vita dei patrioti rimasti in città stesse per subire un grave colpo, e arrivò quella riguardante Tom. Egli era stato scoperto mentre usciva dal Comando della Brigata nera e altre prove della sua vera identità erano state raccolte, ma era molto difficile poterlo colpire.

  Due giovani operai lo avevano atteso nei punti in cui si supponeva dovesse passare, ma Tom non si era fatto più vivo e il Comitato insurrezionale pensò che i fascisti lo avessero trasferito in un’altra città. Invece, cosa incredibile, stupefacente, la spia stava preparandosi per risalire sui monti presidiati dalla 47ª.

  Quando Donez, il mattino del 24 febbraio, piombò nella sede del Comando per annunciare che Tom si era presentato all’avamposto di Provazzano, i partigiani restarono letteralmente allibiti. La notizia aveva tutte le apparenze di un fatto inverosimile e Donez dovette gridare che quanto aveva riferito era vero, perché Max non voleva credergli e si era messo a guardarlo con aria piuttosto aggressiva. – Vi giuro che è vero, ragazzi, – ripeté. – È proprio lui. Ci è venuto incontro subito dopo il ponte rotto. Noi stavamo andando a Castione quando lo abbiamo visto sbucare da un viottolo, dietro il mulino.

  Ilio a questo punto interruppe Donez e gli domandò: – Come era vestito? – La domanda parve strana agli altri che ascoltavano fissi il racconto di Donez, ma Ilio fece un gesto per fare intendere che se l’aveva fatta c’era una ragione. – Com’era vestito? – ripete sollevandosi di scatto dalla seggiola.

  – Ma, mi pare come sempre. No, aspetta un momento, – rispose Donez, come intimorito. Si concentrò, poi disse: – Ma sì, perbacco. Hai ragione, Ilio. Ora ha un paltò scuro, nuovo, da borghese -. Ilio lanciò un’occhiata intorno, sembrava soddisfatto. – Continua, – disse.

  – Come lo abbiamo visto ci parve un fantasma. Dico sul serio. Pantera, che stava davanti, fu il primo a vederlo e gli ha detto: «Tu?» e Tom sorridendo ha risposto: «Sì. E per miracolo, ragazzi». Lo abbiamo circondato ed è stato Mirko a puntargli lo sten contro la schiena. Allora Tom senza nemmeno alzare le mani ha detto: «Cosa fate. Cosa credete. Siete matti? » Non sapevamo cosa rispondere. Lui ci guardava con aria addolorata, senza dar segni di paura. Si è avviato verso il ponte scrollando il capo e noi proprio non sapevamo cosa fare. Ora è nella cantoniera con Mirko e gli altri che lo sorvegliano, ma lui dice che deve parlare con voi di cose molto importanti.

  Al racconto di Donez segui profondo il silenzio e fu Ilio a romperlo. – Sentite. Tom sta giocando una grossa carta -. Percorse su e giù la stanza, guardò Nardo, poi Max. – Lasciamogliela giocare sino in fondo, – aggiunse. – Vediamo a che punto arriva questa sua spudorata audacia.

  Pochi minuti dopo, Donez risalì sulla motocicletta e partì veloce per portare le istruzioni di Ilio all’avamposto dove Tom aspettava sotto la mira degli sten di Mirko e di Pantera. Erano istruzioni molto semplici ed erano fatte su misura per concedere all’uccisore di Juan di fare sino in fondo il suo tragico gioco.

  Cosi cominciò l’ultima parte della vita di Tom; un epilogo che portò l’impronta di quella fatalità apparsa il pomeriggio del 14 ottobre, quando fu arrestato Juan e nella stessa notte giustiziato, da colui che ora saliva solo tra le colline coperte di neve, su per la strada deserta di Lupazzano, scuro e curvo nell’aria chiara di quel mattino così chiaro che si vedeva nella pianura il rigo scintillante dei fiumi, le case, gli alberi nudi e sottili, e dall’altra parte, dove era diretto Tom col mistero della sua anima e coi suoi lugubri pensieri; il sinuoso contorno dei crinali su cui brillava lo smalto del sole.

  Tom non incontrò nessuno sino a Campora. I partigiani avvertiti del suo ritorno avevano ricevuto l’ordine di lasciarlo passare indisturbato ed essi lo videro passare nascosti nelle case e seguirono perplessi la sua figura avanzare e sparire dietro le svolte, chiedendosi in silenzio cosa mai egli intendesse fare, perché fosse tornato e perché avesse scelto di morire sotto il fuoco della 47ª.

  A Campora, un ragazzo stava davanti la porta di casa e Tom lo salutò. Il ragazzo rimase immobile a guardarlo e Tom sorrise. Poi cavò dalla tasca un pugno di caramelle ma il ragazzo scosse il capo. Dalle finestre si sporsero anonimi visi di donne. Passò rapido un altro ragazzo, lo sguardo ostentatamente rivolto ad altre cose. Tom riprese il cammino, salì per la scorciatoia che attraversava il Fuso a mezza costa. Ogni tanto affondava nella neve; l’aria era fredda, dura, splendente. Ora vedeva la valle piena di calmi bagliori aprirsi contro le montagne e, dietro il varco di Lagrimone, la fiancata nevosa del Caio che brillava come una enorme lastra di zinco.

  Tom arrivò a Lagrimone alle 14 e attraversò il paese con passo stanco, il paltò aperto e la testa piegata sul petto. Una squadra del «Nadotti» stava sotto un portico e Fulmine fece segno ai suoi uomini di non dire una parola. Tom si volse lentamente verso il portico e tirò dritto e pareva, così pensò il partigiano Boris in quel momento, che rinserrasse le spalle come si aspettasse una scarica.

  Alle 15,30 passò sotto le case di Budrio. Da una finestra lo seguì per un tratto lo sguardo attento di James, che si era appostato dentro la casa. Poi Tom arrivò alla svolta da cui si vedeva la scuola di Ranzano. Si fermò guardandosi intorno senza timore. Si mise in bocca una caramella. Udiva sepolto dalla neve il brontolio dell’acqua sotto il versante. Sui crinali la luce cominciava a ingiallire.

  Tom riprese il cammino. Si era levato il vento. L’ala del cappello riversa gli rendeva più dura e deserta la faccia, in cui le occhiaie spiccavano pietosamente volgari. Camminava più spedito ora, la bocca chiusa e bianca, per quello che sapeva di dover affrontare. Camminava lungo la strada dura di gelo, risonante, conscio a modo suo di ciò che aveva deciso di fare da quando aveva intuito all’avamposto che la 47ª lo aspettava schierata e invisibile lungo il cammino per chiedergli conto di quello che egli era e di quello che aveva fatto.

  Non sentiva la paura, il suo morso asciutto nella gola, e vedeva il tetto della scuola avvicinarsi, la scuola dove avevano arrestato Juan, quel pomeriggio di ottobre. E alzando il capo, sul colle tondo ove tra la neve apparivano chiazze brune di terra vide a un tratto la grande casa con la piccionaia e dietro, sul pendio, i tronchi dei castagni nell’ombra del canalone. Dietro la casa, sotto quei castagni, in un punto che ora non riusciva a ricordare, egli aveva sparato a Juan inginocchiato sotto la pioggia.

  Non senti la paura nemmeno quando scorse Corrado stagliarsi sulla porta, la stessa porta di quel pomeriggio d’ottobre. Corrado pareva vestito di catrame. Stava immobile come può esserlo chi inesorabilmente deve compiere una cosa ineluttabile e Tom chinò il capo.

  – Ciao Corrado – disse avanzando verso la porta. Corrado si scostò. Nell’interno c’erano tutti, tutti quelli che Tom sapeva di trovarvi. Nessuno di essi fece un gesto e non si udì una sola parola.

 

  Tom confessò le sue colpe senza tentare di giustificarne una sola. L’interrogatorio durò non più di un’ora e nessuno ritenne necessario avvertire Michael Tyler.

  Alle nove di sera Tom conobbe ufficialmente quella sorte che lungo il cammino sulla neve egli aveva man mano intravista nel torpore dei pensieri e che, più delineandosi nella sua inesorabilità, lo aveva sollevato quietamente dalla paura.

  Chiese soltanto di essere fucilato il mattino dopo e nessuno sospettò che lo avesse fatto per «ritrovarsi», nella buia attesa dell’esecuzione, col fantasma di Juan. Gli fu concesso, e Tom trascorse la notte disteso sulla paglia in un angolo dell’aula, sotto lo sguardo attento di quattro uomini scelti da Corrado.

  Scheggia arrivò in tempo per prendere parte all’esecuzione ma prima volle dare un’occhiata al condannato dentro l’aula. – Non dirgli niente. Lascialo stare, – raccomandò Ilio, afferrandolo a un braccio. – Hai capito?

  Scheggia si ritrasse con un movimento brusco, varcò la soglia e si avvicinò a Tom, che stava supino, le braccia incrociate sotto il capo. Per alcuni istanti lo sguardo di Tom rimase duro e dritto contro quello di Scheggia, mentre Ilio, Max, William si mettevano alle spalle del partigiano. Questi si volse a guardarli, leggermente, di sopra la spalla, poi levò dal taschino della blusa una sigaretta. La tenne sospesa nel vuoto e, prima di lanciarla, disse con voce piana e sorda: – Tom, te la manda Juan -. Poi si allontanò calmo e i suoi passi risuonarono precisi nella stanza.

  Tom non accese quella sigaretta ed essa fu poi ritrovata tra la paglia. Si levò con lentezza dal giaciglio quando lo chiamarono e si avviò impassibile per il sentiero che portava al prato, al di là della strada. Si diresse subito verso la seggiola posta accanto alla siepe, dove c’era ancora la neve. Prima di sedere a cavalcioni tese il palmo della mano verso il plotone di esecuzione e sollevata la seggiola la portò due passi a lato, dove non c’era la neve. A qualcuno parve che sorridesse mentre allargava le gambe per sedersi.

  Nello stesso pomeriggio, una ventina di guerriglieri del «Pontirol» e del «Nadotti» penetrarono nello schieramento nemico di Montechiarugolo, distruggendo due autocarri e tre linee telefoniche. Sulla via del ritorno venivano circondati da una colonna tedesca chiamata di rinforzo e furono impegnati in un durissimo combattimento.

  Dopo due ore, lasciando sul terreno due morti, si aprirono la via della ritirata con sforzi disperati e completamente privi di munizioni raggiunsero gli avamposti.

  L’azione fu poi elogiata dalla Missione Alleata per il «carattere militare e tattico mostrato nelle sue fasi» ma i guerriglieri, quella sera, mentre risalivano la strada per tornare ai distaccamenti non valutarono certo gli aspetti della loro impresa. Pensavano alla notizia appresa agli avamposti: Spumino, catturato dai fascisti due settimane prima, era stato fucilato insieme con ventidue patrioti, sulla via Emilia, vicino a Sant’Ilario.

  La staffetta che aveva portato la notizia raccontò come era morto e in seguito, quando i tedeschi passarono il Po, altre cose si seppero e tutte ancora una volta dimostrarono chi era Spumino.

  Il maggiore Holland lo aveva sempre considerato un tipo duro, forse eccessivamente incline alle decisioni violente, e Spumino, che a sua volta considerava la guerriglia per quello che doveva essere, non ci aveva mai fatto caso e di proposito partecipò solo una volta alle riunioni in cui interveniva l’inglese.

  Era stato sorpreso una sera mentre insieme con Fiamma tentava di penetrare nella casa di un fascista, nei pressi di Montecchio. Quel fascista partecipava ai rastrellamenti e con le sue mani aveva ucciso tre partigiani, dopo averli torturati. Era un vecchio conto che Spumino voleva regolare, ma non gli riuscì di farlo e questo fu l’unico dolore che lo accompagnò fino al giorno in cui lo fucilarono.

  Lo tennero nella prigione di Ciano d’Enza due settimane e il fascista-rastrellatore poté picchiarlo a sua volontà. La faccia di Spumino, quando lo caricarono sul camion, pareva una vescica gonfia di sangue e gli occhi due grandi macchie a fior di pelle. Egli non diceva nulla e stava dritto e anche sul camion stette dritto e in piedi e gli altri patrioti lo guardavano chiedendosi dove trovasse tutto quel vigore.

  Spumino lo trovava nell’odio e nel disprezzo di cui riservò una grossa parte per gli ultimi minuti di vita, quando lo misero capo fila sul ciglio della strada. Dietro di lui c’era un mucchio di neve sporca e i campi che si stendevano verso le colline sotto la luce grigia del mattino.

  Spumino non si volse a guardarli. Stava immobile, col cartellino che gli avevano appeso al collo. Il cartellino portava il numero uno e gli copriva un po’ il petto nudo, perché gli avevano aperto la camicia e lui si chiedeva soltanto perché avessero fatto una cosa tanto stupida. C’era freddo e Spumino lo sentiva sulla pelle asciutta e solo ai piedi sentiva un male quasi insopportabile, come se un grosso insetto glieli mordesse.

  Poi venne un ufficiale tedesco che camminò adagio lungo la fila osservando i visi dei condannati. Era magro e aveva gli occhi verdi e sottili tra le ciglia bianche. Davanti a Spumino si arrestò e disse una parola che Spumino non capì, poi rinculò adagio e si mise di là della strada e levò il braccio.

  Una trentina di soldati si allinearono al suo fianco e aspettarono, il mitra sotto il braccio, impassibili, come annoiati. Spumino li guardava e l’ufficiale osservava lui, perché gli stava esattamente di fronte, e nei suoi occhi c’era una fredda luce spietata. Gridò secco qualcosa e i mitra si sollevarono orizzontali, corti, come spuntoni di un complicato lungo ordigno.

  A questo punto, come raccontarono poi due contadini che erano stati costretti ad assistere all’esecuzione, Spumino lanciò un grosso sputo, senza muoversi di un centimetro, verso l’ufficiale. Dopo un attimo di sorpresa, in cui la sua faccia si dilatò rossa e violenta, l’ufficiale gridò una lunga parola e la scarica rintronò sui campi.

  La morte di Spumino scavò una ruga profonda sulla vecchia faccia della Brigata. Holland mandò uno dei suoi laconici biglietti: «Dispiacente fine mio “avversario” Spumino, partigiano ottimo». In un angolo del biglietto c’era anche la firma di Tyler.

  Max aveva perduto il suo collaboratore ideale, quello che non aveva mai dubitato delle proposte temerarie che Max traduceva in azioni all’insaputa del Comando. Insieme, quando la 47ª era ancora una formazione allo stato primitivo e armata di vecchie pistole, erano riusciti a fare cose da altri ritenute impossibili. Certo, la fortuna non li aveva mai abbandonati, nemmeno nelle imprese eccessivamente spericolate e superflue, come quella compiuta nel paese di Traversetolo, quando da soli erano penetrati nel municipio e dalle finestre avevano proclamato la legge partigiana. Nel paese c’erano una cinquantina di militi fascisti. Max e Spumino li lasciarono avvicinare e come furono a tiro scagliarono le sole due granate che in quel tempo il 2º battaglione possedeva. Il risultato fu superiore all’aspettativa: caddero dilaniati sei militi, gli altri si ritirarono, ma quell’impresa provocò pochi giorni dopo una reazione violenta dei tedeschi e la 47ª dovette sostenere ripetuti scontri, con vecchie pistole, moschetti, e molta disperazione.

  Ora la Brigata aveva armi per combattere con minore svantaggio, in parte le aveva trovate arrangiandosi a danno di brigate riccamente dotate e anche questo in gran parte era dovuto all’intraprendenza indisciplinata di Spumino e di Max. Ma i ricordi e le rievocazioni non potevano resistere a lungo tra i guerriglieri della 47ª, il nome di Spumino passò nel registro ed ebbe a lato il numero 93, tanti erano sino a quel giorno i caduti della formazione dalla testa troppo calda. Su di essa intanto stava addensandosi un nuovo pericolo.

  Fu Holland, reggitore supremo delle sorti e dei capricci, ad accennarne l’imminenza. Invece di capitare al Comando di Brigata credette più conveniente incontrarsi con Ilio nei pressi di Selvanizza, proprio nella casa in cui lo aveva incontrato la prima volta. Arrivò solo, senza Tyler, e questo poteva indurre a riconoscergli una lodevole crescita della discrezione. Salutò il commissario con grandi gesti e questo insospettì e dispose Ilio alla cautela. Anche negli occhi Holland mostrava una cordialità troppo insolita, quasi provocatoria. – Novità, – cominciò con voce allegra. – Per te e per me -. Prima di entrare nella casa si volse a osservare compiaciuto la valle piena di sole. – Novità militare, – riprese. – Grosso vantaggio per me.

  Ilio lo interruppe: – Dài Maggiore, spiega questa nuova novità -. Holland sorrideva con ironia, cordiale. – Eccola, – disse. – Il Comando piazza ha deciso di dare una strutturazione diversa a formazioni. Verrà da te emissario, ufficiale esercito italiano -. Si arrestò, abbassò il capo e soggiunse: – Auguro buona fortuna -. Avrebbe voluto dire qualcosa di più, lo si capiva dalle sue mosse esitanti mentre si abbottonava lentamente la giubba. Ilio si era già diretto alla porta dicendo: – Ciao, Holland. Buona fortuna anche a te. Se era per questo, potevi scrivermelo -. Fu l’incontro più breve che essi ebbero, e fu l’ultimo. Tutto ciò che in seguito avvenne nella Brigata escluse la diretta partecipazione di Charles Holland, insediando il commissario al centro di quella totale libertà d’azione che egli aveva saputo pazientemente e pericolosamente costruire.

  Il giorno dopo il Maggiore incontrò Max sulla strada di Sasso. Era la prima volta che si spingeva oltre il monte Fuso e Max glielo fece notare con parole che tradivano impertinenza, ma Holland stette al gioco sorridendo, la faccia liscia e giovane nel sole. Camminarono insieme senza uno scopo preciso, contenti per il sole che splendeva. Tra le chiazze di neve luccicava il terriccio dei solchi, spuntavano esili fili di grano, e i germogli sulle siepi ancora scure. Davanti a una casa c’era un uomo che sarchiava la terra sotto un albero. Holland sollevò alto il capo e disse: – Primavera -. Allungò il passo. Max pensava che il Maggiore si fosse liberato di tutta la freddezza portatasi giù col paracadute in quell’ormai lontano giorno di giugno, e che ormai cominciava a capire i partigiani della 47ª. Improvviso si levò un canto di là della svolta. Una fila di partigiani veniva su per un sentiero. Portavano al collo un fazzoletto rosso e cantavano un vecchio inno di battaglia. Videro il Maggiore e continuarono a cantare a voce più alta. – Comunisti, – disse con noncuranza Charles Holland. – Partigiani, – rispose Max. Ma lo disse con tono docile. Cominciava a provare rispetto per quell’inglese che aveva tentato di cambiare la testa alla 47ª.

 

  L’incontro fra il commissario della 47ª e l’ufficiale del Comando piazza era stato fissato per il mattino del 27 febbraio, nella scuola di Mulazzano, e rimase un episodio abbastanza memorabile nella storia della Brigata. Non presentò niente di romanzesco, soltanto confermò ancora una volta inequivocabilmente che la 47ª non accettava sottigliezze strategiche, programmazioni aride e, soprattutto, il modo in cui esse venivano suggerite.

  Prima di recarsi all’appuntamento Ilio aveva esposto a Nardo la tattica che avrebbe usato per non lasciare troppo spazio allo sconosciuto ufficiale e Nardo consigliò una «coraggiosa prudenza», scusandosi immediatamente per quella definizione ipocrita e militaresca. Si erano riuniti nella casa della signora Camilla, dove nel passato erano state prese le decisioni più importanti per la sopravvivenza della Brigata. La signora Camilla era la madre di Toti e la sorella del comandante unico, Arta, ma lei sapeva fare le cose in modo da sembrare soltanto una collaboratrice anonima, paziente e discreta. Si era abituata all’angoscia delle lunghe attese e ai partigiani che passavano sotto la casa non chiedeva mai notizie del figlio; sapeva non mostrarsi puerile o preoccupata, in fondo anche lei era una partigiana e che tale fosse bastava il fatto che la sua casa quelli della Brigata la chiamavano «avamposto Camilla».

  Per andare a incontrare l’ufficiale, Ilio si fece accompagnare da Dante e da Aren, spiegando a Colombo che la sua presenza non avrebbe giovato all’impostazione psicologica che intendeva dare al colloquio. Colombo raccomandò di non cedere sui punti vitali, quelli cioè che per lui contavano più di ogni altro e che rappresentavano la struttura ideologica della Brigata. Colombo era stalinista, ma riusciva anche a dimenticarsene quando si trattava di risolvere problemi delicati; l’arrivo dell’ufficiale lo aveva però riportato alla diffidenza. Ilio lo salutò ammiccando ai pensieri segreti che in quel momento si agitavano nella fede dell’anziano militante. – Stai tranquillo, – disse allontanandosi con Dante e Aren su per il viottolo che portava alla scuola di Mulazzano.

  Arrivarono con anticipo. L’aula era spaziosa e illuminata dal sole, la neve era ancora alta e dura sotto i rialzi esposti a settentrione. Suonarono le campane della chiesa, l’ufficiale tardava a comparire, l’ora fissata era trascorsa da un pezzo. Ilio cominciò a camminare tra i banchi, sotto gli occhi tristi di Aren. Andò alla finestra. – Scommetto che è là, col parroco, – sbottò. – Gli starà chiedendo informazioni su di noi. Quei tipi lì vanno sempre dai preti prima di venire da noi -. Si voltò per ricevere il consenso di Dante e di Aren. Solo questi rispose, quieto, come distratto: – Può darsi che abbia incontrato ostacoli. Forse ci sono tedeschi in giro -. Il commissario gli si parò davanti sgranando gli occhi: – Ostacoli? Tu credi così? Sei un ingenuo -. Lo guardò con pietosa ironia. – Scommetto che è col parroco. E tu ora vai a vedere e se c’è lo porti qui.

  Aren esitò un momento, apri la porta e tentò timido: – Non conviene aspettare ancora qualche minuto? – Non attese la risposta e uscì. Ilio lo vide su per la china salire adagio, scuro e solitario nella luce mattutina e pensò che lo aveva sempre visto così, con quella sua strana apatia sconsolata, gli occhi sempre dispersi in chissà quali pensieri e quella voce priva di accenti, come malata. Era un tipo curioso Aren, pensava il commissario, forse qualcosa di più, forse si portava nell’anima un vecchio male; certo non era uno da mettere in un distaccamento. Per un attimo ebbe la visione del «Griffith» e sorrise immaginandovi Aren. Dal primo giorno che l’aveva visto capì che doveva tenerselo vicino.

  Continuava a pensare su e giù tra i banchi, quando la porta si spalancò. Alto, elegante, l’emissario del Comando piazza sorrideva coi sottili baffi biondi. Portava un vestito coi calzoni a sbuffo, i calzettoni a scacchi, un maglione giallo canarino. Nella fantasia di Ilio tutto ciò prese l’aspetto di un farmacista sportivo. Scattò cerimonioso sull’attenti allungando il collo e proclamò: – Colonnello Spada, del Comando piazza -. Avanzò e tese la mano. Alle sue spalle navigava contro il chiarore della neve il viso assorto di Aren. Con proditoria delicatezza Ilio sfiorò la mano del colonnello, poi si ritrasse e con un ampio gesto si tolse il berretto mormorando: – Commissario della 47ª brigata Garibaldi.

  Il colonnello spense il sorriso, i baffi apparvero troppo orizzontali. Egli s’irrigidì, osservò di sbieco la figura di Dante chino su un banco, avvertì l’ostilità del commissario. – Chiedo scusa per il ritardo, – disse. – Non è stato per mia volontà -. Ilio teneva il berretto contro la coscia, scorreva lo sguardo sul vestito dell’ufficiale. – Per volontà del parroco? – insinuò. – Era mio dovere parlargli, – rispose il colonnello. – Fa parte delle buone relazioni, preziose in questo momento -. Si tolse il cappello. Ilio si calcò il berretto sulla testa. – Prego, – disse, indicando una seggiola, – si accomodi, colonnello Spada.

  Il colonnello non sedette. Capiva che doveva affrontare un tipo poco raccomandabile, proprio come glielo avevano descritto giù al Comando piazza, oltretutto comunista, pericoloso, siciliano per giunta, chissà forse un po’ mafioso, certamente scorbutico, privo di buone maniere, e anche piccolo e goffo in quel pastrano stretto, con quel berretto peloso dai grossi paraorecchi, e quegli occhi che giravano larghi e liquidi come alludessero a oscure minacce. Non gli piaceva, sarebbe stato un colloquio difficile, ma bisognava esporre gli intendimenti del Comando piazza, far capire a costui che le cose dovevano cambiare. Il colonnello disse: – Credo che lei conosca il motivo della mia visita -. Sentì pioversi addosso la risposta di Ilio: – Certo, pressappoco, signor colonnello.

  Occorreva prudenza, quel tipo non concedeva proprio niente alla cordialità. – Posso cominciare, commissario? – chiese con finta umiltà espressa malamente. Sedette e levò da una tasca un foglio dattiloscritto. – Qui c’è tutto. Le nuove disposizioni -. Si sentiva osservato, quel fetente commissario non diceva una parola. – Lei potrà leggere, discuterne coi suoi comandanti -. Poi, di colpo, con tono freddo: – Certo, sarebbe stato meglio che fosse venuto anche il comandante militare della Brigata -. Si accorse di aver infastidito il commissario con quel «militare». Continuò: – Si è reso necessario dare una struttura più omogenea alle formazioni… – Il commissario taceva, gli altri due ora guardavano fuori dalla finestra; quell’aula al colonnello sembrava uno scenario pieno di trabocchetti. Sulla lavagna spiccava a lettere irregolari la scritta di uno scolaro: «La mia mamma va a fare la spesa».

  Il colonnello Spada si alzò e si mise il cappello. Disse: – Le lascio quindi le disposizioni -. Poi, con marcato tono di riverenza: – Le potrà leggere con calma. La prego soltanto di mandare conferma al Comando piazza -. Finalmente udì il commissario: – Senz’altro -. Ma gli suonò chiaro come un invito: per il commissario della 47ª non c’era altro da aggiungere. Non era quello il modo di ricevere un emissario venuto apposta dalla città col rischio d’incontrare tedeschi e non era giusto rispondere con qualche parola, a muso duro, come se fosse lui il padrone del mondo. Comunque era una questione da chiarire al Comando piazza e si sarebbe fatto sentire, pensava il colonnello preparandosi al commiato.

  – Le auguro buone cose, – disse battendo i tacchi. – Anche alla sua Brigata -. Si diresse alla porta. Aren l’aveva già aperta e guardava il pavimento. Il colonnello Spada raggiunse il sentiero, si voltò a guardare la scuola; poi cominciò a salire. I suoi calzettoni rendevano inconsueto, quasi irreale il paesaggio. Ilio si era incastrato dietro un banco a leggere il dattiloscritto, passava la punta di un dito sotto le righe, scuoteva il capo. – Cazzate. Neanche se le avesse scritte Badoglio, – borbottò. Tornò a rileggere dal principio. – Cazzate, – ripeté. Gettò il foglio sul banco, colse lo sguardo afflitto di Aren, riprese il foglio, sventolandolo disse: – Qui ce n’è per tutti. Nemmeno Holland, e nemmeno Tyler, pretenderebbero tanto, capisci? – Ora fissava Aren intensamente coi grossi occhi lucidi. – Capisci, vorrebbero che la Brigata diventasse un reggimento, come quelli che aveva il nostro beneamato esercito. E quel tipo là, coi suoi baffi da cretino ha scritto tutto questo; non solo, è venuto qui a portarcelo, in persona, con quel vestito…

  Aren dalla finestra guardava salire il colonnello Spada su per la china. Alla sommità aspettava il parroco con le braccia arcuate, la faccia rossa e lustra; sembrava aspettasse con impazienza di poter abbracciare il colonnello. Difatti lo abbracciò, lo coprì con la sua veste nera come volesse proteggerlo, gli batté una mano sulla spalla e insieme si allinearono per guardare verso la scuola. Poi si allontanarono, entrarono nella parrocchia. Aren li immaginò seduti davanti a una bottiglia di marsala discutere del commissario. Non poteva essere altrimenti, pensava Aren osservando Ilio curvo sul banco, infagottato nel vecchio cappotto, il capo appoggiato a una mano, cupo e solitario come un grosso rapace stanato dal suo regno.

  – Andiamo. Leviamoci da questo posto, – disse Ilio alzandosi. Ficcò il foglio nella tasca e andò alla porta. Fuori, nel sole, tese un braccio verso la vallata che si stringeva sotto il monte Caio. – Un reggimento vogliono che siamo. Maledetti coglioni, – disse. Imboccò la mulattiera che attraversava la costa. Procedeva come ignaro dei suoi due gregari. Dante manteneva scrupolosamente il silenzio e Aren rivedeva il colonnello Spada elegante e pulito nell’abbraccio del parroco. Pensava che Ilio vedeva e prevedeva le cose e nonostante si fosse mostrato troppo brusco, anzi villano, anche imprudente, pericolosamente spavaldo, in fondo aveva ragione, doveva averla.

  Camminavano sulle pietre umide, da quella parte c’era l’ombra. Tra i rami spogli dei faggi baluginava l’alpe di Succiso, lontana e candida, ancora tutta di neve: ai suoi piedi, nell’altro versante, si stendeva il fronte degli Alleati, immobile, misterioso e odioso come un ricatto.

 

  Ancora una volta, rappresentata dal suo commissario politico la Brigata si offriva allo scandalo. Nessuno, negli alti comandi, avrebbe tenuto conto di ciò che aveva fatto disperatamente fino al giorno dell’incontro col colonnello Spada. Una benedetta volta per sempre la 47ª doveva ricevere la giusta punizione: si trattava soltanto di elaborarla con la dovuta cautela del caso, perché nella Brigata c’erano tipi che non l’avrebbero accettata con rassegnazione.

  Ilio aspettava. Aveva spiegato le fasi dell’incontro con l’emissario a Nardo, Max e William, richiamando l’attenzione sul passato della 47ª con accenti pieni di passione, anche se non ve n’era bisogno. Solo Nardo, che era stato nell’esercito e conosceva la mentalità di certi ufficiali superiori, si mostrò preoccupato: certamente sarebbe giunta presto la reazione. Tre giorni dopo si presentò nella persona del comandante unico.

  Arta arrivò a Lagrimone il mattino del 2 marzo, evitò i soliti preamboli e, preso sottobraccio Ilio, lo trascinò su per un viottolo. Scomparvero alla vista di Nardo, che avrebbe voluto partecipare alla discussione. Ritornarono dopo un paio d’ore, entrambi taciturni e gravi; ma Nardo lesse negli occhi del commissario che la bufera aveva avuto un epilogo abbastanza rassicurante. Arta entrò nella stanza con aria rattristata, occhieggiando dappertutto come intenzionato a diffondere fra i presenti un senso di rammarico, ma il suo atteggiamento tradiva anche un senso di austera comprensione: Franci era morto combattendo nella 47ª e Franci era suo figlio.

  La reazione si presentò ancora due giorni dopo nella persona di uno sconosciuto sorpreso all’avamposto di Castione da due guerriglieri del distaccamento «Pontirol». Non aveva documenti, né credenziali; disse soltanto: – Portatemi dal commissario, – e lo disse in un modo che i due partigiani, dopo un attimo di perplessità, decisero di accompagnarlo senza tentare ulteriori accertamenti. Era un uomo magro che guardava con le palpebre socchiuse, la bocca dura, un pallore vibrante.

  Ilio era nella sala consiliare del municipio di Neviano, dove ogni tanto si ritirava per scrivere le sue relazioni. Nell’andito c’era Gim e fu lui a ricevere lo sconosciuto e capire che doveva subito lasciarlo passare. Aprì la porta, l’uomo entrò con passi decisi e si volse di scatto. Gim chiuse la porta, non aveva più dubbi. Avrebbe voluto allontanarsi dall’andito, ma lo trattenne la curiosità. D’altra parte era suo il compito di sorvegliare e proteggere il commissario. Così poté udire la voce dello sconosciuto levarsi a tratti fredda e tagliente: – È inutile ciò che vai rimenando, caro Ilio, il partito ha deciso così, e tu devi obbedire… – Anche la voce di Ilio echeggiava sonora, ma Gim era colpito soltanto dalle parole dell’altro: – Capisco, avrai le tue buone ragioni. Ma ora non contano; conta il partito -. Poi pause brevi, ancora Ilio che spiegava, e ancora l’altro che insisteva: – Cerca di capire la situazione, bisogna accettarla per quella che è.

  Gim sentì il tonfo di una mano battuta sul tavolo, un muoversi di seggiole, la voce del commissario: – Va bene. Come volete -. Si allontanò dalla porta e quando essa si aprì lo sconosciuto l’osservò con sospetto, si volse a Ilio e fece un cenno. Il commissario lo rassicurò, nessuno aveva udito quello che si erano detti. Tornò nella sala consiliare, l’altro si guardò intorno e attese. I due partigiani che l’avevano sorpreso all’avamposto lo precedettero e si avviarono senza mai voltarsi giù per la strada. L’uomo li seguiva taciturno; estranea e imprevedibile la sua presenza sembrava imporre il silenzio. Raggiunsero l’avamposto, vicino al torrente. Lo sconosciuto fece un cenno d’assenso, sorrise, un piccolo segno delle labbra; poi accelerò il passo, imboccò un sentiero sul versante opposto e scomparve.

  Il giorno dopo i comandanti dei distaccamenti ricevettero una circolare ciclostilata in cui il commissario politico della 47ª li invitava a considerare con obiettività «una situazione in cui non era più possibile compiere azioni personali», che si doveva invece «consigliare a tutti i partigiani una disciplina unitaria…» Max la commentò con una sola parola, poco decente; si divertì a immaginare Ilio intento a scriverla e il colonnello Spada chino alle sue spalle.

  Cadeva la gloriosa struttura della Brigata sotto i colpi freddi di una nuova strategia e venne l’annuncio che il Comando Unico, per rendere più agile e funzionante lo schieramento, aveva deciso di suddividere la 47ª in due formazioni di minore consistenza numerica: la 143ª Brigata «Aldo» e la Brigata «Franci», incorporate in una divisione al cui comando fu designato Nardo. Le disposizioni portate a mano dal colonnello Spada cominciavano a funzionare trafiggendo il cuore della vecchia 47ª, nell’interesse collettivo di tutte le unità che operavano sugli Appennini. Nel suo aspetto militare il provvedimento non faceva una grinza, ma il Comando Unico dovette mandare l’ufficiale di collegamento Roda per spiegarne l’utilità ai partigiani. Roda, ritrovandosi tra i vecchi compagni, si limitò a spiegazioni generiche e lasciò intendere che tutto sommato la Brigata continuava ad essere esattamente com’era sempre stata.

  E cosi essa rimase, senza incertezze, con gli uomini che l’avevano creata e resa leggendaria, William, Max, Gim, Lupo, Guerra; col suo irriducibile commissario siciliano; con la presenza immutabile dei suoi morti. Nel mese di marzo la 47ª sostenne nove combattimenti e perse ancora 27 uomini.

  Poi venne aprile, il sole tra i rami freschi e sui campi rigati dalla brezza. Il Maggiore aveva ricuperato i quattro o cinque chili di peso perduti nell’inverno, passava cordiale lungo le strade col suo muletto e il montanaro che silenzioso e obbediente precedeva l’animale. I partigiani salutavano: «Ciao Maggiore» e lui sorrideva a quella familiarità con cenni eleganti, il basco nero di traverso come una benda.

  I distaccamenti avevano ricevuto le nuove divise e altre armi e i partigiani obbedirono all’ordine del Comando Unico di togliere dal collo i fazzoletti rossi. Solo quelli del «Griffith» lo tennero sotto il risvolto della blusa caki, con discrezione.

  I contadini ripresero i lavori nei campi, animati dalla volontà di essere più vicini ai guerriglieri. Avevano capito oramai il significato della lotta condotta con durezza dalle formazioni partigiane, svaniva il ricordo delle reciproche incomprensioni, della diffidenza provocata da tragici episodi. Era stata una lotta dura e crudele, insidiata dalla segreta ostilità di qualche sfollato nella zona, anche dall’indifferenza neutrale di qualche vecchio prete. Ma i partigiani avevano ricevuto l’appoggio dei giovani parroci: uno di essi morendo aveva lasciato il suo nome a un distaccamento, il «Don Pasquino», proprio quello che era stato la matrice della Brigata. Il dramma stava per finire, i montanari della vallata ora aspettavano la vittoria e la sentivano nell’aria, distesa e luminosa nella luce che irradiava giù per la pianura sino a quella striscia lontana di ombre bluette che segnava il corso del Po, dove i tedeschi stavano approntando l’ultima resistenza.

  La 47ª non aveva più il suo vecchio nome ma erano sempre gli stessi uomini che andavano verso quella striscia lontana dell’orizzonte per colpire il nemico. E furono gli stessi uomini che avevano imprecato al messaggio di Alexander a espugnare Ciano d’Enza, la mattina del 10 aprile.

  Il paese, situato sulla riva destra dell’Enza era considerato dal nemico una base strategicamente ideale per lanciare attacchi improvvisi sui fianchi della 47ª e della 26ª. Guidati da Schoerer, i trecento soldati del presidio potevano sorprendere le pattuglie dei guerriglieri o assalire i distaccamenti più avanzati con puntate fulminee, spesso impunemente, perché avevano la possibilità di ritirarsi attraverso un terreno sicuro. Inoltre, nei periodi di «riposo», essi potevano operare tra la popolazione civile, sequestrando bestiame e uomini per avviarli nelle retrovie oltre il Po.

  Protetta da larghi fossati e da postazioni di mitragliatrici, la base di Ciano d’Enza faceva da perno al ventaglio dei rastrellamenti. I trecento tedeschi erano «specialisti» della distruzione, impiccavano e trucidavano senza tremito tutti quei prigionieri che Schoerer riteneva passibili di morte immediata. Anche Schoerer naturalmente era uno «specialista». Lo dimostrò per lunghi mesi facendo sentire la sua presenza proprio come lui desiderava. Nei villaggi al di là e al di qua dell’Enza, sino all’Alpe di Succiso, donne, vecchi e bambini parlavano di lui nella stessa misura e con lo steso terrore che i vecchi, le donne e i bambini dell’Apuania parlavano del capitano Reader, il massacratore di Vinca.

  Schoerer comandava il presidio di Ciano dal marzo del ’44 e due giorni dopo il suo arrivo il paese seppe subito chi era. Claudicante, tarchiato, sempre seguito da due soldati, entrava spesso nelle case e frugava dappertutto. La sua ferocia pareva si alimentasse di quella minorità fisica. Era una ferocia fredda, minuta, precisa; distillata in lugubri veglie notturne, sopra le carte topografiche della zona, e su quelle carte, Schoerer, con bandierine a spillo e una grossa lente manovrava idealmente il suo reparto. Quando Ciano fu espugnata, i partigiani, seguendo le indicazioni approssimative degli abitanti, scavarono nel cortile della caserma e sotto la terra battuta degli scantinati trovarono ventotto cadaveri. Erano tutti irriconoscibili e a qualcuno mancava una mano, ma altre mutilazioni dimostrarono come il maggiore tedesco avesse soddisfatto il suo odio.

  Il presidio di Ciano era sempre stato ritenuto imprendibile e anche se le brigate che operavano nella zona fossero riuscite a penetrarvi il Comando Unico aveva calcolato che sarebbe stato necessario abbandonarlo subito, perché i tedeschi, a costo d’impiegare un’intera divisione, lo avrebbero rioccupato. Ma ora la situazione era migliorata anche sul fronte degli Alleati; scacciati da Ciano d’Enza i tedeschi non avrebbero più trovato forze necessarie per ritornarvi, e prendere quel presidio era un impegno troppo a lungo covato e desiderato tra le brigate garibaldine.

 

  La sera dell’otto aprile, mentre il Comando della 47ª stava discutendo la distribuzione del materiale da poco paracadutato, arrivò Nardo. Veniva dal Comando Unico e chiese che fossero convocati nella notte stessa i comandanti dei battaglioni. Le staffette partirono subito e la notizia di quel convegno rafforzò nei partigiani la sensazione che da alcuni giorni si stesse preparando qualcosa di grosso. Qualcuno accennò al presidio di Ciano e nei distaccamenti, ora meglio equipaggiati e provvisti di armi più efficienti, corse la speranza di poter rendere almeno in parte a Schoerer quello che lui aveva fatto sino allora. Ognuno preparò mentalmente un conto personale pensando ai compagni seviziati e trucidati dai rastrellatori e Guerra preparò con molta cura quello riguardante Spumino.

  In seguito, quando i sogni che animarono quell’attesa, come tanti altri sogni di genere diverso, svanirono in una imprevedibile realtà, si seppe che Toti il suo conto lo aveva scritto su un foglio di carta. Toti era un ragazzo che aveva imparato presto a servirsi dell’ironia anche nei momenti più pericolosi, ma in quell’occasione, scrivendo con minuzia i capi d’accusa per Schoerer, pose nell’ironia un significato del tutto particolare.

  All’alba del 10 aprile i partigiani erano pronti all’attacco: quelli della «Aldo» e della «Franci» stavano in attesa sulla riva sinistra dell’Enza; quelli della 26ª sulle colline reggiane. Aspettavano il segnale convenuto e questo fu dato da William, perché toccava ai guerriglieri della vecchia 47ª di saggiare per primi la reazione nemica. Due squadre del primo battaglione guadarono il torrente sotto il mulino di Bazzano e si attestarono sotto la scarpata, a duecento metri dal paese. Le guidava Gim ed ebbero il tempo di concertare gli ultimi ritocchi della manovra diversiva che dovevano eseguire. Gim attese un secondo segnale per iniziarla. Furono una diecina di minuti in cui i suoi uomini ebbero il modo di percepire, come mai era prima accaduto, i rumori più nascosti e lievi del giorno che nasceva. Era una sensazione nuova, come se tutto fosse mutato sulla terra e nell’aria, e ogni fruscio aveva la freschezza della primavera, che proprio quel giorno si ripresentava tenera sui campi e sulle case silenziose, e la pianura pareva una grande distesa di piccole cose sfaccettate, col sole amichevole e un dolce odore di foglie e di fossi, come se tutto fosse stato disposto per una grande festa di campagna.

  Un colpo di fucile vibrò nel cielo e gli uomini di Gim scattarono verso la casa a monte del paese. La reazione nemica si scatenò appena i guerriglieri si furono gettati in terra, e fu una reazione lineare e compatta, come un dispositivo meccanico. I lampi punteggiarono la parte del paese su cui stava di fronte Gim e i proiettili tranciarono l’orizzonte. Le due squadre cominciarono a strisciare verso quei lampi per completare la manovra e il primo a restare bocconi senza un grido fu Vespa.

  A valle, William e Max avevano iniziato l’avanzata con una trentina di uomini e alle sette riuscivano ad attestarsi su una linea abbastanza protetta. I tedeschi intuirono il pericolo e dovettero allentare la difesa sul lato dove stava Gim. Ora i partigiani, prima di tentare l’assalto concentrico insieme con quelli della 26ª, i quali sarebbero dovuti avanzare alle 7,30, aspettarono gli aerei degli Alleati, com’era stato promesso dal Comando inglese.

  Ne arrivò uno solo. Si udì il rombo scendere a spirale dietro i costoni, ma l’aereo pareva facesse delle strane allegre evoluzioni al di là delle colline, come diretto ad un altro obiettivo. William cominciava a credere che il pilota si fosse disorientato e già stava pensando di fare a meno del mitragliamento prestabilito. Mancavano pochi minuti al segnale dell’attacco e non si poteva aspettare oltre. I tedeschi sparavano anche coi mortai e la loro fucileria radeva i campi.

  L’aereo apparve nella frangia di luce sul crinale, come danzando. Fece un’impennata e mostrò il ventre lucente, le ali spianate nel sole. Salì alto, goloso, lo spazio, parve arrestarsi, e per un attimo il rombo si arrestò; una pausa più breve di un pensiero. Poi fu una specie di urlo, fu un’ombra dura e tagliente che si avventò sulle case e che saettò via arcuandosi verso la pianura. Gli scoppi spaccarono l’aria, l’aereo fu ancora sopra le case e si udirono altri scoppi. Poi venne il vuoto, un silenzio carico di stupore, e sul paese si levò una grande nuvola nera.

  L’attacco si dispiegò che l’aereo ronzava su per i valichi, nella via del ritorno. Durò sino alle due del pomeriggio, quando i partigiani penetrarono nella caserma tedesca. Ma non trovarono Schoerer. Sul suo tavolo c’erano le carte topografiche con le bandierine a spillo. Il comandante tedesco era riuscito a fuggire con quasi tutti i suoi rastrellatori.

  Schoerer aveva saputo predisporre la ritirata e forse l’aveva studiata molti giorni prima. Aveva buon naso per cose del genere. Prima, però, e precisamente subito dopo il mezzodì, fece in tempo a prendersi la soddisfazione di uccidere Donez e Fulmine, o meglio, di assistere alla loro morte da dietro una fessura della caserma o da chissà quale casa in cui doveva essersi appostato.

  Fulmine fu uno dei primi a penetrare nel paese. Saltava da una porta all’altra sparando come un dannato e arrivò all’imbocco della piazza su cui stava la caserma. Da ogni parte i colpi rimbalzavano ai suoi piedi e Donez, che gli stava dietro, aveva capito cosa voleva fare il compagno, anche se era una cosa troppo ardita, e per un attimo tentò di fermarlo.

  Ma Fulmine non poteva arrestarsi. Davanti a lui c’era quella caserma con Schoerer dentro e lui voleva sparare sul ventre del tedesco, perché era l’unico pensiero, questo, che avesse, mentre correva attraverso la piazza.

  Ed ora sparava contro la porta e le finestre, le gambe larghe e dritte, cambiando calmo i caricatori dello sten, solo nello spazio lucente, simbolo di tutta la collera della vecchia 47ª Brigata Garibaldi. Cadde quando Donez si gettò al suo fianco e subito cadde anche Donez, per la stessa raffica.

  Verso sera i partigiani risalirono i sentieri della costa. La prima stella, di cui nessuno ricordava il nome, brillava già nel suo solito punto, dove il cielo racimolava in un dolce tremore le ultime luci del giorno. I corpi di Fulmine, di Donez e di Vespa oscillavano sulle barelle fatte di rami, e con le prime foglie dei ciliegi.

  Per Nardo, la presa di Ciano, oltre che una «azione militare eseguita con preciso senso tattico e con alto spirito combattentistico», come fu scritto alcuni mesi dopo nell’anonima storia ufficiale del Movimento Partigiano in Emilia, costituì la prova che lui aveva saputo capire nel verso giusto gli uomini della 47ª Garibaldi. I suoi sforzi per portarli a un grado rassicurante della disciplina erano stati ricompensati, ma questo era soltanto l’aspetto «strategico» della sua fatica e della sua passione, e contava assai meno di altre considerazioni. L’ex capitano dell’esercito forse già presagiva quella nuova e diversa disciplina che in seguito doveva, per legale necessità, ammainare vessilli e illusioni.

  Anche per Charles Holland quel giorno rappresentò un fatto importante. Egli aggiunse parole di elogio alla relazione che inviò subito al Comando Alleato. E anche Michele Tyler fu molto soddisfatto, e s’intrattenne con William per farsi descrivere le fasi dell’azione. William però non riuscì a trovare parole molto compiacenti.

  Egli rivedeva quella calma striscia di sole attraverso la piazza e Fulmine che correva a testa nuda, sparando, perduto per sempre al di là della luce, solo di fronte all’irridente fantasma di Schoerer per dirgli che la vecchia Brigata era lì, dietro le sue spalle, pronta a regolare il vecchio conto. E rivedeva Donez che tentava di fermarlo gridando, così gli era parso, e poi scattare e mettersi anche lui ritto e immobile, il fazzoletto rosso sulle spalle che pareva già sangue, e tutti e due sembravano disperatamente irreali.

  Ma Donez, pensava William, non aveva tentato di trattenere il compagno; quel grido doveva avere un altro significato, ne era sicuro, perché conosceva Donez. Erano due buoni guerriglieri, di quelli che lui aveva selezionato al tempo del «Don Pasquino», quando non c’era quel maledetto regolamento militare e le cose andavano per le spicce.

  Certo, che non poteva trovare parole convenienti per raccontare a Tyler come era andata esattamente tutta la faccenda, e forse avrebbe potuto invece fargli un appunto, se proprio ne valeva la pena, per quell’aereo arrivato in ritardo a compiere eleganti evoluzioni e a gettare bombe sui bersagli meno indicati.

  Ma pensava a tante altre cose mentre andava su lento per la strada con l’inglese al fianco, che, ora, a larghi passi leggeri, accuratamente taceva.

 

  Puntuale e cattedratica, il mattino dopo Radio Londra annunciava: «Con l’appoggio dell’aviazione alleata i patrioti italiani hanno espugnato un importante caposaldo nazista nell’Appennino emiliano infliggendo gravi perdite al nemico». Solo Nardo, casualmente, ascoltò l’annuncio e ne parlò con Ilio e con Max: furono subito d’accordo di non divulgarlo. Che cosa avrebbero pensato i guerriglieri che avevano partecipato all’impresa di quell’«appoggio dell’aviazione alleata»? Lo avevano ancora dentro gli occhi l’«Hurricane» del giorno prima, le sue evoluzioni balorde e tardive, mentre loro intendevano regolare i conti con Schoerer alla vecchia maniera, senza intrusioni di sorta, perché erano abituati da molto tempo a fare ogni cosa col metodo adottato da William, da Max, da Spumino, quando assaltavano caserme per procurarsi le armi che il Comando Alleato torpidamente o astutamente non inviava.

  Per la 47ª, suddivisa dalla strategia burocratica e ancora unita nei vecchi simboli, la conquista di Ciano d’Enza era l’impennata orgogliosa prima di cedere alla conclamata disciplina. Tutto il resto non contava, nemmeno il fatto che il mondo in ascolto l’avesse appresa da Radio Londra. Fulmine e Donez giacevano in una stanzetta a Lodrignano su tavoli coperti da lenzuola, con gli abitanti che portavano fiori di campo: morendo essi avevano suggellato una lunga disperata storia in cui il maggiore Charles Holland aveva finalmente intravisto il temperamento dei suoi protagonisti.

  Il mattino del 14 aprile egli tornò al Comando della Brigata. Prima di entrare bussò alla porta, ed era la prima volta che lo faceva. Entrò con discrezione, gli occhi rivolti a un consenso rispettoso; si avvicinò al tavolo pieno di carte e attese che lo invitassero a sedere. C’erano Ilio, William, Max, Lupo, come al solito, quelli che lo avevano contrastato, indispettito, anche amareggiato, nei colloqui precedenti, lassù nella parrocchia di Monchio, distante e sicura, dove gli pervenivano le informazioni aggiornate, precise, mentre la Brigata continuava a fare di testa sua tutto ciò che lui riteneva improprio, avventato, pericoloso. Erano gli stessi uomini che aveva studiato e valutato con diffidenza pregiudiziale e che ora lo ricevevano ancora una volta con amichevole indifferenza.

  – Sei venuto per annunciarci un lancio, Maggiore? – disse Max. Holland non rilevò il tono ironico, sedette a un cenno di William, levò dalla giubba un pacchetto di sigarette e dopo averne presa una lo spinse al centro del tavolo. – No, – rispose. – Sono venuto per salutarvi -. Un lieve accento di rammarico fu colto da tutti, non era possibile che si trattasse invece di mistificazione ora che tutto stava per terminare con la prossima discesa verso la città delle formazioni partigiane. Quel maledettissimo fronte alleato si era mosso, erano arrivate notizie sicure della sua avanzata in Romagna, nei pressi di Bologna, e a darne conferma capitavano sempre più numerosi gli aerei da caccia nel cielo della pedemontana, anche se bombardavano cascinali innocenti e mitragliavano ciecamente qualsiasi cosa che appariva sulle strade e nei campi.

  Fu l’ultimo colloquio del Maggiore coi comandanti della 47ª e da parte sua si concretizzò in un moderato ma sincero riconoscimento delle contestazioni che la Brigata aveva fatto alle sue direttive. Il pacchetto di sigarette era al centro del tavolo, come un omaggio. Ne prese una anche Lupo, e il Maggiore gli sorrise. Poi cercò lo sguardo di Ilio. Lo incontrò come in fondo desiderava che fosse, diffidente, amaro; gli occhi di uno che aveva rischiato pericoli anonimi, ingloriosi, alle prese quotidiane coi problemi minuti e tetri della sopravvivenza, per la Brigata, che solo in quel suo modo di agire poteva sopravvivere e compiere tutto quello che ora Charles Holland silenziosamente rispettava.

  – Forse ci rivedremo ancora, – disse Holland. – Forse no -. E tacque. Dovette considerare superflue altre parole. Dimenticò il pacchetto sul tavolo e si avviò alla porta. Prima di aprirla indugiò immobile, qualche istante, sufficienti per lasciare di sé un ricordo piacevole. Discese lento le scale, nella strada lo aspettava il montanaro che lo aveva sempre accompagnato nelle visite alla Brigata. Reggeva la cavezza del mulo, rigido, sordamente estraneo a tutto ciò che lo attorniava. Nella strada un gruppo di ragazzi aspettava la comparsa dell’inglese, alle finestre c’erano donne ben pettinate dietro vasi di fiori, e c’era un’allegra luce di sagra col sole alto e tranquillo.

  Il Maggiore girò lo sguardo su ogni cosa e sorrise, agitò una mano e salì in groppa. Era la prima volta che capitava in quel villaggio, tornò ad agitare la mano. Il mulo prese a ciottolare su per la salita, con Charles Holland che dondolava, consapevole di un commiato dignitosamente amichevole. I ragazzi gridarono il loro saluto e lui ancora una volta levò la mano, senza voltarsi. Tornava alla sua sede, sapeva che tra pochi giorni le formazioni sarebbero calate nella pianura. Terminava il suo compito, pensava di averlo svolto nel miglior modo possibile: l’irriducibile Brigata cominciava ad essere già un ricordo, tumultuoso, eccitante, con quel suo commissario indistruttibile, troppo intelligente per poterlo addomesticare, e tutti quegli uomini che non avrebbe mai dimenticato. Alla Missione avrebbe aspettato nuovi ordini, chissà dove lo avrebbero mandato: cominciava un altro tempo.

  Un altro tempo cominciava anche per Aren. Egli lo aveva presagito nella tristezza, un oscuro, irragionevole sentimento di pena contro la realtà. Se non fosse stato per la vigile attenzione di Ilio, non avrebbe nemmeno saputo capire i fatti che succedevano. Non aveva fatto niente di speciale per la Brigata, ne era cosciente; non aveva mai sparato un colpo di fucile. Sapeva soltanto di aver trapiantato la sua anima tra quegli uomini duri e schivi, inerme, timido, solo con la sua invincibile malinconia.

  Ed era un giorno splendido, mentre ora scendeva dalla costa di Bazzano, dove Ilio lo aveva mandato per controllare se gli abitanti avessero convenuto su certe disposizioni del Comando: un incarico che tradiva una sollecitazione pietosa, ne era certo, altrimenti non poteva essere; lo aveva letto negli occhi del commissario, nel sorriso compiacente di Max. Scendeva tra l’erba deliziosamente amica, pensava che tutto quello che aveva conosciuto e amato stava per cessare. E d’improvviso, di fronte alla vallata piena di silenziosi clamori, sentì la dolcezza di un’idea impetuosa.

  Ora correva giù per il declivio. Un sogno squillava e moriva, il cielo non era mai stato così generoso di trasparenze, e lassù, nelle colline di fronte, la Brigata si preparava a scendere nella città; il segnale era nell’aria, vibrava come un canto.

 

  La sera del 23 aprile la 47ª Garibaldi, nella sua nuova veste di 143ª Brigata «Aldo» e Brigata «Franci», si attestò nel paese di Traversetolo. Avanguardie del distaccamento «Griffith» avevano raggiunto le linee tenute da truppe tedesche nelle vicinanze di Parma e ciò era avvenuto contro gli ordini del Comando Unico. Per conto suo Max, fingendo un giro di perlustrazione, aveva fatto la stessa cosa, scombussolando l’ordine di marcia per il giorno dopo e toccò a Gim di mantenerlo, a malincuore, secondo gli ordini ricevuti. Gim era paziente, sapeva trattenere l’impulso di andare avanti prima degli altri, e Nardo, segretamente, gli aveva affidato il compito di impedire evasioni temerarie.

  All’alba del 24 la Brigata prese la direttrice prestabilita e marciò verso la città, compatta, attraversando paesi in festa. Dalle case uscivano uomini con l’aria di chiedersi se tutto quello che vedevano passare era una certezza definitiva e c’erano giovani ben vestiti, come usciti da un pranzo di nozze, che sventolavano fazzoletti. Guerra li ignorò con lo stesso disprezzo che aveva sempre mostrato quando nella Brigata arrivarono, negli ultimi giorni, i giovanotti sfollati nella pedemontana. Gim invece procedeva in testa alla formazione pensando ad Aren.

  Ricordava la sua faccia stranamente viva quando lo aveva incontrato sulla strada di Neviano camminare come trasognato. Non lo aveva più visto, e Ilio gli aveva chiesto di cercarlo, con voce che sembrava allarmata. Aren era scomparso, nessuno sapeva darne notizia, c’erano altre cose cui pensare ora che finalmente si scendeva verso la città: e Aren era un tipo curioso per tutti, forse un po’ matto, troppo silenzioso. Gim si chiedeva dove mai si fosse cacciato, gli tornava alla mente quella sua faccia insolitamente viva, gli occhi pieni di calmo splendore.

  Aren era morto, giaceva in un fosso dove cominciava la città, ancora con lo sten a tracolla. Lo scoprì un partigiano del «Pontirol» e per un momento credette che fosse il cadavere di uno che stava dall’altra parte. Fu Guerra a riconoscerlo. La Brigata era già penetrata nei sobborghi, cominciavano ad arrivare jeps cariche di brasiliani, agili e allegri. Dalla città si levavano tonfi e spari. Guerra ordinò di portare il cadavere dentro una casa, poi raggiunse il suo distaccamento. Si chiedeva come mai Aren fosse arrivato sino a quel punto davanti alle linee nemiche, prima di tutti gli altri, perché aveva potuto constatare che era morto da almeno due giorni. Ne avrebbe parlato con Ilio.

  I tonfi e gli spari ora echeggiavano più lontani, al di là delle strade, dietro la città colma di silenzi. Un aereo ronzava alto nel sole, appena visibile, come un pezzetto di carta argentata.

 

 

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Comunicato ANPI Palermo 18 maggio 2020

In un momento difficile della nostra storia, nel pieno di una pandemia che,  finora, è costata decine di migliaia di morti solo nel nostro Paese, costringendoci in una difficile condizione di forzato isolamento; in un momento in cui diventa sempre più importante interrogarsi a quale futuro questa umanità può aspirare, se e come sarà possibile, proprio in condizioni così particolari, pensare alla necessità di un salto in avanti dell’intera nostra storia, con l’obiettivo di consolidare la democrazia attraverso una concreta eguaglianza e una giustizia per tutte e tutti, proprio in questo momento siamo, invece, costretti amaramente a registrare, nel corso di una iniziativa organizzata dal sindacato di destra Ugl assieme ad esponenti della Lega e ad assessori della Giunta Regionale Musumeci, le conseguenti proteste di nostri iscritti e di militanti della  CGIL per la ingenua quanto inattesa e assolutamente inopportuna partecipazione del segretario regionale della CGIL, a questa iniziativa.

A ciò si aggiungono, nel contempo, i vili attacchi con toni palesemente razzisti mossi dai rappresentanti della Lega nel Consiglio comunale di Palermo cui si è unita la deputata leghista della Assemblea regionale siciliana, nei confronti dell’Assessore alle culture del Comune di Palermo, Adham Darawsha, per le sue origini palestinesi a cui rinnoviamo la nostra incondizionata solidarietà, e l’ineffabile attacco contro Silvia Romano definita terrorista durante  l’intervento del deputato siciliano della Lega, Alessandro Pagano alla Camera.

Infine, da antifascisti, condanniamo la nomina ad assessore regionale alla cultura di un soggetto della destra fascio-leghista, diretta espressione, anche, delle forze sindacal-politiche promotrici dell’iniziativa – per web conference – del 15 maggio 2020.

 

ANPI Palermo

 

 

18 maggio 2020

 

 

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Papotti: La strage di Portella in Parlamento

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Promemoria 6. La strage di Portella in Parlamento

Paolo Papotti

2 maggio 1947, seduta 107 dell’Assemblea costituente. Li Causi: “Il Governo non si è voluto rendere conto che in Sicilia bisogna fare piazza pulita di tutti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione, della polizia, ed anche della magistratura”

Lavoro Legalità Stragi

Il 1° maggio 1947 “qualcuno” sparò sulla folla di lavoratori che manifestavano per la giornata internazionale dei lavoratori. Fra uomini, donne e bambini, 11 saranno i morti, più di sessanta i feriti.

Serafino Petta, l’ultimo sopravvissuto: “avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita”. Ha ricordato ancora Petta: “I mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari”. Aggiungendo: “Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame”  [1].

Il 20 aprile dello stesso anno, in Sicilia si tengono le prime elezioni libere dopo la dittatura fascista. Vincono le sinistre.

Umberto Terracini (da https://storia.camera.it/ img-repo/scheda/persona/9 /p28550.jpg)

Il 2 maggio 1947, nella seduta numero 107 dell’Assemblea costituente, si discute dei fatti di Portella della Ginestra avvenuti il giorno prima. Apre la seduta il presidente Umberto Terracini (Pci) che legge le interpellanze rivolte al ministro dell’Interno Scelba (Dc). Le interpellanze “con richiesta d’urgenza” sono quattro, brevi e dai toni decisi. La prima, a firma del socialista Musotto, dei comunisti Li Causi, Montalbano, D’Amico Michele, Fiore e del repubblicano De Vita: “…criminale imboscata…”, “…ancora una volta le forze della reazione tentano di sopprimere il grandioso movimento dei contadini…”. La seconda a firma Mattarella – padre dell’attuale Presidente della Repubblica – della Democrazia cristiana: “…conoscere una esatta versione dei luttuosi fatti di eri…”La terza a firma di Varvaro del Gruppo misto: “…informazioni sulla orribile strage perpetrata in Sicilia contro innocenti lavoratori da parte di criminali ignobili…”, “…rispetto della libertà e dei diritti delle classi lavoratrici…”. La quarta a firma dei socialisti Di Giovanni, Rocco Gullo, Di Gloria, Pera, Vigorelli, Bennani, Zanardi, Lami Starnuti, Rossi Paolo, D’Aragona, Bocconi e Ghidini: “Chiedono di sapere quali urgenti e adatti provvedimenti il Governo abbia preso e intenda attuare per colpire tutti i responsabili, reprimendo il grave fenomeno, che potrebbe essere foriero di più gravi conseguenze”,

Mario Scelba, presidente del Consiglio dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955 e ministro degli Interni dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 e poi dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio 1962

Risponde il ministro dell’Interno Scelba, con un intervento che, nel suo complesso individua nel banditismo i responsabili. Dopo la cronaca dei fatti, entra nel merito. “Il delitto si è consumato in una zona fortunatamente limitata – e sarebbe estremamente ingiusto generalizzare a tutta la Sicilia – in cui persistono mentalità feudali sorde e chiuse, che pensano di ripagarsi con un’imboscata o con una bravata fatta eseguire da arnesi di galera per torti ricevuti. Non è una manifestazione politica questo delitto: nessun partito politico oserebbe organizzare manifestazioni del genere, non fosse altro perché è facile immaginare che i risultati sarebbero nettamente opposti a quelli sperati.” E chiude. “Ogni cittadino, ogni uomo non può non deplorare questi residui di banditismo feudale, ed il Governo esprime il profondo e sentito cordoglio per le vittime…”

Riporto, di seguito, stralci della discussione avvenuta fra gli onorevoli: Li Causi (Pci), Mattarella (Dc), Varvaro (Gruppo misto), Orlando Vittorio Emanuele (Gruppo misto), Giannini (Uomo qualunque), Bellavista (liberale).

GirolamoLiCausi

Girolamo Li Causi (da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/3/34/ GirolamoLiCausi.jpg)

Prende la parola Li Causi che non si ritiene “affatto soddisfatto delle dichiarazioni del Ministro dell’Interno”. Prosegue invitando a che “…si finisca con la retorica della difesa della Sicilia… il popolo siciliano che va difeso è quello che, nella sua enorme maggioranza, il 20 aprile (elezioni in Sicilia in cui vincono le sinistre, ndr), ha espresso il suo sentimento profondamente democratico e unitario”. Prosegue raccontando la sua testimonianza nell’aver visto “carni lacerate”. Spiega il valore del luogo facendo riferimento al “sasso sacro alla memoria di Nicola Barbato”, e al luogo in cui i contadini “…per venti anni, durante il fascismo, hanno conservato il labaro del fascio del 1894 che oggi torna a risplendere al sole”. A seguire entra nel merito dei presunti colpevoli. “Un particolare che si acclarerà: il maresciallo dei carabinieri di Piana dei Greci ‘schiticchiava’ – in siciliano vuol dire che si divertiva a mangiare – coi mafiosi della zona. I nomi dei probabili organizzatori della strage sono corsi sulla bocca di tutti e noi li facciamo, perché li abbiamo fatti sulla stampa e i contadini della zona li conoscono, e li conosce bene anche l’onorevole Bellavista (Unione democratica nazionale, ndr.). Sono i Terrana, gli Zito, i Bosco, i Troia, i Riolo-Matrenga; sono i capimafia, sono i gabellotti, sono gli esponenti del Partito monarchico e del blocco monarchico liberal-qualunquista di San Giuseppe Jato”.

Girolamo Bellavista

Bellavista lo interrompe: “Siete voi gli assassini!”. Giannini (Uomo qualunque) sostiene che “Il giornalista Li Causi non ha diritto di parlare qui! È un diffamatore!”.

Riprende Li Causi: “Siamo di fronte ad un fatto che mostra la decisa volontà di provocare in Sicilia la guerra civile, di mantenere, specialmente dopo il responso del 20 aprile, l’isola in uno stato di tensione, di torbida agitazione”. Poi rivolgendosi direttamente al Ministro: “…liberateci dagli alti funzionari addetti alla polizia, profondamente compromessi con i monarchici prima e dopo il 2 giugno come siete stato informato; e liberateci da quei marescialli dei carabinieri che vanno a braccetto coi mafiosi e cercano di mettere i galera il segretario della sezione comunista, della sezione socialista, i segretari dei partiti democratici, il segretario della Camera del lavoro…”.  Dopo lo scambio di battute fra Miccolis (Uomo qualunque) e Nenni (socialista), il verbale riporta: “Agitazione – Scambio di vivacissimi apostrofi fra l’estrema sinistra e la destra – tumulto – Il Presidente sospende la seduta e fa sgomberare le tribune”. Interessante leggere nel verbale il motivo dei tumulti…

La seduta riapre con Miccolis che sostiene di esser stato frainteso. Poi Li Causi riesce a finire l’intervento: “Il Governo non si è voluto rendere conto che in Sicilia bisogna fra piazza pulita di tutti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione, della polizia, ed anche della magistratura. Basta coi massacri, più orrendi di quelli consumati dai tedeschi e dai fascisti repubblichini contro le popolazioni inermi!”.

Bernardo Mattarella

Prende la parola Mattarella, che sostiene la possibile azione della criminalità organizzata: “Quello che è avvenuto a Portella è non soltanto grave dal punto di vista umano per il sangue che è stato versato e per i lutti che sono stati determinati, ma anche per il modo come l’imboscata è avvenuta, che denota una fredda e implacabile organizzazione criminosa, organizzazione e manifestazione criminose che non possono non allarmare quanti riguardano all’avvenire e allo sviluppo democratico e libero della vita isolana, perché libertà e democrazia sono anzitutto condanna di ogni forma di violenza soprattutto quando questa violenza si estrinseca in manifestazioni di così preoccupante criminalità”.

Antonino Varvaro

Prende la parola Varvaro che non si ritiene soddisfatto delle dichiarazioni del ministro e sostiene che bisogna cominciare a dare segni concreti della presenza dello Stato: “Uguali dichiarazioni egli (riferito al ministro Scelba, ndr) ha fatto anche in occasioni simili, cioè dichiarazioni generiche sempre e promesse di fare; ma qui non è più il caso di precisare quello che si è fatto o quello che si fa; qui bisogna rivolgere alla Sicilia una parola che tranquillizzi. Siamo al terzo o al quarto episodio di uccisioni e al secondo di strage”.

Vittorio Emanuele Orlando

Chiede di parlare Vittorio Emanuele Orlando che fa un accorato appello alla giustizia: “Onorevole ministro, qui occorre che giustizia sia fatta; ad ogni costo, deve esser fatta. Il sangue di queste vittime lo esige e grida vendetta. Quel piccolo bambino ucciso, quella povera donna trucidata (ricorrono al cuore, fra le varie vittime, i casi più dolorosi e raccapriccianti) bisogna che siano vendicati. Lo comanda la giustizia; lo esige l’onore della Sicilia, in questo momento offeso e compromesso”.

Guglielmo Giannini

Prende la parola Giannini che attacca Li Causi in quanto “…giornalista e che dirige un giornale che batte il record delle diffamazioni. Ne ha quaranta. Da un giornale diretto da un deputato in quelle condizioni non possiamo ascoltare che canzoni e non fatti”. Li Causi interrompe dicendo: “Cantava lei, mentre io ero in galera!”. A questo punto Giannini e Li Causi si ingiuriano ed è costretto ad intervenire il presidente Terracini sul merito delle ingiurie e sul ruolo della Commissione per le autorizzazioni a procedere.

Prende la parola Bellavista. “… il deputato Li Causi dirige La Voce della Sicilia, una allusione che, con un linguaggio un po’ diverso, è stata ripetuta qui dentro, e cioè che ci sono stati comizi infiammatori da parte di chi vi parla”. E conclude: “Il vero si è che io ho avuto oggi una delusione penosa, profonda, nei confronti di un avversario che io stimavo; ho dovuto constatare, con l’amarezza terribile che dà il disinganno, che egli ha tradito questa mia aspettativa, perché la fazione lo ha completamente accecato e la speculazione ha sommerso quello che sedici anni di nobili sofferenze avevano elevato in lui. Oggi non sei stato più tu, Li Causi; oggi non sei stato più tu, quando hai voluto speculare su quelle bare e su quelle tombe”.

Prende la parola il ministro Scelba che sostiene: “…non sempre è possibile al governo prevenire…”, portando ad esempio casi in cui il governo “…ha compiuto il suo dovere” (per trovare responsabili dell’assassinio di Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, ndr). Poi risponde a Li Causi e a Orlando sulle volontà del governo: “C’è oggi una procedura speciale la quale colpisce questi crimini. Non spetta al ministro dell’interno e non spetta all’autorità politica di giudicare e responsabili dei crimini. Mi auguro che la magistratura partecipi con la necessaria solerzia, perché dobbiamo riconoscere che non sempre essa interviene tempestivamente a reprimere i delitti contro la libertà dei cittadini”Continua l’intervento sostenendo, e rivolgendosi Li Causi, che non è un delitto politico ma “…è maturato in un’atmosfera sociale indubbiamente arretrata, indubbiamente feudale che persiste in zone che ogni giorno tendono a restringersi e che scompariranno al più presto”. Chiude dicendo: “…finiamola con le divisioni, finiamola con l’eccitamento agli odi, con l’eccitamento alla violenza; facciamo sentire al Paese che l’Assemblea è unita almeno nel suo giudizio di condanna contro questi crimini che disonorano la vita democratica di un popolo”.

Il presidente comunica che “È pervenuto alla Presidenza il testo d’una risoluzione della quale si pone la votazione dell’Assemblea”. Legge quindi il testo a firma: Nenni, Togliatti, Gronchi, Saragat, Cevolotto, Pacciardi, Lombardi Riccardo, Cianca.

Nel verbale si possono leggere il testo della risoluzione e l’intervento successivo del presidente dell’Assemblea costituente.

Il testo ottiene l’unanimità del Parlamento con la sospensione dei lavori per mezz’ora “in segno di lutto e di solidarietà col popolo siciliano e con le vittime dell’inumano eccidio”.

Quando riprendono i lavori, l’ordine del giorno recita: “Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana”. Si prenderà in esame il Titolo terzo.

Sulla base di nuove acquisizioni documentali, nel dicembre 2004 i familiari delle vittime chiesero la riapertura dell’inchiesta.

Ma per Portella della Ginestra, come per tante altre vicende che hanno insanguinato il Paese, la verità è ancora lontana e la strage è a tutt’oggi senza mandanti. Pietro Grasso, quando ricopriva la carica di presidente del Senato, chiese di rendere pubblici i documenti ancora non accessibili e accertare le responsabilità di una tragedia che ha segnato la storia della Sicilia e dell’Italia.

Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione

[1] Intervista tratta da: “Portella della Ginestra, la strage del Primo maggio” di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, pubblicata su Corriere.it il 1° maggio 2019

PUBBLICATO MERCOLEDÌ 6 MAGGIO 2020

 

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MARIA DI GESU’ prigioniera politica, dal campo di sterminio di Ravensbrück

Daniela Di Francesca
Daniela ha scritto: “75 anni fa, il 30 aprile del ‘45 i russi liberarono il campo di sterminio di Ravensbrück, nel nord della Germania. Delle 45.000 prigioniere– la maggior parte delle quali costrette dai nazisti ad evacuare il campo con le famigerate marce della morte- ne rimanevano al campo 3.000 gravemente ammalate. Tra queste, la mia cara prozia Maria Di Gesù, prigioniera politica, la quale, quel giorno, affacciatasi timidamente alla porta della sua baracca, vide morire sotto i propri occhi una sua cara compagna, con un colpo partito dalla pistola o dal fucile di uno dei pochi nazisti rimasti, che passava casualmente da lì. Sarebbe potuto accadere a lei, ma un destino alla fin fine benevolo, per motivi incomprensibili e misteriosi che sfuggono alla umana ragione, fece sì che potesse tornare a casa nella sua Palermo. Era un’insegnante.”

Daniela Di Francesca

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Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta

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Negli ultimi anni grazie all’impegno profuso dal Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta coordinato dal presidente Giuseppe Cammarata dal , con l’ausilio delle diverse sezioni ANPI locali del territorio nisseno, stanno emergendo parecchie storie di uomini e donne che hanno dato un contributo notevole alla storia della resistenza partigiana nel nord e centro Italia. Questo ha avvicinato molte famiglie siciliane a riscoprire se tra i loro antenati ci fosse qualcuno che in passato fosse stato un partigiano, deportato o antifascista.

Tutto questo grazie alle numerose iniziative politico culturali intraprese in questi anni dal Comitato Provinciale di Caltanissetta all’interno delle scuole, dei circoli culturali e alle presentazioni di diversi libri sull’argomento. Questo ha permesso di estendere il numero delle sezioni sul territorio nisseno negli ultimi cinque anni con la nascita della sezione “Sandro Pertini di San Cataldo”, la sezione “Gaetano Butera” di Riesi, la sezione “Joseph Sanguedolce” di Sommatino, la sezione “Bella Ciao” di Mussomeli e la sezione di “Niscemi”. In questi territori grazie a ricercatori e istituzioni locali è stato possibile censire le storie di molti siciliani che si sono spesi nella resistenza partigiana che potevano andare persi grazie al coraggio e alla volontà dei famigliari e dei pochi deportati e partigiani rimasti in vita.

Ecco le diverse storie che vogliamo proporvi di raccontare per il 75° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Medaglie e Riconoscimenti

Giuseppe RIGGI è nato a San Cataldo il 19 novembre 1920, arruolato nel Regio Esercito in data 25.11.1940 con matricola n.8679/31, giunto alle armi il 12.01.1941 e assegnato alla 15^ Compagnia Sussistenza.  Trasferito in data 29.02.1942 con la 53^ Squadra panettieri. Dopo varie peripezie l’11 maggio 1943 rientra in Italia dalla disastrosa e drammatica campagna militare di Russia e dopo l’8 settembre 1943 si unisce alle formazioni di partigiani operanti nelle zone di Lodi e Cremona con il nome di battaglia “Ricciardi” partecipando attivamente alle operazioni di contrasto alle forze nazifasciste nell’ambito della guerra di liberazione italiana. In data 26 luglio 1944 in località Erbatica del Comune di Spino d’Adda (Cremona), la formazione partigiana dove operava il Riggi Giuseppe veniva accerchiata e attaccata da ingenti forze fasciste, riuscendo a catturare dopo un conflitto a fuoco diversi membri della formazione partigiana mentre, se pur ferito di striscio in un piede, riusciva a scappare. Nella stessa giornata del 26 luglio 1944 le cascine tra in una località poco distante e precisamente in località Villa Pompeiana ricadente nel comune di Zelo Buon Persico (LO), le forze di oppressione fasciste trucidavano i partigiani patrioti catturati durante il feroce rastrellamento. Fu la strage più sanguinosa compiuta dai fascisti nel lodigiano, escludendo le stragi nazifasciste dei giorni dell’insurrezione. Il 29 aprile 1945 partiva a piedi per attraversare l’Italia e tornare nella sua San Cataldo per svolgere l’attività di contadino.

In data 2 giugno 2013 nell’ambito della ricorrenza della Festa della Repubblica Italiana, ha ricevuto dalle mani del Prefetto di Caltanissetta Dott. Carmine Valente, il Diploma di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica.

In data 16 dicembre 2016 nell’ambito dei festeggiamenti del 70° anniversario della Liberazione, ha ricevuto da sua Eccellenza il Prefetto di Caltanissetta Dott.ssa Maria Teresa Cucinotta, la “Medaglia della Liberazione”, riconoscimento assegnato dal Ministero della Difesa, con l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica, in occasione della ricorrenza del 70° anniversario della Guerra di Liberazione e della Resistenza.

In data 19 settembre 2017, su richiesta della Sezione ANPI “Sandro Pertini” di San Cataldo, veniva riconosciuto partigiano combattente e concesso il Diploma d’Onore di “Combattente per la Libertà d’Italia 1943-1945”, riconoscimento assegnato dal Ministero della Difesa.

Tutt’ora in vita e lucido, compirà 100 anni in prossimo novembre.

 

 

Michele LIPANI è nato il 5 febbraio 1911 a San Cataldo, iscritto al n. 20283 di matricola del Distretto Militare di Caltanissetta e richiamato alle armi per esigenze di carattere eccezionale, venne inserito nel Reggimento Fanteria di Agrigento, trasferito al 27° battaglione Costiero “Lecce”, imbarcatosi a Bari, partì per l’Albania. Partecipò dal 18.11.1942 all’8 settembre 1943 alle operazioni di guerra svoltesi in Balcania (guerra greco-albanese) col 428° Battaglione Territoriale Mobile (B.T.M.) 3ª compagnia P.M. 402.  Il 12 settembre 1943, in seguito all’Armistizio dell’8 settembre 1943, è stato fatto prigioniero delle truppe tedesche e condotto nel Lager di Fallingbostel (Bassa Sassonia- Germania) Stalag xI – B  dove è deceduto il 20 aprile 1944 per cause imprecise. E’ sepolto ad Amburgo, Cimitero militare italiano d’onore, Posizione tombale: riquadro 5, fila Q, tomba 54.

In data 11 Dicembre 1990 ha ricevuto n. due croci al Merito di Guerra alla memoria, dal Comandante del Distretto Militare di Caltanissetta, visto il R.D. 14 dicembre 1942, n 1729.

Il 28 gennaio 2017 ha ricevuto la medaglia d’onore del Consiglio dei Ministri come deportato IMI dal prefetto di Caltanissetta, Maria Teresa Cucinotta.

Alessandro Bevilacqua è nato Sommatino il 6 febbraio del 1924, era conosciuto per la sua vita da soldato partigiano per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Venne chiamato alle armi l’11 maggio 1943. Entro nelle file partigiane il 23 ottobre del 1944, operando tra i comuni di Zoppola, Casarsa della Delizia e altri comuni della provincia pordenonese. Alla conclusione del conflitto, si impegnò in prima linea nella segreteria della Lega Braccianti della CGIL di Sommatino per la difesa dei diritti della classe contadina. In ambito letterario ha pubblicato tre libri in vernacolo siciliano ( Li Misi di l’ANNU, Cci pinzu sempri, Lu nannu e lu niputi), dove attraverso racconti e poesie rievoca la sua Sicilia che lavora la terra, che lavora e muore nelle miniere, che emigra all’estero in cerca di fortuna. Il 25 aprile del 2016,  su richiesta dell’ANPI provinciale di Caltanissetta, Alessandro Bevilacqua ricevete la medaglia d’oro per il 70°anniversario della Liberazione da parte del prefetto di Caltanissetta. Un uomo che si è speso molto per la sua famiglia e per la propria comunità. Muore il 26 marzo 2017.

Mario Vela era nato a Ravanusa (AG) il 30 Gennaio 1916. Partigiano combattente. Zona d’operazione Monastero prov. Macerata. Appartenente alla Divisione Garibaldi formata da 350 uomini. Comandata la formazione il tenente Augusto Pantanelli. Muore il 10 agosto 2015 a Sommatino. Ha ottenuto la medaglia d’oro per il 70°anniversario della Liberazione da parte del prefetto di Caltanissetta il 25 aprile 2016, la cui richiesta è stata fatta dl Comitato Provinciale di Caltanissetta nel 2015 quando Mario Vela era ancora in vita-

Salvatore Russo nasce il 30 gennaio 1919 a Riesi. Aviere dell’esercito, Russo che oggi è Presidente onorario dell’Anpi di Riesi, venne catturato dai tedeschi in Albania. A tal proposito Russo ricorda: “Badoglio firmò l’armistizio incondizionato, noi in aeroporto eravamo in forze maggiori dei tedeschi ma il generale, un fascista, non ci diede indicazioni”. Uno dei tanti casi di un esercito lasciato allo sbaraglio dopo l’8 settembre.

Il 101enne di Riesi, ex aviere dell’Esercito, ricorda bene le sevizie e le angherie. Costretto come gli altri a lavorare in fabbrica su turni di 12 ore, alternativamente di giorno e di notte, insieme ai compagni di prigionia ha dovuto commettere qualche furto per poter mangiare. Come un furto di patate che gli costò punizioni corporali da parte dei tedeschi. “Per la fame commettevamo qualche furto. Avevamo rubato le patate da un magazzino vicino. Ci hanno preso e portato in una stanza facendoci mettere in uno sgabello a petto in giù con la testa fra le gambe dei tedeschi e un altro che dava bastonate”.

Due anni di prigionia prima della liberazione e del ritorno a casa. Prima, però, bombardamenti alleati sui campi e tante persone viste morire. “Ho subito pure io i bombardamenti e una notte, la più spinosa, per quattro cinque giorni bombardamenti a tappeto. I morti cadevano a terra insieme agli animali. Per fortuna avevo una coperta e quando ero fuori dopo l’allarme anti aereo, mi sono trovato rannicchiato con una coperta addosso, se ero più alzato non sarei qui”.

Il 28 gennaio 2017 ha ricevuto la medaglia d’onore del Consiglio dei Ministri come deportato IMI dal prefetto di Caltanissetta, Maria Teresa Cucinotta. La storia è stata pubblicata all’interno del manoscritto Resistenti, storie di antifascisti, partigiani e deportati di Riesi a cura di Giuseppe Giancarlo Calascibetta.

Salvatore Giujusa (Mazzarino), arruolatosi nell”Arma dei Carabinieri il 13 giugno 1938 venne assegnato al Comando di Legione di Trieste. Un anno dopo l’armistizio firmato dal governo Badoglio, l’arma dei carabinieri venne sciolta. Schieratosi nelle file dei partigiani venne fatto prigioniero il 28 settembre del 1944 in territorio Monte Croce, in Trentino, e deportato nel lager di Dachau in Germania. Fece ritorno a casa grazie alla liberazione avvenuta quando si trovava insieme ad altre 80 persone davanti ad un forno crematorio. All’ arrivo degli alleati, il giovane Giujusa  si trovava insieme ad altre 80 persone davanti al forno crematorio; ma si salva nel «tempo di nessuno», nell’ intervallo in cui i tedeschi erano scappati e i liberatori non erano ancora entrati nel campo. Rimasto senza forze, per sua fortuna non corre verso il filo spinato ancora carico di corrente elettrica, come avevano fatto altri compagni, morendo. Il completo scioglimento della tensione si raggiunge nel momento in cui Giujusa, rientrato in Italia, riesce ad abbracciare la sua famiglia: «Mia madre mi strinse al cuore, forte; non so se per un minuto o per un secolo. Ritornavo alla vita» Dopo 50 anni decide di trascrivere  i suoi ricordi nel libro: Il tempo di nessuno pubblicato nel Gennaio 2008 con l’introduzione di Oscar Luigi Scalfaro.

Nel 2018, in occasione della giornata della Memoria, il prefetto di Caltanissetta, Dott.ssa Maria Teresa Cucinotta ha consegnato ai famigliari di Salvatore Giujusa la medaglia d’onore alla memoria del Presidente della Repubblica.

Il 26 Gennaio 2019 , il Comune di Mazzarino ha intitolato una via a Salvatore Giujusa, ex Via Pecorella.

 

Giuseppe La Rosa  nacque a Riesi il 2 aprile 1918 e il 14 marzo 1940 venne chiamato alle armi, dal Distretto Militare di Caltanissetta. Dopo un lungo addestramento, venne destinato al 130° Reggimento Fanteria di Spoleto. Il 31 luglio del 1942, il La Rosa giunge a Cetinje, capitale del Montenegro.

Dopo l’8 settembre 1943 si aggrega ai gruppi di resistenza armata del Montenegro,  ma il 22 aprile 1944, venne catturato dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Mathausen-Gusen, in Austria. Venne impiegato nei lavori forzati. Il 5 maggio del 1945 venne liberato dall’esercito alleato.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Calogero Giardina è nato a Mussomeli l’1.12.1920, Il 29 gennaio 1939 viene chiamato alle armi  e giunge in data 31.01.1942 al 27° Reggimento Fanteria.  In data 15.08.1942 viene collocato effettivo nel 101° Reggimento Fanteria – 16° Battaglione “Cosenza”. Trasferito con il 101° Reggimento Fanteria in Grecia nelle zone di guerra. Il 9 settembre 1943, viene catturato dall’esercito tedesco e deportato in Germania. Destinato al lavoro coatto presso le miniere di carbone –Stammlager XII D – Zollverein Renania. Il 25 aprile 1945 viene liberato dagli Alleati e trattenuto dagli stessi fino al 21 ottobre 1945. In tale data Giardina Calogero ritorna in Italia e si presenta al Centro Alloggio di Verona. Lo stesso giorno gli viene concessa la licenza e ritorna a Mussomeli. Collocato in congedo illimitato in data 22 dicembre 1945, in tale data riscontriamo la seguente dicitura dal foglio matricolare: “Considerato come prigioniero di guerra a tutti gli effetti G 125900/1-3-133-8-5 in data I-II- 1945 dal Ministero di Guerra – Gabinetto.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Giuseppe La Rosa  nacque a Riesi il 2 aprile 1918 e il 14 marzo 1940 venne chiamato alle armi, dal Distretto Militare di Caltanissetta. Dopo un lungo addestramento, venne destinato al 130° Reggimento Fanteria di Spoleto. Il 31 luglio del 1942, il La Rosa giunge a Cetinje, capitale del Montenegro.

Dopo l’8 settembre 1943 si aggrega ai gruppi di resistenza armata del Montenegro,  ma il 22 aprile 1944, venne catturato dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Mathausen-Gusen, in Austria. Venne impiegato nei lavori forzati. Il 5 maggio del 1945 venne liberato dall’esercito alleato.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, a Giuseppe La Rosa viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta.

Paolino SALAMONE nasce a Sutera (CL) il 21 gennaio 1915, il 28 maggio 1940 viene richiamato alle armi per mobilitazione e giunge in data 06.06.1940 al 76° Reggimento Fanteria.  In data 14.06.1941 viene trasferito effettivo nel 225° Reggimento Fanteria. Trasferito il 15.06.1941 con il 225° Reggimento Fanteria sul fronte Greco-Albanese e giunge a Durazzo (Albania) il 16.06.1941. Catturato prigioniero dai tedeschi in data 08.09.1943 in seguito all’armistizio e deportano in Austria. Destinato al lavoro coatto presso il campo di prigionia di Wels (Austria). In data 31 maggio 1944, resta vittima durante una incursione aerea alleata. E’ sepolto nel Cimitero Italiano di Guerra di Mauthausen (Austria) – Fila n.3 – Tomba n.283.

Il 30 gennaio del 2018, su richiesta Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta, alla nipote viene conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Maria Teresa Cucinotta

 

Salvatore Pellegrino, nacque a San Cataldo il 22.02.1904, viene richiamato alle armi e inviato nelle zone di guerra in Croazia-Jugoslavia. Catturato prigioniero dai tedeschi in data 12.09.1943 in seguito all’armistizio e deportano in Germania nel M-Strannlager IIID – Bezeichnung nella regione della Sassonia dal 12.09.1943 al 29.08.1945. Liberato dalla prigionia dall’esercito sovietico.

Il 25 gennaio del 2019, su richiesta del Comitato Provinciale ANPI Caltanissetta e della Sezione “Sandro Pertini” di San Cataldo, al figlio Liborio Pellegrino viene conferita la medaglia d’Onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta sua Eccellenza Cosima Di Stani.

 

Carmelo Boncore nacque a Riesi il 15 luglio 1915 . Da ragazzo frequenta gli ambienti valdesi di Riesi, dove coltiva la sua cultura antifascista .  Il 25 maggio 1938 viene chiamato alle armi e assegnato al 29°Reggimento Artiglieria di Modena e inviato alla città di Valona. Il 13 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi e condotto nei campi di lavoro in Germania.

Il 9 aprile 1945 viene liberato e inviato al Centro Alloggio di Bolzano dove venne interrogato e curato prima di essere inviato a Riesi.  Alla fine del conflitto riceve due croci di guerra e il 27 gennaio 2020 su richiesta del Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta, gli è stata conferita la medaglia d’onore alla memoria del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, dalle mani del prefetto di Caltanissetta dott.ssa Cosima Di Stani.

Luigi De Bilio nato a Riesi il 7 marzo 1918. Viene inviato sul fronte Greco-Albanese, dove dopo l’8 settembre 1943 viene arrestato dalle S.S e deportato in Germania nei campi di lavoro.  Viene liberato dagli Alleati. La sua storia non è stata mai raccontata a nessuno, neanche ai suoi famigliari. Solo nel 2019 con l’interesse di suo fratello Rocco De Bilio decide di rivolgersi al Comitato Provinciale ANPI di Caltanissetta  per fare la richiesta per l’ottenimento della medaglia d’onore alla memoria dal Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana. Il 27 gennaio 2020, ottiene il meritato riconoscimento, a consegnarlo il Prefetto di Caltanissetta dott.ssa Cosima di Stani.

Intitolazioni locali pubblici

Centro Polivalente Partigiano Gaetano Butera. Il 16 settembre 2016 è stato intitolato il Centro Polivalente di Riesi a Gaetano Butera, medaglia d’oro al valor militare e ucciso nel 1944 nelle Fosse Ardeatine; grazie al lavoro svolto da due anni a questa parte dell’assessore Franco La Cagnina e dallo studioso locale Salvatore Michele Mirisola, nonché componente della Commissione Toponomastica. Alla cerimonia hanno preso parte tutti gli studenti  presenti sul territorio,  l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Salvatore Chiantia, dal Presidente dell’ANPI Riesi Giuseppe Calascibetta dal Comitato provinciale dell’ANPi di Caltanissetta presieduto da Giuseppe Cammarata, dal Coordinatore Regionale ANPI Sicilia, Ottavio Terranova, dall’Associazione nazionale “Arma di Cavalleria di Sicilia”, del Capitano Salvatore Salerno, del Colonello dell’Esercito Italiano, Petralia,  dal Comandante dei Carabinieri di Riesi, Rosario Alessandro e dal Comandante dei Vigili Urbani Salvatore Miccichè. Una cerimonia solenne scandita dal silenzio e dall’inno nazionale intonato dalla Banda Musicale Don Bosco, seguita dalla benedizione della stele commemorativa da parte del Vicario Foraneo Don Antonella  Bonasera.  I ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori hanno potuto visitare la mostra di pittura “RiESISTENTI” che racconta la resistenza e l’antifascismo di Riesi,  curata da Rosario Riggio e Attilio Gerbino. La  testimonianza  di Gaetano Butera è stata raccontata dalla signora Silvia Baglio, cugina del partigiano Butera, e socia dell’ANPi di Roma sezione Don Papagallo. A tal proposito afferma: “Gaetano Butera era un giovane di 19 anni che ha sacrificato la propria vita per un ideale di libertà e democrazia. E deve essere un esempio luminoso per tutti i giovani presenti. Mio cugino inoltre ha combattuto a Roma nella ottava zona, e veniva aiutato molto spesso dai carabinieri che gli cedevano le loro armi per combattere i fascisti per poi riportarli nella notte stessa.  Sono orgogliosa che oggi a Riesi c’è un edificio pubblico intitolato a mio cugino  e soprattutto che esiste una sezione ANPI a Riesi”.

 

Sala Riunioni “Cap. Gaetano Mancuso. Il 26 aprile 2016 è stata intitolata su esplicita richiesta della Sezione Anpi “Sandro Pertini”, la Sala Riunione posta al primo piano del Palazzo di Citta di San Cataldo al Cap. Gaetano Mancuso nato a San Cataldo il 05.04.1904, Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Arruolatosi giovanissimo all’Artiglieria a Cavallo e corsista nella scuola ufficiali di Modena. Richiamato per partecipare con il 1290° Regimento di Fanteria della Divisione “Perugia” alle operazioni militari nella regione del Kosovo in Albania. La Divisione “Perugia”, comandata dal Generale Ernesto Chiminello, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e sino al 5 ottobre 1943, si sottopose a marce forzate nel tentativo di raggiungere e difendere i porti di imbarco di volta in volta indicati dal nostro Comando supremo. La marcia verso il mare, contrassegnata da continui scontri con i tedeschi, si concluse tragicamente a Porto Edda (l’odierna Sarandë Albania), dove il Generale Chiminello, catturato con molti suoi uomini, venne fucilato. Analoga sorte toccò ai suoi ufficiali e sottufficiali tra essi il Capitano Gaetano Mancuso, che si erano opposti alle forze naziste: il 5 ottobre 1943, 120 di loro vennero mitragliati dai tedeschi, i loro corpi cosparsi di benzina e poi incendiati, prima di essere buttati in mare. L’onorificenza della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria, è stata consegnata alla vedova Sig.ra Ascari Elsa, durante una cerimonia ufficiale nell’agosto 1952. Alla cerimonia di intitolazione erano presenziato; la vice Prefetto D.ssa Elisa Carbone, il Sindaco di San Cataldo Ing. Giampero Modaffari, il Dirigente della Polizia di Stato Michele Emma, il Comandante della Compagnia dei Carabinieri Cap. Mauro Epifani, il responsabile della Sezione ANPI Giuseppe Cammarata nonché, diversi componenti della famiglia Mancuso. Nel chiudere la cerimonia la Vice Prefetto Dott.ssa Elisa Carbone: “ Eventi come questo devono servire da testimonianza di coraggio, dignità e fierezza da lasciare soprattutto alle giovani generazioni ”.

 

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