Presentazione a Marina di libri a VILLA FILIPPINA GRANDE SUCCESSO IERI SABATO 18 SETTEMBRE Liliana Geraci ha taggato Angelo Ficarra e Finella Giordano in un post: “Incontri belli alla Feltrinelli! Compagni di lotte “SE TUTTI VANNO VIA. JACON STORIA DI UN PARTIGIANO” DI ANTONIO ORTOLEVA
Epurazioni e riciclaggi nel dopoguerra: il caso degli ispettori generali Verdiani e Messana
Due alti funzionari di Polizia si distinguono in epoca fascista per i crimini commessi a Lubiana come dirigenti della locale questura. Nel dopoguerra, vengono reintegrati nei corpi della Repubblica. Li ritroviamo in Sicilia, a dirigere un ispettorato per la repressione del banditismo. Manco a dirlo, la loro vicenda si incrocia presto con quella di Giuliano, con la strage di Portella della Ginestra, con mafia e neofascismo…
Claudia Cernigoi
A chi parla di “pacificazione” e di riconoscimenti anche ai “vinti” della Seconda guerra mondiale, che, stando alla vulgata (falsificatrice e fuorviante, lo diciamo subito) che si va diffondendo in questi ultimi anni, non avrebbero goduto di alcun diritto nell’Italia del dopoguerra, vogliamo qui portare ad esempio la storia di due alti funzionari della PS, che dopo avere raggiunto i vertici della carriera in epoca fascista, la proseguirono, senza alcun problema, nell’Italia repubblicana “nata dalla Resistenza”.
Iniziamo parlando dell’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che iniziò la propria carriera nel 1916 “al Quirinale come responsabile della sicurezza personale dei Savoia” [1] e nel 1930 fu nominato capo di Gabinetto del questore di Roma. Verdiani fu inviato a Lubiana nel maggio ‘41 subito dopo l’occupazione militare italiana della cosiddetta “provincia di Lubiana”, dal Capo della Polizia di Roma, allo scopo di “esaminare a fondo le necessità degli uffici e dei comandi di polizia e Carabinieri” [2].
Le proposte di Verdiani a questo scopo (successivamente approvate da Mussolini) furono “l’istituzione di una questura a Lubiana, due uffici di PS a Novo Mesto e Kočevje, alcuni uffici confinari di Polizia ed un battaglione di agenti di PS a Lubiana”. Sugli uffici di Novo Mesto e Kočevje, considerati in zona di confine, esercitava alcune “competenze speciali” il dottor Luciano Palmisani, allora dirigente la Polizia di Frontiera a Trieste; Palmisani fu anche il reggente dell’Ispettorato Speciale di PS (un corpo di polizia creato specificamente per la lotta antipartigiana nell’allora Venezia Giulia) nel periodo in cui il dirigente Giuseppe Gueli era fuori sede in quanto si trovava a dirigere il corpo di sorveglianza di Mussolini al Gran Sasso. Vale la pena di ricordare che, stando alle memorie dello stesso Gueli, sarebbe stato proprio grazie alla sua “sorveglianza” che il commando di Otto Skorzeny riuscì a liberare il “duce” e portarselo via [3].
Verdiani propose anche di estendere alla “provincia di Lubiana” le competenze dell’OVRA, ma “mentre la Venezia Giulia apparteneva alla 1^ zona OVRA (con sede a Milano), la provincia di Lubiana venne aggregata all’11^ Zona OVRA, con sede a Zagabria”, diretta da Verdiani tra il 1941 ed il ‘43. Verdiani divenne infine dirigente dell’Ispettorato Generale di Polizia in Croazia con sede a Zagabria, come si evince da alcuni documenti datati luglio ed agosto ‘43, sia d’epoca fascista, sia badogliana.
Finita la parentesi fascista, Verdiani ebbe una curiosa evoluzione: nel 1944 fu “arrestato dalla Muti come antifascista. Liberato all’inizio del 1945, si trasferisce a Venezia per attivare contatti segreti con la Resistenza” [4]; successivamente, nel dopoguerra, vantando il possesso di una “cassa dell’archivio dell’OVRA contenente documenti riguardanti alcune personalità allora al governo” [5] riuscì ad avere un “colloquio con Pietro Nenni cui consegnò personalmente la cassa (che conteneva anche il fascicolo di Nenni) avendone in cambio, con la sua iscrizione al Partito socialista, promessa di protezione per evitargli l’epurazione e le sanzioni”. Nel 1946 ricoprì la carica di questore di Roma, il secondo dopo la liberazione. Nel 1947 fu sentito come teste nel processo a carico di Giuseppe Gueli e di altri membri dell’Ispettorato Speciale celebrato a Trieste: doveva riferire dell’inchiesta che un altro Ispettore generale di PS, Cocchia, avrebbe svolto in seguito alla denuncia del vescovo di Trieste Antonio Santin per le sevizie cui agenti dell’Ispettorato sottoponevano i prigionieri. Verdiani asserì in udienza che la relazione di Cocchia non era reperibile ma che Cocchia avrebbe constatato che s’era trattato di esagerazioni sulle violenze che in ogni caso andavano attribuite al solo commissario Gaetano Collotti (nel frattempo deceduto) e non anche ai suoi collaboratori. Dato che Cocchia non fu sentito, e la relazione non saltò mai fuori, la Corte si basò, per giudicare questi fatti, solo sulle parole di Verdiani. Ricordiamo che la sentenza sancì che era “molto riprovevole anche moralmente” ma non penalmente perseguibile il fatto che Gueli fosse venuto a conoscenza delle sevizie cui si dedicavano i suoi sottoposti, e quindi lo assolse da questo capo di imputazione [6].
Nel dopoguerra Verdiani operò in Sicilia come dirigente di un “Ispettorato per la lotta alla mafia”, assieme ad un suo vecchio collega, Ettore Messana, che aveva diretto la questura di Lubiana (istituita, lo ricordiamo, su proposta di Verdiani) fino a giugno 1942, e successivamente quella di Trieste, fino a giugno 1943.
Criminali di guerra
Il nome di Messana risulta nell’elenco dei criminali di guerra denunciati dalla Jugoslavia alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission). Il rapporto di denuncia, redatto in lingua inglese ed inviato dalla Commissione statale jugoslava in data 14/7/45 [7], lo accusa, sulla base di documentazione che era stata trovata in possesso della Divisione “Isonzo” dell’Esercito italiano di occupazione, di crimini vari: “assassinio e massacri; terrorismo sistematico; torture ai civili; violenza carnale; deportazioni di civili; detenzione di civili in condizioni disumane; tentativo di denazionalizzare gli abitanti dei territori occupati; violazione degli articoli 4, 5, 45 e 46 della Convenzione dell’Aja del 1907 e dell’articolo 13 del Codice militare jugoslavo del 1944”.
Nello specifico viene addebitata a Messana (in concorso con il commissario di PS Pellegrino e col giudice del Tribunale militare di Lubiana dott. Macis) la costruzione di false prove che servirono a condannare diversi imputati (tra i quali Anton Tomsič alla pena capitale, eseguita in data 21/5/42) per dei reati che non avevano commesso. La responsabilità di Messana e Pellegrino in questo fatto è confermata da documenti dell’archivio della questura di Lubiana [8], che fanno riferimento ad una “operazione di polizia politica” condotte dal vicequestore Mario Ferrante e dal vicecommissario Antonio Pellegrina sotto la direzione personale di Messana, contro una “cellula sovversiva di Lubiana” della quale facevano parte, oltre al Tomsič prima citato, anche Michele Marinko (condannato a 30 anni di reclusione), Vida Bernot (a 25 anni), Giuseppina Maček (a 18 anni) ed altri tre a pene minori.
Messana e gli altri furono anche accusati di avere creato false prove nel corso di una indagine da loro condotta, in conseguenza della quale 16 persone innocenti furono fucilate dopo la condanna comminata dal giudice Macis. Si tratta dell’indagine per l’attentato al ponte ferroviario di Prešerje del 15/12/41, per la quale indagine, come risulta da altri documenti della questura di Lubiana dell’epoca, Messana, il suo vice Ferrante, l’ufficiale dei Carabinieri Raffaele Lombardi ed altri agenti e militi furono proposti per onorificenze e premi in denaro per la buona riuscita delle indagini relative all’attentato di Preserje. Nello specifico Messana ricevette come riconoscimento per il suo operato la “commenda dell’Ordine di S. Maurizio e Lazzaro”.
Ettore Messana fu anche segnalato con nota del 21/9/45 dall’Alto Commissario Aggiunto per l’Epurazione di Roma al Prefetto di Trieste, che richiese un’indagine alla Polizia Civile del GMA [9]. Il risultato di questa indagine è contenuto in una relazione datata 6/10/45 e firmata dall’ispettore Feliciano Ricciardelli della Divisione Criminale Investigativa [10], dalla quale citiamo alcuni passaggi.
“… il Messana era preceduto da pessima fama per le sue malefatte quale Questore di Lubiana. Si vociferava infatti che in quella città aveva infierito contro i perseguitati politici permettendo di usare dei mezzi brutali e inumani nei confronti di essi per indurli a fare delle rivelazioni (…) vi era anche (la voce, n.d.r.) che ordinava arresti di persone facoltose contro cui venivano mossi addebiti infondati al solo scopo di conseguire profitti personali. Difatti si diceva che tali detenuti venivano poi avvicinati in carcere da un poliziotto sloveno, compare del Messana, che prometteva loro la liberazione mediante il pagamento di ingenti importi di denaro. Inoltre gli si faceva carico che a Lubiana si era dedicato al commercio in pellami da cui aveva ricavato lauti profitti.
Durante la sua permanenza a Trieste, ove rimase fino al giugno 1943, per la creazione in questa città del famigerato e tristemente noto Ispettorato Speciale di polizia diretto dal comm. Giuseppe Gueli, amico del Messana, costui non riuscì ad effettuare operazioni di polizia politica degne di particolare rilievo.
Ma anche qui, così come a Lubiana, egli si volle distinguere per la mancanza assoluta di ogni senso di umanità e di giustizia, che dimostrò chiaramente nella trattazione di pratiche relative a perseguitati politici (…)”.
La banda Giuliano
Dopo avere letto i curricula di questi due funzionari di PS, ci si aspetterebbe di trovarli, se non condannati per il loro operato sotto il fascismo, quantomeno “epurati” dalla Pubblica Sicurezza. Invece li ritroviamo, nell’immediato dopoguerra, nella natia Sicilia, a dirigere un “Ispettorato generale di PS per la Sicilia”, un “organo creato per la repressione della delinquenza associata, e specificamente per la repressione del banditismo che faceva capo a Giuliano (il “bandito” Salvatore Giuliano, n.d.r.)” [11]. Per sapere come i due alti funzionari di PS svolsero il compito loro affidatogli, leggiamo alcuni stralci dalla sentenza che fu emanata in merito alla strage di Portella della Ginestra (1/5/47), dove gli uomini di Giuliano spararono sulla folla che si era radunata per festeggiare il Primo maggio, uccidendo undici persone tra cui donne e bambini e ferendone molte altre.
Così “l’Ispettore Verdiani non esitò ad avere rapporti con il capo della mafia di Monreale, Ignazio Miceli, ed anche con lo stesso Giuliano, con cui si incontrò nella casetta campestre di un sospetto appartenente alla mafia, Giuseppe Marotta in territorio di Castelvetrano ed alla presenza di Gaspare Pisciotta, nonché dei mafiosi Miceli, zio e nipote, quest’ultimo cognato dell’imputato Remo Corrao, e dal mafioso Albano. E quel convegno si concluse con la raccomandazione fatta al capo della banda ed al luogotenente di essere dei bravi e buoni figlioli, perché egli si sarebbe adoperato presso il Procuratore Generale di Palermo, che era Pili Emanuele, onde Maria Lombardo madre del capo bandito, fosse ammessa alla libertà provvisoria. E l’attività dell’ispettore Verdiani non cessò più; poiché qualche giorno prima che Giuliano fosse soppresso, attraverso il mafioso Marotta pervenne o doveva a Giuliano pervenire una lettera con cui lo si metteva in guardia, facendogli intendere che Gaspare Pisciotta era entrato nell’orbita del Colonnello Luca [12] ed operava con costui contro Giuliano”.
Per quanto riguarda Messana, invece, leggiamo che “l’Ispettore Generale di PS Messana negò ed insistette nel negare di avere avuto confidente il Ferreri, ma la negativa da lui opposta deve cadere di fronte all’affermazione del capitano dei Carabinieri Giallombardo, il quale ripetette (sic) in dibattimento che Ferreri fu ferito dai carabinieri presso Alcamo, ove avvenne il conflitto in cui restarono uccise quattro persone; e, ferito, il Ferreri stesso chiese di essere portato a Palermo, spiegando che era un agente segreto al servizio dell’Ispettorato e che doveva subito parlare col Messana”; Salvatore Ferreri era “conosciuto anche come Totò il palermitano, ma definito come pericoloso pregiudicato, appartenente alla banda Giuliano, già condannato in contumacia alla pena dell’ergastolo per omicidio consumato allo scopo di rapinare una vettura automobile”.
Verdiani morì a Roma nel 1952, e il suo “decesso fece in modo che il suo ruolo in quegli anni piano piano si dissolvesse sotto i riflettori”.
Sui rapporti tra la “banda” Giuliano, l’Ispettorato generale di Messana e Verdiani, i servizi segreti statunitensi ed italiani, nonché sul riciclaggio da parte di questi di personale che aveva operato con la Decima Mas di Borghese (soprattutto il battaglione Vega, emanazione dei Nuotatori Paracadutisti comandati dal triestino Nino Buttazzoni, il quale, dopo avere “comandato il battaglione NP” anche nella “zona di Gorizia contro i partigiani comunisti italo-slavi, difendendola dall’occupazione titina”, si trovava a Venezia alla fine della guerra, pronto, con i suoi uomini, ad andare a Trieste in previsione del fatto che “la città sarà invasa dagli slavi di Tito” [13]: a Venezia nello stesso periodo in cui Verdiani maneggiava con alleati e resistenti) per organizzare un fronte anticomunista in Sicilia (ma non solo), vi rimandiamo allo studio di Giuseppe Casarrubea, “Storia segreta della Sicilia” (Bompiani 2005), in questo articolo da noi già ripetutamente citato [14].
È curioso, a questo proposito, che lo storico Giuseppe Parlato abbia, nel corso della presentazione del libro “Trieste 1945-1954. Moti giovanili per Trieste italiana”, dopo avere definito Trieste un “un laboratorio della guerra fredda” ed “elemento centrale per porre la questione della difesa dal comunismo nel disegno anticomunista”, in quanto la “progettualità dell’OSS dal 1944 si dipana fino al 1954 triestino”, abbia usato la definizione “teoremi costruiti che portano a deliri” in merito alle ricerche di Casarrubea. Curioso perché questa affermazione è stata fatta in un contesto dove nessuno dei presenti poteva fare riferimento ai “teoremi” di Casarrubea, a meno che non si trattasse di persone che avevano approfondito l’argomento e quindi potevano mettere in collegamento la situazione della strategia della tensione creata nella Zona A da parte di coloro che finanziavano e fomentavano i “moti per la Trieste italiana”, con i “maneggi” denunciati dalle ricerche di Casarrubea (e che emergono, ricordiamolo, in gran parte da documentazione proveniente dagli archivi USA).
[1] G. Casarrubea, “Storia segreta della Sicilia”, Bompiani 2005, p. 130.
[2] Questa e le citazioni che seguono sono tratte dal testo di Tone Ferenc, “La provincia italiana di Lubiana”, IFSML 1994, p. 59, 60.
[4] G. Casarrubea, op. cit, p. 130. Giova ricordare che a Venezia nel periodo si trovavano sia alcuni gruppi organizzativi della Decima Mas (i Nuotatori Paracadutisti di Buttazzoni, cui accenneremo poi, e che pure si arresero agli inglesi) sia il Centro di studi storici di Libero Sauro, uomo di punta dell’intelligence della RSI e che aveva organizzato la propaganda sulla questione delle “foibe” istriane.
[5] Questa citazione e la seguente sono tratte da G. Casarrubea, op. cit., p. 131.
[6] Sentenza Corte Straordinaria d’Assise di Trieste d.d. 27/2/47.
[7] Copia del rapporto originale in lingua inglese si trova nell’Archivio di Stato di Lubiana, AS 1551 Zbirka Kopij, skatla 98, pp. 1502-1505.
[8] Questi documenti sono oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Lubiana, AS 1796, III, 6, 11.
[9] All’epoca Trieste era amministrata da un Governo Militare Alleato e la polizia era organizzata sul modello anglosassone.
[10] Relazione in Archivio di Stato di Trieste, Prefettura gabinetto, b 18. L’Ispettore Ricciardelli aveva già svolto servizio in polizia sotto il passato regime fascista ed era stato internato in Germania sotto l’accusato di favoreggiamento nei confronti di ebrei che sarebbero stati da lui aiutati a scappare.
[11] Definizione tratta dalla sentenza di Viterbo, emessa il 3 maggio 1952 dalla Corte d’assise di Viterbo, presieduta dal magistrato Gracco D’Agostino, in merito alla strage di Portella della Ginestra.
[12] “…l’ex generale dei Carabinieri Ugo Luca, che tra il 1949 e il 1950 coordinò l’uccisione di Giuliano in Sicilia”, già “uomo di fiducia personale di Mussolini” (G. Casarrubea, op. cit., p. 108 e 80).
[13] Citazioni tratte da N. Buttazzoni, “Solo per la bandiera”, Mursia 2002.
[14] Una buona sintesi dello studio si trova in rete al seguente indirizzo: www.edscuola.it/archivio/interlinea/banda_giuliano .
PER UNA GIUSTA E UTILE SVOLTA LEGISLATIVA CONTRO IL NEOFASCISMO
Nonostante il dramma della pandemia continuano intimidazioni, aggressioni e vandalismi dei fascisti: sono spesso in primo piano sul web, imbrattano lapidi, e addirittura di recente attaccano iniziative da remoto, cioè le teleconferenze, dando vita a provocazioni e insulti. Ove dovesse scoppiare nei prossimi mesi una grande crisi sociale resa ancor più difficile e complessa dalla pandemia – di cui non si vede ancora la conclusione – i fascisti saranno presenti per rimestare nel torbido. Di fronte a tutto questo, la stessa legislazione vigente si mostra spesso impotente, anche a causa di non pochi contrasti giurisprudenziali.
L’ANPI sta lavorando da tempo attorno a queste problematiche e studiando i modi migliori perché tutte le istituzioni siano impegnate nell’antifascismo, di cui è largamente impregnata l’intera Carta costituzionale. Proseguiamo nello sforzo di pervenire ad una serie di proposte di respiro, idonee a riempire ogni vuoto ed a rendere più efficaci i vari mezzi già vigenti. Il nostro libro “Antifascismo quotidiano”, recentemente pubblicato, è uno strumento di lavoro per individuare i problemi ed indicare possibili soluzioni. Ci aspettano ulteriori e ravvicinati impegni in questa direzione.
Abbiamo scelto la strada, anche se impegnativa, di un intervento complessivo, perché le soluzioni parziali e limitate sono troppo spesso destinate all’insuccesso, in un Paese in cui l’iniziativa popolare non ha ancora trovato un ascolto serio, come è dimostrato dal silenzio che da anni copre la presenza in Parlamento di un disegno di legge promosso dalla CGIL e corredato da oltre un milione di firme.
La proposta di legge di iniziativa popolare di cui siamo venuti a conoscenza tempo fa è generosa e manifesta una chiara volontà antifascista, ma è parziale e specificamente incentrata sulla produzione di gadget. Firmare, come hanno fatto alcuni iscritti all’ANPI, a sostegno di tale proposta di legge, è comunque un segno di partecipazione civile e di scelta antifascista.
Comprendiamo che iniziative dirette a incidere su aspetti particolari della presenza fascista possano suscitare interessi ed illusioni; ma la realtà ci dice che oggi c’è ben poco spazio per iniziative pure ispirate a finalità legittime e comprensibili, ma irrimediabilmente incomplete e destinate a cadere nel silenzio.
Va fatto uno sforzo di lunga lena, pretendendo l’applicazione delle varie leggi già esistenti, compreso l’art. 9 della legge Scelba, che impegnava la Repubblica a far conoscere nelle scuole che cosa fosse stato il fascismo e che non è stato mai applicato.
C’è l’urgenza di definire altre e nuove fattispecie di reato, in particolare sui social e nelle teleconferenze. A questo proposito occorre, tra gli interventi più urgenti, ampliare gli attuali limitati compiti di indagine della polizia postale, responsabilizzare giuridicamente i providers, conferire ai giudici il potere di ordinare l’oscuramento dei siti e dei profili Fb fascisti.
Vi è poi l’emergenza di un intervento più incisivo sulle competenze amministrative e sugli interventi preventivi, ad esempio in tema di elezioni, a proposito dell’ammissione delle liste elettorali che abbiano riferimento a simboli o a parole d’ordine del fascismo o che comunque facciano riferimento al fascismo e della concessione di spazi pubblici a queste formazioni.
La vera battaglia antifascista deve condursi su due piani: da un lato, nel superamento della frammentata e parziale disciplina legislativa oggi vigente, con provvedimenti tali non solo da colmare specifici vuoti, ma da dare continuità e coerenza all’intero sistema; dall’altro lato, nell’impegno quotidiano di ciascuno a far conoscere che cosa è stato il fascismo del tragico ventennio, nonché a combattere, con i mezzi della legalità e della democrazia, ogni forma di “nuovo fascismo”, comunque si atteggi e comunque si presenti, impegnando tutte le forze nell’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione
il Partigiano Peppino Benincasa eroe sopravissuto alla strage di Cefalonia
suona le note dolenti del silenzio davanti la tomba del Partigiano di Isnello Giovanni Ortoleva
MIMMO RIZZO, MASSIMO GANCI E POMPEO COLAJANNI
RICORDANO NICOLA BARBATO
L’ANPI Palermo per la collana dei “Quaderni dell’ANPI Sicilia” recupera gli Atti del convegno del 1983 per il 60°anniversario della morte di Nicola Barbato, in un libretto destinato ad inaugurare la collana di cui sono onorato di assumere, come si dice, la direzione. Mi preme rivelare che i suddetti due testi, in questa esordiente collana, sono assai significativi nel loro porsi quali contributi alla documentazione che serve agli storici, ma soprattutto quali incentivi alla ricostituzione e alla difese della memoria collettiva che, se e in quanto sia ancora preservata, riesce a ritrova in Sicilia, nel passato dei movimenti popolari e delle loro lotte per la giustizia sociale, le radici profonde dell’antifascismo militante che animo i combattenti siciliani da varie parti d’Italia affluiti, nel Nord ancora sotto il tallone nazifascista, ai ruoli della Resistenza e della guerra di liberazione.
dalla prefazione di Giuseppe Carlo Marino
Giuseppe Benincasa, MEMORIE DI CEFALONIA. Diario di un sopravissuto della divisione Acqui
Non ci sono categorie per etichettare Benincasa. Dice di essere di spirito anarchico, senza per questo farne una religione. Il padre era di fede socialista, l’autore di questo libro, invece, non ha mai aderito a nessun partito. Pur essendo stato accolto e salvato dall’Ellas, la resistenza comunista in Grecia, non vi aderisce politicamente. Da sempre, con testimonianze quotidiane mai con adesioni ideologiche, si dichiara antifascista, antinazista, antimonarchico, anticlericale anticapitalista.
Questo diario è una straordinaria testimonianza dei fatti che successero a Cefalonia, specie dopo l’8 settembre 1943. La stampa tipografica di questo racconto ha già vinto il Premio Acqui Storia, edizione 2012, che si svolge nello stesso luogo dove aveva sede l’omonima Divisione.
DAI FASCI SICILIANI ALLA RESISTENZA, a cura di Angelo Ficarra
Questo libro intende avviare una riflessione volta a stabilire un collegamento tra quel rigoglioso movimento di lavoratori di fine Ottocento e la lotta di Liberazione dal nazifascismo.
Sia per i Fasci siciliani – che furono la prima esperienza organica di lotta di liberazione del popolo siciliano – sia per la Resistenza – alla quale il Meridione e la Sicilia hanno dato un importante contributo ancora oggi poco conosciuto – è stata negata una memoria popolare. Il tentativo di capire perché è mancata questa memoria apre nuovi scenari di ricerca: in entrambi gli eventi c’è stato un sistematico uso terroristico della violenza, a volte anche ammantata dalla sacralità dello Stato.
I Fasci siciliani e le lotte per l’occupazione delle terre costituiscono insieme il più grande movimento di massa impegnato in una lotta di liberazione dalla mafia e dai suoi complici che continua fino ai nostri giorni.
Pompeo Colajanni, ANTIFASCISMO E RESISTENZA. Come il popolo divenne esercito
«Lo scritto è una testimonianza resa, è da credersi sotto dettatura, da Pompeo Colajanni, da tempo un anziano ed elegante signore, effusivo e molto gioviale (per tutti i comunisti lo “zio Pompeo”), dirigente ormai secondario, per quanto molto onorato e persino venerato, del PCI: un reduce illustre e quasi solitario della Resistenza armata in una terra, la Sicilia, il cui apporto alla Resistenza armata e allo stesso antifascismo era molto sottovalutato, considerato soltanto “esterno”, casuale e marginale nel contesto nazionale […].
«Assume adesso il carattere di inedito, sottratto, oltre che all’oblio, ad una probabile lettura di parte, ovvero, se si preferisce, quello di una novità editoriale, perché nuovo è davvero anche lo spirito che anima oggi l’interpretazione della Resistenza, e soprattutto della guerra di Liberazione, e che guida sia gli storici che i nuovi “partigiani” dell’ANPI» [dalla prefazione di Giuseppe Carlo Marino].
Pompeo Colajanni (Caltanissetta, 4 gennaio 1906 – Palermo, 8 dicembre 1987). Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista, il FUAI, del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti. Con il nome di battaglia “Barbato” fu comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese; divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando, fra cui la liberazione di Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome.
È stato sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi. Parlamentare all’Assemblea regionale siciliana e alla Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, consigliere nazionale dell’ANPI.
CI AVETE CONDANNATI INNOCENTI, a cura di Giuseppe Pietramale
«La testimonianza di un lascito di memoria, da un nonno [Giuseppe Pietramale] contadino a suo modo “combattente” in Sicilia a un nipote [omonimo del nonno]. Un “documento” di storia orale (potrebbe dirsi, meglio, di etnostoria), una specie di “diario” in cui il frantumato (ed è da presumere disorganico) racconto dei fatti da parte del suo originario estensore si intreccia e si fonde con un’aggiuntiva cura narrativa adoperata dal curatore finale. Questo, salvando l’autenticità, l’immediatezza, la freschezza di una “voce narrante” che rimane, in tutto lo scritto così messo a punto dal nipote, quella stessa del nonno contadino che parla il suo incertissimo italiano infarcito di dialetto siciliano. Ne risulta una rappresentazione dinamica, che direi in “presa diretta”, di un momento esemplare di azione del movimento contadino a Bisacquino.
«La rappresentazione dinamica – se si vuole quasi una pièce teatrale di un dramma da cui emerge come protagonista collettivo un’intera comunità popolare con un’impressionante partecipazione anche di donne – coglie e fonde nell’azione, gli ideali, le vocazioni civili, i sentimenti, le angosce, le paure, ma soprattutto l’impeto coraggioso per la giustizia, che alimentarono, non soltanto a Bisacquino, ma ovunque in Sicilia, quell’intensa stagione storica. A suo modo, una speciale “stagione partigiana”. In essa, avvertita e interpretata “eroicamente” dai militanti di base nel vivo dell’azione, si staglia la figura di Pio La Torre, di un dirigente comunista che, come ben sappiamo, eroe certamente lo sarebbe diventato qualche anno dopo e che, intanto, andò in galera insieme al contadino Pietramale» [dalla prefazione di Giuseppe Carlo Marino].
LA DURA MEMORIA DELLA SHOAH a cura di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro Contributi di Rosa Cuccia e Michelangelo Ingrassia
“La dura memoria della Shoah”,a cura di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro, con contributi di Rosa Cuccia e Michelangelo Ingrassia: un modo nuovo per accostarsi al racconto della Shoah, con empatia e rispetto, per evitare che la terribile pagina di storia che ha segnato il Ventesimo secolo finisca per apparirci “altro da noi”.
Nonostante rappresenti l’evento più drammatico e catastrofico della storia del Ventesimo secolo, la Shoah corre oggi il rischio di trasformarsi in un ricordo lontano, distante da noi. Un evento del passato che non siamo più in grado di riconoscere come nostro. La banalizzazione della tragedia, la sua narrazione distaccata, rappresentano la sfida con cui dovranno confrontarsi le nuove generazioni di questo Ventunesimo secolo. Da qui la necessità di un nuovo approccio, dentro e fuori la scuola, per trattare dello sterminio nazifascista di milioni di persone in una veste nuova, maggiormente empatica, meno retorica.
La dura memoria della Shoah è composto da tre sezioni – una dedicata alla ricostruzione storica del contesto, una alla testimonianza diretta di alcuni internati italiani nei lager, un’ultima alla didattica della Shoah – che contribuiscono a creare un testo completo che si rivolge a studenti e docenti, ma anche a tutti gli appassionati di Storia e a chi desidera conoscere la dura realtà dei campi di concentramento nazisti dalla voce di chi ha subito quel tragico destino in prima persona. Un approccio nuovo alla storia della Shoah, costruito con anni di studi specifici e di esperienza didattica dedicata all’argomento. Un testo per le scuole, pensato per studenti e docenti, ma anche per tutti gli appassionati di Storia
Gli autori: Carmelo Botta è docente di Filosofia e Storia nei licei. Ha realizzato progetti didattico-educativi di tutela dei diritti umani e della lotta per la legalità. Per Navarra Editore ha pubblicato “Il sogno negato della libertà”, “Placido Rizzotto: dai Fasci siciliani dei lavoratori alla strage dei sindacalisti”, “Portella della Ginestra: Primo Maggio 1947. Nove sopravvissuti raccontano la strage. di Mario Calivà)” (introduzione storica)
Francesca Lo Nigro lavora come dirigente scolastica a Palermo. Ha pubblicato articoli e saggi d’inchiesta su riviste e periodici, nonché testi didattici di storia. Per Navarra Editore ha pubblicato “Il sogno negato della libertà”, “Placido Rizzotto: dai Fasci siciliani dei lavoratori alla strage dei sindacalisti”, “Portella della Ginestra: Primo Maggio 1947. Nove sopravvissuti raccontano la strage. di Mario Calivà)” (introduzione storica).
Rosa Cuccia è docente di Scuola Primaria a Palermo. Ha partecipato al Corso Nazionale di Formazione della storia della didattica della Shoah, organizzato dal MIUR; e al Corso di Formazione sulla Storia e Didattica della Shoah presso Gerusalemme – Israele, in rappresentanza delle scuola delle regione Sicilia. Michelangelo Ingrassia è docente di storia dell’età contemporanea all’Università di Palermo. Collabora con quotidiani e riviste, pubblicando numerosi articoli e saggi, tra cui “La sinistra nazionalsocialista. Una mancata alternativa a Hitler”, L’Idea di fascismo in Arnaldo Mussolini”, “La Rivolta della Gancia”, “Lotta di classe e utopia socialista nel giovane Mussolini”, “Braccianti e contadini in Sicilia contro il fascismo”.
Da “Redattore sociale”:
A dispetto del tempo che ci allontana sempre più da quella prima metà degli anni ’40, la memoria della Shoah diviene e resta “dura”, come suggerisce il titolo di questo libro. Resta dura da affrontare, perché la scelleratezza dei fatti rimarrà sempre incomprensibile e inaccettabile; ma al contempo dura diviene, nella sua solidità, grazie all’impegno di storici, studiosi e insegnanti che continuano ad approfondire il momento storico e politico del nazifascismo e a respingere il negazionismo, interrogando le coscienze. La dura memoria della Shoah offre un nuovo approccio all’analisi dello sterminio del popolo ebraico e delle minoranze “indesiderate”, proponendo strumenti di informazione e di riflessione per uomini e donne di tutte le età. Nella prima parte, Ingrassia presenta una ricostruzione storica dettagliata, dall’origine del pregiudizio nei confronti degli ebrei fino al loro sterminio. Nella seconda, i curatori Botta e Lo Nigro presentano le voci dei sopravvissuti ai lager, che hanno incontrato personalmente; testimonianze preziose, in grado di creare un contatto ravvicinato, soprattutto con i più giovani. Nella terza parte, Cuccia propone numerosi e innovativi percorsi di didattica, inerenti allo studio della Shoah, fin dalla scuola primaria, supportando la teoria con la lettura di molti libri e film, per tutte le età.
Da “Trapani ok”:
Shoah.
Nonostante rappresenti l’evento più doloroso e catastrofico della storia del Ventesimo secolo, la Shoah corre oggi il rischio di trasformarsi in un ricordo lontano, un evento del passato che non siamo più in grado di riconoscere come nostro. Il rischio di una banalizzazione della tragedia, di una narrazione distaccata, è una sfida da affrontare per chiunque voglia preservare la memoria di quanto accaduto, perché simili tragedie non avvengano mai più.
La dura memoria della Shoah è composto da tre sezioni – una dedicata alla ricostruzione storica del contesto, una alla testimonianza diretta di alcuni internati italiani nei lager, un´ultima alla didattica della Shoah – che contribuiscono a creare un testo completo e organico, che si rivolge a studenti e docenti, ma anche a tutti gli appassionati di Storia e a chi desidera conoscere la dura realtà dei campi di concentramento nazisti dalla voce di chi ha subito quel tragico destino in prima persona.
“La ricostruzione e la conoscenza storica del contesto, gli spunti di riflessione sulla didattica, l’incontro con la testimonianza diretta tramite l’ausilio delle interviste ai sopravvissuti, la riscoperta della storia locale che riporta in vivo la narrazione delle deportazioni – dichiarano i curatori Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro – possono servire a far comprendere alle giovani generazioni che studiano queste lontane e terribili vicende che quella storia di vittime e di carnefici parla per loro, parla di loro, parla grazie a loro, mentre nuove vittime e nuovi carnefici agitano e sconvolgono il tempo presente.”
“Pubblicare questo libro – commenta l´editore Ottavio Navarra – è per noi un atto di impegno civile e un dovere morale. Coltivare la memoria dei tragici fatti che hanno sconvolto l´intera Europa e segnato in maniera indelebile la storia a seguire è per noi l´unica maniera per preservare le prossime generazioni da qualsiasi deriva autoritaria e dal perpetuarsi della violenza cieca e indicibile. ”
IL SOGNO NEGATO DELLA LIBERTA’
DI CARMELO BOTTA, FRANCESCA LO NIGROPREFAZIONE DI MICHELANGELO INGRASSIA
Questa è la storia dei Fasci siciliani, raccontata in un testo agevole, particolarmente indicato per gli studenti, ma non solo.
Carmelo Botta, docente di Filosofia e Storia, e Francesca Lo Nigro, dirigente scolastica, raccontano in queste pagine la storia dei Fasci siciliani dei lavoratori, partendo dall’Unità di Italia.
Ricostruendo la scena politica, sociale ed economica dell’Italia post-unitaria, delineano l’emergere del conflitto sociale nell’isola; analizzando i modi e i nodi della partecipazione della Sicilia alla costruzione dello Stato unitario italiano, svelano caratteri, difficoltà e responsabilità del processo d’integrazione nazionale e del suo esito.
Un cammino della memoria che vede il movimento popolare dei Fasci siciliani opporsi al latifondo agrario, ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi del popolo, contrastare l’arroganza del potere mafioso in combutta con quello politico, nell’intento di raggiungere giustizia sociale e libertà.
Il saggio permette quindi di comprendere cosa e perché è accaduto in Sicilia in quegli anni, ad esempio perché, come ha rivelato Francesco Renda, la rivoluzione del 1860 fu compiuta con il sostegno dei braccianti siciliani, diversamente da quanto era avvenuto nel resto della penisola, che avevano già partecipato alle rivoluzioni del 1820 e del 1860; o perché l’epopea dei Fasci siciliani dei lavoratori abbia contribuito alla formazione del sindacalismo agricolo italiano che ebbe risonanza ben più forte che negli altri Paesi europei.
Il libro, di grande importanza documentaria, scritto e pensato per la divulgazione scolastica, proprio perché racconta la storia, rivoluzionaria e spesso sconosciuta, dei Fasci siciliani, va ben oltre tale contesto, rivolgendosi ad un pubblico più vasto.
Il saggio è accompagnato da un testo teatrale, “Il dramma quotidiano degli oppressi”, costruito su solide basi storiografiche, in cui gli autori riportano sulla scena il vero protagonista del movimento dei Fasci: il popolo, nella sua dimensione di soggetto collettivo […] in carne e ossa, con le sue sfaccettature di classe: il bracciante, lo zolfataro, la donna che condivide con i suoi compagni di lotta, le sofferenze e l’ansia di riscatto del proletariato di Sicilia.
La prefazione di Michelangelo Ingrassia arricchisce il volume con l’invito a riflettere, attraverso la rappresentazione della questione sociale del passato, sul dramma sociale del presente.
Con immenso dolore, comunichiamo la scomparsa della nostra amatissima Presidente nazionale, Carla Nespolo. Lascia un vuoto profondissimo in tutta l’ANPI che Carla ha guidato dal novembre 2017 – prima donna Presidente – con grande sapienza, passione, intelligenza politica e culturale nel solco pieno della grande tradizione di autorevolezza ed eredità attiva dei valori e principi della Resistenza che ha contraddistinto la nostra Associazione fin dalla sua nascita. Non dimenticheremo mai il suo affetto nei confronti di tutti noi, la sua presenza continua anche negli ultimi mesi, durissimi, della malattia. Ciao comandante.
LA PRESIDENZA E LA SEGRETERIA NAZIONALE ANPI
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA
IN MEMORIA DI CARLA NESPOLO
COORDINAMENTO REGIONALE ANPI SICILIA
IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA SICILIA INTERPRETANDO I SENTIMENTI DI DOLORE DI TUTTI GLI ISCRITTI ALLA NOSTRA ASSOCIAZIONE PER LA SCOMPARSA DELLA PRESIDENTE NAZIONALE DEL’ANPI CARLA NESPOLO, LA RICORDA CON AFFETTO.
CARLA NESPOLO, PRIMA DONNA NON PARTIGIANA ALLA PRESIDENZA DELLA GLORIOSA ASSOCIAZIONE PARTIGIANI D’ITALIA, HA RICORDATO IN PIU’ RICORRENZE L’IMPORTANTE CONTRIBUTO DEI PARTIGIANI SICILIANI ALLA LOTTA DI RESISTENZA.
DURANTE LA CELEBRAZIONE DELL’OTTO MARZO UNITARIO A PALERMO, HA ESPRESSO LA SUA GRATITUDINE PER LA CITTADINANZA ONORARIA CHE AVEVA APPENA RICEVUTO DAL SINDACO LEOLUCA ORLANDO A CONFERMA CHE PALERMO E’ CITTA ANTIFASCISTA.
IN QUELLA OCCASIONE LA NOSTRA PRESIDENTE DICHIARO’ DI VOLERE ESTENDERE QUESTO IMPORTANTE RICONOSCIMENTO, ALL’INTERA ANPI.
E’ STATO INSTANCABILE IL SUO IMPEGNO PER LA DIFESA DEI VALORI TRAMANDATI DA QUANTI AVEVANO SACRIFICATO ANCHE LA LORO VITA PER UN’ITALIA LIBERA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA E SARA’ SEMPRE NEL SUO RICORDO CHE IN SICILIA, COME IN TUTTA ITALIA, LE DEDICHEREMO UN NUOVO RINNOVATO IMPEGNO.
Ottavio Terranova
Coordinatore ANPI Sicilia
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Che tristezza !!! Un abbraccio in condivisione di memoria, di dolore e di ammirazione
Luca Orlando
SINDACO DI PALERMO
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Comitato Provinciale Anpi di Messina
Il Comitato Provinciale , insieme a tutti gli iscritti alle sezioni del capoluogo e della provincia, esprime il costernato rammarico e la profonda tristezza di tutta l’ANPI di Messina per la perdita di Carla Nespolo. La grande esperienza, la lucidità politica e culturale, la determinazione con cui ha guidato l’Associazione da 2017 a oggi hanno consolidato e allargato le prospettive e il ruolo dell’ANPI nella lotta contro le derive populistiche e autoritarie della politica nazionale, e costituiscono un lascito che sarà sicuramente valorizzato negli anni futuri. Alla Compagna Carla la gratitudine e l’affetto di tutti gli antifascisti messinesi. Fausto Clemente, Responsabile Provinciale.
Il Comitato Provinciale , insieme a tutti gli iscritti alle sezioni del capoluogo e della provincia, esprime il costernato rammarico e la profonda tristezza di tutta l’ANPI di Messina per la perdita di Carla Nespolo. La grande esperienza, la lucidità politica e culturale, la determinazione con cui ha guidato l’Associazione da 2017 a oggi hanno consolidato e allargato le prospettive e il ruolo dell’ANPI nella lotta contro le derive populistiche e autoritarie della politica nazionale, e costituiscono un lascito che sarà sicuramente valorizzato negli anni futuri. Alla Compagna Carla la gratitudine e l’affetto di tutti gli antifascisti messinesi. Fausto Clemente, Responsabile Provinciale.
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Gianfranco Pagliarulo
Non me l’aspettavo, cara Carla. Non così presto. Poche ore fa. Dopo un anno e mezzo su di un letto di dolore che tu hai sopportato con grinta e sorriso. E così ti conservo nella memoria, ricordando qualcosa di Franco Fortini. Grinta e sorriso, come è giusto che sia per un dirigente vero. Ma tu – l’ho sempre pensato e lo ho anche sussurrato in qualche occasione informale – avevi una marcia in più rispetto a “un dirigente vero” perché eri una dirigente vera. Tanti oggi dicono, giustamente, che sei stata una grande donna. E lo sei stata non solo per la tua attenzione, di più, compenetrazione con il tema storico dell’emancipazione femminile, ma specialmente perché hai governato l’Anpi mettendo a valore punto di vista, sensibilità, attenzione, energia, visione di prospettiva di una donna. Per questa sei stata grande.
Un anno e mezzo di telefonate in cui, nonostante la sofferenza del tuo corpo, hai a tutti gli effetti diretto l’Anpi, affinché da essere una grande associazione, divenisse – come è diventata – un’associazione più grande.
In quanto femminile, la tua sensibilità era – e non poteva essere diversamente – moderna, predisposta cioè a scrutare l’orizzonte verso cui si muove la nostra associazione. Da ciò la costante attenzione verso le giovani generazioni, mai tracimata in giovanilismo, la tua avversione ad ogni rischio di burocratizzazione, senza però mettere in discussione il rigore organizzativo, la tua strenua propensione per l’unità, unità antifascista, unità antirazzista, unità democratica, contro la piega della politica identitaria che diventa apologia della solitudine, l’abbandono della lotta condivisa, lo smarrimento del giorno per giorno che tampona ma non risolve perché non guarda lontano. L’unità: tu sei stata alla testa della progressiva mobilitazione antirazzista di questi anni, hai parlato alla grande manifestazione del movimento delle sardine a Roma nel 2019, seguita dai mille e mille presenti che hanno intonato “Bella Ciao”. Sei stata una “politica” per la capacità che avevi di interpretare le situazioni fornendo a ciascuna la risposta più conseguente. E in tutto ciò – ancora – sei stata una donna, col tuo bagaglio di sensibilità e di emozioni, con le tue esperienze di felicità ed infelicità.
Non me l’aspettavo così presto, anche se sapevo che nelle ultime settimane ti eri indebolita. Ma ciò che mi colpiva, che penso colpiva tutti, è che non ti sei mai arresa, piegata, rassegnata. Sei stata una antifascista anche così, esistenzialmente, perché fino all’ultimo hai combattuto. Ma avevi delle particolarità? Certo che avevi delle particolarità! Dio ci scampi dalle commemorazioni retoriche, dai coccodrilli imbalsamati che per prima tu avresti rigettato, presumo ridendo. Particolarità, come tutti noi, come tutti coloro che ti hanno preceduto e che ti succederanno. Quante volte, parlando con me, aprivi delle parentesi allontanandoti dal tema della discussione e divagando, per poi riprendere il filo della discussione e darmi la risposta o condividendo la domanda di partenza! Ed era dolce per me ascoltarti e interloquire, perché era un modo femminile, di più, umano di affrontare questioni anche spinose. E poi, assieme alla dolcezza, c’era la severità che alle volte mi pareva addirittura eccessiva, per questa o quella situazione, per questo o quel comportamento. Dolce e severa come forse erano la partigiane. E i partigiani. Perché il tuo problema, come – penso – il problema di tutti noi, era quello di dimostrarsi sempre all’altezza di quelle donne e di quegli uomini di cui l’Anpi è testimonianza e memoria attiva. Antifascismo come categoria dello spirito, cioè, per dirla terra terra, come qualità e valori interiori e collettivi: ecco, tu davvero rappresentavi e interpretavi questo antifascismo di oggi davanti all’incalzare dell’inedita ondata dalle tante sfumature di nero, e ti arrovellavi assieme a tutti noi (più di tutti noi) non solo per rafforzarlo come fondamento repubblicano, ma anche per trasformarlo ogni giorno in codici civili, norme condivise, ragioni di coesione sociale.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Carla Nespolo, nel corso di un incontro lo scorso anno (foto Imagoeconomica)
Sai, poco fa il Presidente Mattarella ha parlato di te, definendoti nel modo più semplice e giusto: “Una fervida sostenitrice dei valori della Costituzione”.
Grinta e sorriso, Carla. Eri grinta e sorriso. E tutto ciò dimostrava in trasparenza, a ben vedere, una manifestazione di affetto verso di noi, verso le iscritte e gli iscritti all’Anpi, verso gli antifascisti, verso l’umanità. Un sentimento. Certo, il sentimento non può sostituire la ragione. Diventa sentimentalismo. Ma la ragione senza sentimento è cieca, alienata ed alienante, perché non coglie la totalità della realtà, in cui inesorabilmente una ragione separata e astratta diventa fredda e cinica e lunare perché, per capire la realtà, occorre indagare sul dolore.
Ciao compagna Carla. Ciao partigiana. Ciao Presidente. Ciao grande donna. Tu sai bene quanto mi manchi, quanto ci manchi. Ed ecco la memoria di Franco Fortini, il suo grido di allora nel deserto che oggi stiamo attraversando: “Noi siamo gli ultimi di un tempo che nel suo male sparirà. Qui l’avvenire è già presente, chi ha compagni non morirà”.
PUBBLICATO LUNEDÌ 5 OTTOBRE 2020
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ANPI TRAPANI
E’ con immenso dolore e profondo sgomento che L’ ANPI della provincia di Trapani saluta Carla Nespolo, dal 2017 prima donna Presidente Nazionale, nonché primo presidente non partigiano eletto a questa carica. La sua scomparsa priva non solo l’Anpi, ma la società civile tutta di un chiaro simbolo di antifascismo, cultura e grande impegno civile in difesa degli ideali di Libertà e Democrazia promuovendoli soprattutto fra i giovani e le nuove generazioni e dedicando una particolare attenzione alla tutela delle donne e dei loro diritti. In sua memoria continueremo, ricordando con grande affetto, profonda ammirazione e sincera riconoscenza, anche per la particolare considerazione che ha riservato all’Anpi siciliana. Ciao Carla, che la terra ti sia lieve.
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SEZIONE ANPI SANGUEDOLCE SOMMATINO
La sezione Sanguedolce di Sommatino si unisce al cordoglio di tutti i compagni per la perdita della nostra Presidente Carla Nespolo. Giuseppe Carusotto
Fw: COMUNICATO DELLA CARITAS DIOCESANA CON L’UFFICIO MIGRANTES DELLA DIOCESI DI PALERMO.
-UFFICIO MIGRANTES DELLA DIOCESI DI PALERMO
La Caritas Diocesana di Palermo con l’Ufficio Migrantes esprimono forte preoccupazione e fermo dissenso nei confronti dell’Ordinanza n. 33 del 22 agosto 2020 emanata dal Presidente della Regione Sicilia On. Nello Musumeci. Ciò che preoccupa nel testo del provvedimento, e nelle dichiarazioni rese alla stampa per presentarlo, è l’argomentazione solo in apparenza logica ma in realtà deficitaria sul piano razionale, nonché su quello umano ed evangelico.
L’Ordinanza parte in verità da una costatazione del tutto condivisibile, mettendo in luce l’enorme disagio in cui versano oggi sia la popolazione siciliana, sia i migranti affluiti sulle nostre coste in questi mesi estivi. I motivi: penuria di strutture idonee all’accoglienza, assenza di servizi adeguati, mancata redistribuzione in ottemperanza agli accordi europei, deresponsabilizzazione degli altri Stati membri della CEE, fughe da hotspot e centri sovraffollati.
Ma già a questo livello la lettura del fenomeno si rivela fuorviante. Il disagio, il dolore, la fatica vengono giustamente attribuiti agli abitanti delle nostre isole senza prendere però in considerazione anche lo stato e il destino di migliaia di donne, di bambini e di uomini in fuga dalla fame e dalle guerre, che concludono in Sicilia, in maniera indegna, un lungo esodo in cerca di libertà e di vita buona. Come ha fatto notare a più riprese Papa Francesco, se dividiamo l’umanità in persone di serie A e di serie B, se non ci facciamo carico del dolore di tutti, siamo destinati al fallimento umano e politico.
Infatti, la conseguenza logica di questa situazione dovrebbe essere una serie di atti amministrativi e legislativi volti a coniugare sicurezza e solidarietà, a tutelare i Siciliani e ad accogliere in maniera dignitosa i più poveri della terra. L’Ordinanza invece sceglie la via dell’ennesima negazione del diritto umano alla mobilità, la via mistificante di una nuova cosciente discriminazione.
Tutti ricordano come la Regione Sicilia aveva nei mesi scorsi, per bocca dello stesso Presidente, prefigurato misure di controllo severissime per i turisti orientati a trascorrere le loro ferie in Sicilia (trovandosi tra costoro, anche persone provenienti da paesi ad alta diffusione primaria del covid). Di quel che fu preannunziato a maggio finora non si è visto nulla, né si sono messi in atto protocolli di sicurezza volti ad evitare assembramenti o altre forme di pericolosa promiscuità.
Ma se coloro che provengono dai paesi del Nord del mondo, interessati fortemente dal coronavirus, possono muoversi ed entrare liberamente in Sicilia, perché i migranti no? Al contrario, quanti provengono dai paesi del Sud del mondo, quanti sono sottoposti giornalmente allo sfruttamento dell’Occidente, quanti hanno ‘ricevuto’ il covid dal Nord del pianeta, come una ennesima piaga, costoro no, non possono muoversi liberamente: rappresentano un pericolo sanitario. I poveri sono dunque pericolosi, devono essere discriminati, mentre proprio il covid ci ha insegnato che di fronte alla malattia siamo tutti uguali, che il virus non distingue i ricchi dai poveri, e si diffonde tra gli uni e tra gli altri, a causa degli uni e a causa degli altri, senza differenze di sorta. Il nostro Arcivescovo, Mons. Corrado Lorefice durante il discorso alla Città del Festino di S. Rosalia il 14 luglio scorso ha ribadito: “Se il virus non ci ha insegnato che il destino del mondo è uno solo, che ci salveremo o periremo assieme; se la pandemia ci ha resi ancora più pavidi e calcolatori, facendoci credere di poter salvare il nostro posto al sole, siamo degli illusi, dei poveri disperati. Basta con gli stratagemmi internazionali, con i respingimenti, basta con le leggi omicide”.
Con l’Ordinanza del Presidente Musumeci si trasmette dunque, a nostro parere, un messaggio intimamente sbagliato e antropologicamente pericoloso. Intimamente sbagliato, perché si attribuisce ai migranti la responsabilità di una diffusione del contagio che casomai è da attribuire alla mancanza di protocolli e di misure adeguate a tutelare i cittadini dell’isola e chiunque venga in Sicilia dall’Italia e dall’estero. Antropologicamente pericoloso, perché equipara i poveri agli untori e divide ancora una volta l’umanità in due, inconsapevolmente preparando e non evitando la catastrofe planetaria che verrà da un mondo disunito e disumano. È incredibile – dopo anni di studi e di ricerche sull’invenzione del capro espiatorio quale forma di perversione sociale – come vengano ancor oggi propinate teorie di questo tipo, utili forse demagogicamente sul piano del consenso politico spicciolo ma umanamente ed evangelicamente inaccettabili. “Il Signore – ha affermato ieri papa Francesco all’Angelus – ci chiederà conto di tutti i migranti caduti nei viaggi della speranza. Sono stati vittime della cultura dello scarto”.
Solo l’abbraccio tra tutti gli uomini e l’abbraccio dell’umanità alla madre Terra potrà darci futuro e speranza.
Proprio ieri è decorso il settantacinquesimo anniversario della strage atomica di Hiroshima. Alle 8:16 del 6 agosto 1945 a Hiroshima un lampo accecante vaporizzò in un attimo 140.000 vite umane, condannando i sopravvissuti a sofferenze inenarrabili seguite in molti casi da una morte straziante. L’orrore fu reiterato tre giorni dopo a Nagasaky.
Da allora l’umanità non ha più sperimentato lo strazio di un’esplosione nucleare a cagione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, animata da un sano tabù (quello che Gunther Anders chiamò la coscienza nucleare), che ha costretto le potenze nucleari a non fare uso dell’arma atomica. Col passare del tempo, però, la memoria si sta indebolendo e si sta affievolendo anche la coscienza nucleare che pure in passato aveva dato luogo a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale. Tuttavia, proprio in questi giorni abbiamo sperimentato qualcosa di simile a una esplosione nucleare.
La terribile esplosione avvenuta il 4 agosto a Beirut è stata di una potenza tale da evocare il disastro che potrebbe provocare una bomba atomica. Si è alzato nel cielo un fungo rossastro simile a quello di Hiroshima e il boato è stato udito persino a Cipro, a oltre duecento chilometri di distanza. Tutta la zona del porto è stata distrutta e interi quartieri sono stati spazzati via dall’onda d’urto. Centinaia di morti, migliaia di feriti, 300.000 sfollati, tutte le riserve strategiche di grano del Libano andate perdute. La capitale, Beirut, il giorno dopo si è svegliata immersa nel sangue, nel caos e nella disperazione, in un incubo che il governatore, Marwan Abboud ha sintetizzato così: «Sembra quello che è successo a Hiroshima e Nagasaki».
Non si tratta di un paragone peregrino, il disastro di Beirut è stato provocato dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate in un magazzino del porto. Proviamo a convertire questa esplosione in kiloton, misura utilizzata per calcolare la potenza distruttrice di una testata nucleare in quantità equivalente di esplosivo (1 kiloton è equivalente a 1.000 tonnellate di tritolo). È stato calcolato che 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio sono equivalenti a 0,9 Kiloton, cioè a una testata nucleare di potenza medio bassa. Per essere più concreti, la potenza delle testate nucleari che verranno impiantate su bombe atomiche tattiche a gravità di nuova generazione, le B61-12, varia da 0,5 a 50 kiloton. Queste testate, nel silenzio della politica, verranno dispiegate nella base USA di Aviano e in quella dell’Aeronautica Militare Italiana a Ghedi, in sostituzione delle circa 70 bombe atomiche di vecchia generazione.
Pax Christi international ha diffuso in questa settimana un accorato appello sull’urgenza della messa al bando delle armi nucleari in epoca di Coronavirus: «In questi mesi l’intera famiglia umana è stata messa in ginocchio dal Coronavirus. Il bilancio globale delle vittime continua a crescere quotidianamente; la disperazione dell’umanità aumenta; gli effetti fisici, psicologici ed economici aumentano. Questa pandemia ha raggiunto praticamente tutti: abbiamo capito che siamo tutti vulnerabili e ci rendiamo conto che la vera sicurezza deve essere, in sostanza, condivisa. […] Le conseguenze dannose della pandemia Covid-19 impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare. […] La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. Il Coronavirus ha rappresentato un campanello d’allarme per il mondo. Stiamo sperimentando in prima persona come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria. Di fronte al Coronavirus, le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, come ammonisce la Croce Rossa Internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati. Né soccorritori esterni, nella misura in cui sopravvivessero, potrebbero accedere in sicurezza nelle zone esposte alle radiazioni».
In caso di attacco nucleare, prosegue il documento: «Né la terra, né alcuna delle sue creature, sarebbe risparmiata dall’avvelenamento prodotto dalla radioattività risultante da una guerra nucleare, anche se limitata. Le colture appassirebbero e morirebbero mentre la luce del sole sarebbe bloccata dalle nuvole atmosferiche di polvere prodotta. La vita sulla terra sarebbe messa in grave pericolo. Come comunità umana stiamo imparando delle dure lezioni sulla nostra sicurezza collettiva durante questa pandemia globale. È giunto il momento di affrontare la sfida e di cogliere l’opportunità per apportare le modifiche necessarie a salvaguardia del nostro futuro. Ma la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione per eliminare le armi nucleari dalla faccia della terra, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con la estinzione totale».
La richiesta è che l’Italia aderisca al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’assemblea generale dell’ONU il 7 luglio 2017, destinato a entrare in vigore quando vi avranno aderito almeno cinquanta Stati (attualmente sono una quarantina).
Conoscendo la fiera opposizione della NATO al disarmo nucleare e la tradizionale subalternità dell’Italia, ribadita anche dai nuovi governanti, non ci facciamo molte illusioni, ma non possiamo chinare il capo: che l’iniziativa di Pax Christi ci aiuti a rompere la cappa di silenzio e faccia emergere lo scandalo di una nazione che nei suoi princìpi fondamentali ripudia la guerra e nella condotta politica dei suoi governi accetta la dislocazione di armi di distruzione di massa che mettono in pericolo la vita stessa dell’umanità sulla terra.
Al grande libro degli oltraggi, oggi particolarmente di moda, si aggiunge una pagina del tutto nuova. Una pagina nera. Letteralmente. Si chiama “Piazza Almirante e Berlinguer”. Non è una fake. È la mozione approvata dal consiglio comunale di Terracina (Latina) per intitolare il piazzale antistante Villa Tommasini. 12 a favore, 8 astenuti, un voto contrario. In giunta, una lista civica con persone di Fratelli d’Italia. A nulla sono servite le ripetute prese di posizione dell’Anpi cittadina per contrastare questa decisione. Nell’ultima, in data 24 luglio, è scritto fra l’altro che “dedicare una piazza pubblica a Giorgio Almirante vuol dire celebrarlo e celebrare il fascismo. Consentire la celebrazione di Giorgio Almirante significa disattendere e violare il dettato della Costituzione”. E ancora, in un’altra nota: “Non si può parlare di senso dello Stato riferendosi a chi ha aderito fino alla fine ad una dittatura che ha caratterizzato il periodo peggiore del nostro Paese”; “un fascista è sempre un fascista, e nel nostro paese non può e non deve, come sottolinea anche la legge, esserne tramandato l’esempio”.
C’è da aggiungere che accostare questo nome a quello di Enrico Berlinguer ne segna una stomachevole violazione della memoria. È evidente che dietro tale scelta c’è l’idea miserabile di legittimare un’intera storia, quella del fascismo, attraverso l’equiparazione di due figure diametralmente opposte e inconciliabili, simbolo l’una del ventennio e della persistenza del fascismo nel secondo dopoguerra, e l’altra della lotta per l’attuazione della Costituzione e del contrasto irriducibile ed irreversibile ad ogni fascismo ed autoritarismo.
È il sudario di una presunta “definitiva pacificazione nazionale” (così definita dal consigliere Giuseppe Talone di Fratelli d’Italia, già candidato nel 1993 per il Msi), che mette nello stesso mazzo perseguitati e persecutori, vittime e carnefici, fascisti a antifascisti, razzisti e antirazzisti. La prossima sarà piazza Mussolini e Gramsci?
È superfluo ribadire le ben note responsabilità di Giorgio Almirante nel ventennio: dalle sue parole sul periodico “La difesa della razza”, di cui era segretario di redazione, al famoso bando da lui sottoscritto che minaccia la pena di morte “mediante fucilazione alla schiena” per i renitenti alla leva di Salò; ed anche le sue responsabilità successive, e cioè l’aver guidato per decenni il Msi, partito che incarnava la continuità col disciolto partito fascista. “Piazza Almirante e Berlinguer” è il compendio, l’epitome, di una serie di episodi di forzata rivalutazione del fascismo che oramai da anni avvelenano la vita pubblica dell’Italia.
È un evento orribile per Terracina, ma in realtà per tutto il Paese. Davanti ad uno sfregio alla coscienza civile degli italiani non ci possono essere mezze tinte. C’è bisogno di una voce unica e unita di tutte le forze democratiche antifasciste, c’è bisogno urgente di una scelta di parte, la parte della repubblica democratica e della Costituzione antifascista.
Era l’ultimo dei partigiani di questa provincia ancora vivo, l’ultima testimonianza di quel glorioso nuovo rinascimento italiano che fu la lotta partigiana per dare la democrazia al nostro Paese. Il partigiano Rosario Parrinello 102 anni, è morto la notte scorsa nella sua abitazione di Marsala. Lascia il ricordo della sua storia: operaio, neanche la quinta elementare, ancora giovanissimo, militare, l’8 settembre del 1943 non ci pensa due volte da che parte stare e si arruola nelle formazioni partigiane, divisione Garibaldi Nino Nannetti, brigata “Cacciatori delle Alpi” che ha operato nel Cadore. Come tutti i partigiani assume un nome di battaglia “Capitano”. Il partigiano Parrinello è stato tra i fondatori dell’ANPI di Marsala nel 1949. Con la rinascita della sezione ANPI di Marsala nel 2012 ha assunto la vice presidenza onoraria.
In un comunicato la presidenza provinciale dell’ANPI, associata alla sezione di Marsala, “rende onore al partigiano Rosario Parrinello, ne ricorda il suo eroismo ed il suo esempio da trasmettere ai giovani. L’ANPI, presente ai funerali del partigiano, inchina le sue bandiere nel suo ricordo ed esprime le sue condoglianze alla famiglia”. Si sono associati al cordoglio l’ANPI nazionale e il vice presidente nazionale dell’ANPI Ottavio Terranova anche a nome dell’ANPI Sicilia.
La Presidenza provinciale dell’Anpi
Alla stazione di Nizza, un’ora dopo il proclama di Badoglio alla radio, il primo atto di Resistenza è di un sottotenente siciliano: gravemente mutilato, sarà insignito della medaglia d’oro già nel 1947. Una figura da riscoprire e rivalutare
Sembrerebbe che nessuno abbia rilevato che la Resistenza armata italiana ha avuto inizio – da un punto di vista strettamente cronologico – la sera dell’8 settembre alla stazione centrale di Nizza. Il proclama dell’armistizio viene, com’è noto, diffuso dall’EIAR alle 19,42. Tra i militari italiani, la gioia è generale: “La guerra è finita!”, “Tutti a casa!”, ecc. I soldati del “Comando Militare di Stazione” manifestano l’intenzione di partire per l’Italia. Racconta il sottotenente Salvatore Bono, loro comandante in seconda: “Verso le 20,30, dovetti intervenire per convincerli che occorreva continuare a controllare lo snodo vitale nel quale prestavamo servizio ed ordinai l’armamento completo e lo stato d’allarme”. Richiese anche il rinforzo di una compagnia di fanteria.
Già in agosto, dal suo osservatorio privilegiato, Bono aveva intuito che le cose non stavano andando per il verso giusto. Assieme ai reparti della 4a armata che abbandonavano il territorio francese occupato, si lasciavano transitare in direzione di Ventimiglia unità tedesche che penetravano in Italia sulla base di piani ben precisi. Verso le 21, incontra il sottotenente Guido Di Tanna, gli illustra le proprie preoccupazioni: “Stanotte avverrà qualcosa di grave”, afferma, e si lamenta dello scarso senso di responsabilità del Comando di Piazza. Il commilitone commenta “É ammirevole come il giovanissimo ufficiale avesse il senso esatto delle cose e la capacità di comportarsi di conseguenza”.
Un paio d’ore dopo, in effetti, un commando di una sessantina di tedeschi provenienti, a piedi attraverso i binari, dal dipartimento del Var, giocando sull’effetto sorpresa, cerca di impadronirsi della stazione. Gli italiani, comandati dal capitano Breveglieri, tra soldati e carabinieri, non sono più di dieci. I tedeschi intimano la consegna delle armi, il capitano cerca di parlamentare con l’ufficiale comandante; dopo cinque minuti, interrompe la concitata quanto inutile discussione e impartisce ai suoi l’ordine “baionetta in canna!”. È il momento per Bono di passare all’azione, realizzando quanto aveva in mente sin dal 25 luglio. Diamogli la parola: “Come un fulmine, il fuoco della mia pistola rompe il gelo. Freddo l’ufficiale nemico, il suo caporale e ferisco due soldati. I tedeschi rispondono al fuoco ed uccidono Breveglieri. Scarico i rimanenti colpi della mia pistola sui nemici. É l’inferno, tutti si riparano dove possono e sparano. Io con quattro soldati mi rifugio in uno sgabuzzino. I quattro carabinieri, pur sparando contro i nemici, fuggono in direzione di una galleria. La stazione precipita nel silenzio e nel buio. Un maggiore tedesco con la pistola spianata viene ad esplorare lo sgabuzzino. Lo afferro per il collo mentre uno dei miei uomini lo disarma. I nemici rimasti fuori lanciano una granata che fa esplodere quella che io tenevo in mano con la sicura sganciata pronta per il lancio. Ho chiara coscienza che è la mia fine. Il dolore generale è tale che non riesco a percepire quello che proviene dalle ferite. Svengo pensando a mia madre”. Salvatore ha perso il braccio destro, l’occhio sinistro e parte della mascella. È trasportato all’ospedale Saint-Roch. L’indomani mattina, un alto ufficiale tedesco viene a far visita ai feriti. Osservando Bono, esclama: “Quest’ufficiale ha salvato l’onore dell’esercito italiano”. Di un esercito allo sbando, vien fatto di aggiungere.
Salvatore Bono ha 23 anni: è nato il 23 aprile 1920 a Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. Deve molto ai genitori: al padre Giuseppe, un contadino povero, che lo responsabilizza sin dalle elementari facendogli capire che l’impegno può far sì che la scuola si trasformi in ascensore sociale e alla madre Ninfa, l’angelo protettore di tutta una vita, che finisce per accettare con dignità la tragedia del figlio rispettandone le scelte. Dopo il diploma magistrale, frequenta il corso AUC ad Avellino (fanteria). Dal settembre 1941, presta servizio a Palmanova (UD), in Jugoslavia, a Trieste, a Postumia, a Torino e dal novembre 1942 al Costamiles di Nizza. Nel luglio 1944, dimesso dall’ospedale Saint-Roch, per sfuggire alle rappresaglie della Gestapo si reca in Italia. Nel dicembre lo ritroviamo a Stresa dove si arruola nella brigata partigiana Stefanoni. Nel 1947, mentre si trova in Sicilia presso la propria famiglia, riceve la notizia di essere stato insignito, cosa rarissima per un vivente, della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nella difesa del più importante centro logistico di un’armata, morto il suo capitano, assumeva il comando dei pochi superstiti. Aggredito da soverchianti forze nemiche in un ufficio del comando, freddava con colpi di pistola un ufficiale tedesco ed alcuni soldati, ponendo in fuga i rimanenti. In una successiva aggressione, trovatosi con la pistola scarica, impegnava una lotta selvaggia con pugni e morsi. Aiutato da un suo sottufficiale, immobilizzava un secondo ufficiale nemico che decedeva poco dopo. Mentre tentava di colpire con bombe a mano altri militari sopraggiunti, veniva investito in pieno da schegge di bombe lanciate dal nemico, che provocavano lo scoppio della bomba che teneva nella mano destra, già a sicurezza sfilata e pronta per il lancio. Crivellato dalle schegge, cieco, privo della mano destra, veniva ricoverato in ospedale ove con stoicismo, che solo i prodi e gli audaci possiedono, senza un lamento sopportava l’amputazione dell’avambraccio destro, l’enucleazione dell’occhio sinistro ed altri dolorosissimi atti operatori. Magnifico esempio di alte virtù militari e di suprema dedizione alla Patria. Nizza (Francia), 8 settembre 1943».
Nello stesso anno 1947, completata la terapia post-traumatica, Bono viene assunto presso il ministero degli Esteri. Opta per la sede consolare di Nizza dove assumerà servizio in settembre non appena la struttura sarà riaperta e dove rimarrà per trent’anni, fino alla pensione. Lo si ricorda come molto disponibile nei confronti dei bisogni dei connazionali e in particolare degli italiani profughi dalle colonie maghrebine. É molto attivo nella ricucitura dei rapporti tra le due “sorelle latine” che la pugnalata mussoliniana aveva gravemente corroso e partecipa con entusiasmo al processo di costruzione della Comunità Europea. Suo collega in Consolato è un altro siciliano, lo scrittore Antonio Aniante, un ex fascista non del tutto pentito; purtroppo non possediamo informazioni sul tipo di coabitazione che si istaurò tra di loro. Ogni anno, l’8 settembre si reca alla stazione cittadina dove confluiscono ferrovieri, ex combattenti ed antifascisti assieme ai quali commemora l’evento del 1943. Riprende gli studi universitari laureandosi in Pedagogia all’Università di Genova.
Andato in pensione, torna a Campobello vivendo non lontano dalla magnifica spiaggia selinuntina che aveva visto i suoi giochi infantili. Si dedica con successo alla pittura e non manca di fare la spola con la sua amata Nizza. Talvolta confessa agli amici l’amarezza della solitudine poiché, a causa delle sue mutilazioni, nessuna donna ha voluto condividere con lui la propria vita. C’è chi in Sicilia, suggerisce al giunco che cresce sul letto dei torrenti di farsi da parte all’arrivo della piena: “Càlati juncu ca passa la china”. Una visione opportunista che Salvatore, come tanti altri siciliani, non accettava. “Ho fatto solo il mio dovere pagando il prezzo che bisognava pagare”, amava affermare. Morì il 28 maggio 1999 all’età 79 anni.
La memoria orale è, come si sa, volatile. A parte gli storici, oggi quasi nessuno a Nizza si ricorda di Salvatore Bono. Sembra dunque opportuno che la neonata locale sezione dell’Anpi gli sia intitolata (o cointitolata, se si crede), che si richieda al Comune di apporre una lapide alla stazione centrale e che l’8 settembre di ogni anno si commemori la sua memorabile impresa.
Enzo Barnabà, scrittore e ricercatore
Fonti:
Baldassarre Ingrassia, “Salvatore Bono”, Litografia Buffa, Mazara del Vallo, 2005;
Jean-Louis Panicacci, “L’Occupation italienne. Sud-Est de la France, juin 1940-septembre 1945”, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2010.
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