Da Hiroshima a Beirut

Da Hiroshima a Beirut

Proprio ieri è decorso il settantacinquesimo anniversario della strage atomica di Hiroshima. Alle 8:16 del 6 agosto 1945 a Hiroshima un lampo accecante vaporizzò in un attimo 140.000 vite umane, condannando i sopravvissuti a sofferenze inenarrabili seguite in molti casi da una morte straziante. L’orrore fu reiterato tre giorni dopo a Nagasaky.

Da allora l’umanità non ha più sperimentato lo strazio di un’esplosione nucleare a cagione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, animata da un sano tabù (quello che Gunther Anders chiamò la coscienza nucleare), che ha costretto le potenze nucleari a non fare uso dell’arma atomica. Col passare del tempo, però, la memoria si sta indebolendo e si sta affievolendo anche la coscienza nucleare che pure in passato aveva dato luogo a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale. Tuttavia, proprio in questi giorni abbiamo sperimentato qualcosa di simile a una esplosione nucleare.

La terribile esplosione avvenuta il 4 agosto a Beirut è stata di una potenza tale da evocare il disastro che potrebbe provocare una bomba atomica. Si è alzato nel cielo un fungo rossastro simile a quello di Hiroshima e il boato è stato udito persino a Cipro, a oltre duecento chilometri di distanza. Tutta la zona del porto è stata distrutta e interi quartieri sono stati spazzati via dall’onda d’urto. Centinaia di morti, migliaia di feriti, 300.000 sfollati, tutte le riserve strategiche di grano del Libano andate perdute. La capitale, Beirut, il giorno dopo si è svegliata immersa nel sangue, nel caos e nella disperazione, in un incubo che il governatore, Marwan Abboud ha sintetizzato così: «Sembra quello che è successo a Hiroshima e Nagasaki».

Non si tratta di un paragone peregrino, il disastro di Beirut è stato provocato dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate in un magazzino del porto. Proviamo a convertire questa esplosione in kiloton, misura utilizzata per calcolare la potenza distruttrice di una testata nucleare in quantità equivalente di esplosivo (1 kiloton è equivalente a 1.000 tonnellate di tritolo). È stato calcolato che 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio sono equivalenti a 0,9 Kiloton, cioè a una testata nucleare di potenza medio bassa. Per essere più concreti, la potenza delle testate nucleari che verranno impiantate su bombe atomiche tattiche a gravità di nuova generazione, le B61-12, varia da 0,5 a 50 kiloton. Queste testate, nel silenzio della politica, verranno dispiegate nella base USA di Aviano e in quella dell’Aeronautica Militare Italiana a Ghedi, in sostituzione delle circa 70 bombe atomiche di vecchia generazione.

Pax Christi international ha diffuso in questa settimana un accorato appello sull’urgenza della messa al bando delle armi nucleari in epoca di Coronavirus: «In questi mesi l’intera famiglia umana è stata messa in ginocchio dal Coronavirus. Il bilancio globale delle vittime continua a crescere quotidianamente; la disperazione dell’umanità aumenta; gli effetti fisici, psicologici ed economici aumentano. Questa pandemia ha raggiunto praticamente tutti: abbiamo capito che siamo tutti vulnerabili e ci rendiamo conto che la vera sicurezza deve essere, in sostanza, condivisa. […] Le conseguenze dannose della pandemia Covid-19 impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare. […] La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. Il Coronavirus ha rappresentato un campanello d’allarme per il mondo. Stiamo sperimentando in prima persona come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria. Di fronte al Coronavirus, le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, come ammonisce la Croce Rossa Internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati. Né soccorritori esterni, nella misura in cui sopravvivessero, potrebbero accedere in sicurezza nelle zone esposte alle radiazioni».

In caso di attacco nucleare, prosegue il documento: «Né la terra, né alcuna delle sue creature, sarebbe risparmiata dall’avvelenamento prodotto dalla radioattività risultante da una guerra nucleare, anche se limitata. Le colture appassirebbero e morirebbero mentre la luce del sole sarebbe bloccata dalle nuvole atmosferiche di polvere prodotta. La vita sulla terra sarebbe messa in grave pericolo. Come comunità umana stiamo imparando delle dure lezioni sulla nostra sicurezza collettiva durante questa pandemia globale. È giunto il momento di affrontare la sfida e di cogliere l’opportunità per apportare le modifiche necessarie a salvaguardia del nostro futuro. Ma la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione per eliminare le armi nucleari dalla faccia della terra, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con la estinzione totale».

La richiesta è che l’Italia aderisca al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’assemblea generale dell’ONU il 7 luglio 2017, destinato a entrare in vigore quando vi avranno aderito almeno cinquanta Stati (attualmente sono una quarantina).

Conoscendo la fiera opposizione della NATO al disarmo nucleare e la tradizionale subalternità dell’Italia, ribadita anche dai nuovi governanti, non ci facciamo molte illusioni, ma non possiamo chinare il capo: che l’iniziativa di Pax Christi ci aiuti a rompere la cappa di silenzio e faccia emergere lo scandalo di una nazione che nei suoi princìpi fondamentali ripudia la guerra e nella condotta politica dei suoi governi accetta la dislocazione di armi di distruzione di massa che mettono in pericolo la vita stessa dell’umanità sulla terra.

Se non ora, quando?

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Pagliarulo: la provocazione fascista di Piazza Almirante Berlinguer a Terracina

Piazza Almirante e Berlinguer. Non è una fake

L’oltraggiosa decisione da parte del consiglio comunale di Terracina. La protesta dell’Anpi cittadina

   

enrico berlinguer
Da https://www.enricoberlinguer.it/ 2014/02/12/berlinguer-il-fascino-della-diversita/?doing_wp_cron= 1596027306.5777289867401123046875

Al grande libro degli oltraggi, oggi particolarmente di moda, si aggiunge una pagina del tutto nuova. Una pagina nera. Letteralmente. Si chiama “Piazza Almirante e Berlinguer”. Non è una fake. È la mozione approvata dal consiglio comunale di Terracina (Latina) per intitolare il piazzale antistante Villa Tommasini. 12 a favore, 8 astenuti, un voto contrario. In giunta, una lista civica con persone di Fratelli d’Italia. A nulla sono servite le ripetute prese di posizione dell’Anpi cittadina per contrastare questa decisione. Nell’ultima, in data 24 luglio, è scritto fra l’altro che “dedicare una piazza pubblica a Giorgio Almirante vuol dire celebrarlo e celebrare il fascismo. Consentire la celebrazione di Giorgio Almirante significa disattendere e violare il dettato della Costituzione”. E ancora, in un’altra nota: “Non si può parlare di senso dello Stato riferendosi a chi ha aderito fino alla fine ad una dittatura che ha caratterizzato il periodo peggiore del nostro Paese”; “un fascista è sempre un fascista, e nel nostro paese non può e non deve, come sottolinea anche la legge, esserne tramandato l’esempio”.

C’è da aggiungere che accostare questo nome a quello di Enrico Berlinguer ne segna una stomachevole violazione della memoria. È evidente che dietro tale scelta c’è l’idea miserabile di legittimare un’intera storia, quella del fascismo, attraverso l’equiparazione di due figure diametralmente opposte e inconciliabili, simbolo l’una del ventennio e della persistenza del fascismo nel secondo dopoguerra, e l’altra della lotta per l’attuazione della Costituzione e del contrasto irriducibile ed irreversibile ad ogni fascismo ed autoritarismo.

È il sudario di una presunta “definitiva pacificazione nazionale” (così definita dal consigliere Giuseppe Talone di Fratelli d’Italia, già candidato nel 1993 per il Msi), che mette nello stesso mazzo perseguitati e persecutori, vittime e carnefici, fascisti a antifascisti, razzisti e antirazzisti. La prossima sarà piazza Mussolini e Gramsci?

È superfluo ribadire le ben note responsabilità di Giorgio Almirante nel ventennio: dalle sue parole sul periodico “La difesa della razza”, di cui era segretario di redazione, al famoso bando da lui sottoscritto che minaccia la pena di morte “mediante fucilazione alla schiena” per i renitenti alla leva di Salò; ed anche le sue responsabilità successive, e cioè l’aver guidato per decenni il Msi, partito che incarnava la continuità col disciolto partito fascista. “Piazza Almirante e Berlinguer” è il compendio, l’epitome, di una serie di episodi di forzata rivalutazione del fascismo che oramai da anni avvelenano la vita pubblica dell’Italia.

È un evento orribile per Terracina, ma in realtà per tutto il Paese. Davanti ad uno sfregio alla coscienza civile degli italiani non ci possono essere mezze tinte. C’è bisogno di una voce unica e unita di tutte le forze democratiche antifasciste, c’è bisogno urgente di una scelta di parte, la parte della repubblica democratica e della Costituzione antifascista.

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Ricordiamo il Partigiano Rosario Parrinello Marsala

 

Era l’ultimo dei partigiani di questa provincia ancora vivo, l’ultima testimonianza di quel glorioso nuovo rinascimento italiano che fu la lotta partigiana per dare la democrazia al nostro Paese. Il partigiano Rosario Parrinello 102 anni, è morto la notte scorsa nella sua abitazione di Marsala. Lascia il ricordo della sua storia: operaio, neanche la quinta elementare, ancora giovanissimo, militare, l’8 settembre del 1943 non ci pensa due volte da che parte stare e si arruola nelle formazioni partigiane, divisione Garibaldi Nino Nannetti, brigata “Cacciatori delle Alpi” che ha operato nel Cadore. Come tutti i partigiani assume un nome di battaglia “Capitano”. Il partigiano Parrinello è stato tra i fondatori dell’ANPI di Marsala nel 1949. Con la rinascita della sezione ANPI di Marsala nel 2012 ha assunto la vice presidenza onoraria.
In un comunicato la presidenza provinciale dell’ANPI, associata alla sezione di Marsala, “rende onore al partigiano Rosario Parrinello, ne ricorda il suo eroismo ed il suo esempio da trasmettere ai giovani. L’ANPI, presente ai funerali del partigiano, inchina le sue bandiere nel suo ricordo ed esprime le sue condoglianze alla famiglia”. Si sono associati al cordoglio l’ANPI nazionale e il vice presidente nazionale dell’ANPI Ottavio Terranova anche a nome dell’ANPI Sicilia.
La Presidenza provinciale dell’Anpi

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Aldo Virzì

 

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ENZO BARNABA’ L’8 settembre di Salvatore Bono

L’8 settembre di Salvatore Bono

Alla stazione di Nizza, un’ora dopo il proclama di Badoglio alla radio, il primo atto di Resistenza è di un sottotenente siciliano: gravemente mutilato, sarà insignito della medaglia d’oro già nel 1947. Una figura da riscoprire e rivalutare

 

salvatore bono partigiano siciliano
Salvatore Bono, la medaglia d’oro al valor militare appuntata al petto

Sembrerebbe che nessuno abbia rilevato che la Resistenza armata italiana ha avuto inizio – da un punto di vista strettamente cronologico – la sera dell’8 settembre alla stazione centrale di Nizza. Il proclama dell’armistizio viene, com’è noto, diffuso dall’EIAR alle 19,42. Tra i militari italiani, la gioia è generale: “La guerra è finita!”, “Tutti a casa!”, ecc. I soldati del “Comando Militare di Stazione” manifestano l’intenzione di partire per l’Italia. Racconta il sottotenente Salvatore Bono, loro comandante in seconda: “Verso le 20,30, dovetti intervenire per convincerli che occorreva continuare a controllare lo snodo vitale nel quale prestavamo servizio ed ordinai l’armamento completo e lo stato d’allarme”. Richiese anche il rinforzo di una compagnia di fanteria.

Già in agosto, dal suo osservatorio privilegiato, Bono aveva intuito che le cose non stavano andando per il verso giusto. Assieme ai reparti della 4a armata che abbandonavano il territorio francese occupato, si lasciavano transitare in direzione di Ventimiglia unità tedesche che penetravano in Italia sulla base di piani ben precisi. Verso le 21, incontra il sottotenente Guido Di Tanna, gli illustra le proprie preoccupazioni: “Stanotte avverrà qualcosa di grave”, afferma, e si lamenta dello scarso senso di responsabilità del Comando di Piazza. Il commilitone commenta “É ammirevole come il giovanissimo ufficiale avesse il senso esatto delle cose e la capacità di comportarsi di conseguenza”.

Un paio d’ore dopo, in effetti, un commando di una sessantina di tedeschi provenienti, a piedi attraverso i binari, dal dipartimento del Var, giocando sull’effetto sorpresa, cerca di impadronirsi della stazione. Gli italiani, comandati dal capitano Breveglieri, tra soldati e carabinieri, non sono più di dieci. I tedeschi intimano la consegna delle armi, il capitano cerca di parlamentare con l’ufficiale comandante; dopo cinque minuti, interrompe la concitata quanto inutile discussione e impartisce ai suoi l’ordine “baionetta in canna!”. È il momento per Bono di passare all’azione, realizzando quanto aveva in mente sin dal 25 luglio. Diamogli la parola: “Come un fulmine, il fuoco della mia pistola rompe il gelo. Freddo l’ufficiale nemico, il suo caporale e ferisco due soldati. I tedeschi rispondono al fuoco ed uccidono Breveglieri. Scarico i rimanenti colpi della mia pistola sui nemici. É l’inferno, tutti si riparano dove possono e sparano. Io con quattro soldati mi rifugio in uno sgabuzzino. I quattro carabinieri, pur sparando contro i nemici, fuggono in direzione di una galleria. La stazione precipita nel silenzio e nel buio. Un maggiore tedesco con la pistola spianata viene ad esplorare lo sgabuzzino. Lo afferro per il collo mentre uno dei miei uomini lo disarma. I nemici rimasti fuori lanciano una granata che fa esplodere quella che io tenevo in mano con la sicura sganciata pronta per il lancio. Ho chiara coscienza che è la mia fine. Il dolore generale è tale che non riesco a percepire quello che proviene dalle ferite. Svengo pensando a mia madre”. Salvatore ha perso il braccio destro, l’occhio sinistro e parte della mascella. È trasportato all’ospedale Saint-Roch. L’indomani mattina, un alto ufficiale tedesco viene a far visita ai feriti. Osservando Bono, esclama: “Quest’ufficiale ha salvato l’onore dell’esercito italiano”. Di un esercito allo sbando, vien fatto di aggiungere.

Il giovane Salvatore Bono, sottotenente ai tempi dell'armistizio
Il giovane Salvatore Bono, sottotenente ai tempi dell’armistizio

Salvatore Bono ha 23 anni: è nato il 23 aprile 1920 a Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. Deve molto ai genitori: al padre Giuseppe, un contadino povero, che lo responsabilizza sin dalle elementari facendogli capire che l’impegno può far sì che la scuola si trasformi in ascensore sociale e alla madre Ninfa, l’angelo protettore di tutta una vita, che finisce per accettare con dignità la tragedia del figlio rispettandone le scelte. Dopo il diploma magistrale, frequenta il corso AUC ad Avellino (fanteria). Dal settembre 1941, presta servizio a Palmanova (UD), in Jugoslavia, a Trieste, a Postumia, a Torino e dal novembre 1942 al Costamiles di Nizza. Nel luglio 1944, dimesso dall’ospedale Saint-Roch, per sfuggire alle rappresaglie della Gestapo si reca in Italia. Nel dicembre lo ritroviamo a Stresa dove si arruola nella brigata partigiana Stefanoni. Nel 1947, mentre si trova in Sicilia presso la propria famiglia, riceve la notizia di essere stato insignito, cosa rarissima per un vivente, della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nella difesa del più importante centro logistico di un’armata, morto il suo capitano, assumeva il comando dei pochi superstiti. Aggredito da soverchianti forze nemiche in un ufficio del comando, freddava con colpi di pistola un ufficiale tedesco ed alcuni soldati, ponendo in fuga i rimanenti. In una successiva aggressione, trovatosi con la pistola scarica, impegnava una lotta selvaggia con pugni e morsi. Aiutato da un suo sottufficiale, immobilizzava un secondo ufficiale nemico che decedeva poco dopo. Mentre tentava di colpire con bombe a mano altri militari sopraggiunti, veniva investito in pieno da schegge di bombe lanciate dal nemico, che provocavano lo scoppio della bomba che teneva nella mano destra, già a sicurezza sfilata e pronta per il lancio. Crivellato dalle schegge, cieco, privo della mano destra, veniva ricoverato in ospedale ove con stoicismo, che solo i prodi e gli audaci possiedono, senza un lamento sopportava l’amputazione dell’avambraccio destro, l’enucleazione dell’occhio sinistro ed altri dolorosissimi atti operatori. Magnifico esempio di alte virtù militari e di suprema dedizione alla Patria. Nizza (Francia), 8 settembre 1943».

Nello stesso anno 1947, completata la terapia post-traumatica, Bono viene assunto presso il ministero degli Esteri. Opta per la sede consolare di Nizza dove assumerà servizio in settembre non appena la struttura sarà riaperta e dove rimarrà per trent’anni, fino alla pensione. Lo si ricorda come molto disponibile nei confronti dei bisogni dei connazionali e in particolare degli italiani profughi dalle colonie maghrebine. É molto attivo nella ricucitura dei rapporti tra le due “sorelle latine” che la pugnalata mussoliniana aveva gravemente corroso e partecipa con entusiasmo al processo di costruzione della Comunità Europea. Suo collega in Consolato è un altro siciliano, lo scrittore Antonio Aniante, un ex fascista non del tutto pentito; purtroppo non possediamo informazioni sul tipo di coabitazione che si istaurò tra di loro. Ogni anno, l’8 settembre si reca alla stazione cittadina dove confluiscono ferrovieri, ex combattenti ed antifascisti assieme ai quali commemora l’evento del 1943. Riprende gli studi universitari laureandosi in Pedagogia all’Università di Genova.

Andato in pensione, torna a Campobello vivendo non lontano dalla magnifica spiaggia selinuntina che aveva visto i suoi giochi infantili. Si dedica con successo alla pittura e non manca di fare la spola con la sua amata Nizza. Talvolta confessa agli amici l’amarezza della solitudine poiché, a causa delle sue mutilazioni, nessuna donna ha voluto condividere con lui la propria vita. C’è chi in Sicilia, suggerisce al giunco che cresce sul letto dei torrenti di farsi da parte all’arrivo della piena: “Càlati juncu ca passa la china”. Una visione opportunista che Salvatore, come tanti altri siciliani, non accettava. “Ho fatto solo il mio dovere pagando il prezzo che bisognava pagare”, amava affermare. Morì il 28 maggio 1999 all’età 79 anni.

La memoria orale è, come si sa, volatile. A parte gli storici, oggi quasi nessuno a Nizza si ricorda di Salvatore Bono. Sembra dunque opportuno che la neonata locale sezione dell’Anpi gli sia intitolata (o cointitolata, se si crede), che si richieda al Comune di apporre una lapide alla stazione centrale e che l’8 settembre di ogni anno si commemori la sua memorabile impresa.

Enzo Barnabà, scrittore e ricercatore


Fonti:

Baldassarre Ingrassia, “Salvatore Bono”, Litografia Buffa, Mazara del Vallo, 2005;

Jean-Louis Panicacci, “L’Occupation italienne. Sud-Est de la France, juin 1940-septembre 1945”, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2010.

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Il filonazi Samonà scivola sulla copia e sul capitello

L’assessore siciliano

Il filonazi Samonà scivola sulla copia e sul capitello

Due comunicati entusiasti, il primo per festeggiare “l’eccezionale ritrovamento” di un capitello greco a Gela, durante i lavori di sistemazione della rete elettrica, il secondo per annunciare il restauro del Telamone, antico gigante in pietra realizzato dai greci, ospitato ad Agrigento nel tempio di Zeus rischiano di arricchire la collezione di gaffe del neo assessore […]

di Giuseppe Lo Bianco

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Ha subito una battuta d’arresto il progetto del governo israeliano di annettersi il 30% del territorio della Cisgiordania

Boicottaggio e sanzioni: discorso d’odio o d’amore?

Ha subito una battuta d’arresto il progetto del governo israeliano di annettersi il 30% del territorio della Cisgiordania che doveva essere messo in cantiere a partire dal primo luglio. Probabilmente è mancato il via libera di Trump che, stretto fra la ripresa galoppante della pandemia negli USA e le proteste seguite all’omicidio di George Perry Floyd, ha ben altre preoccupazioni in questo momento. Però non possiamo considerare irrilevanti le proteste delle organizzazioni internazionali e delle associazioni che si battono per i diritti umani da cui emerge  una sempre più pressante richiesta di sanzioni internazionali per responsabilizzare il governo di Israele ed evitare quest’ulteriore strappo alla legalità internazionale.  In questo contesto acquista grande rilievo il recente intervento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che, con la sentenza Baldassi ed altri contro la Francia, depositata l’11 giugno, ha posto la parola fine ad un equivoco che per troppo tempo aveva agitato il mondo politico riconoscendo la piena legittimità della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) nei confronti di Israele. Il tema affrontato dalla Corte EDU impattava una questione delicata, quella dei limiti della libertà d’espressione a fronte di messaggi o di iniziative politiche di incitamento all’odio o alla discriminazione, questione tanto più attuale in questo momento storico caratterizzato da rigurgiti di razzismo cavalcato da movimenti politici di ispirazione neofascista o neonazista.

Da tale punto di vista la Corte Europea dei Diritti Umani aveva già  ben tracciato i confini della libertà di espressione in relazione a messaggi d’odio o discriminatori. Attraverso una consolidata giurisprudenza la Corte aveva categoricamente escluso che la libertà di espressione, principio cardine di ogni società democratica, potesse tutelare i messaggi d’odio (hate speeches) e di incitamento alla violenza o alla discriminazione,  ritenendo, invece, legittimo e necessario l’intervento punitivo nei confronti degli odiatori.  Forte di questa sua competenza la Corte non ha avuto difficoltà a condannare la Francia per l’assurda condanna di un gruppo di militanti del movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) che aveva distribuito dei volantini in un supermercato invitando i consumatori a non acquistare prodotti israeliani. La Corte ha concluso la sua valutazione sulla liceità dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani sottolineando che il rispetto del diritto internazionale pubblico da parte di Israele e la situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati sono argomenti di interesse generale, che fanno parte del dibattito contemporaneo che si sta svolgendo in Francia come in tutta la comunità internazionale.

La sentenza Baldassi è particolarmente significativa perché restituisce alla libertà del dibattito pubblico tutte le iniziative politiche volte a contrastare, con metodi pacifici e non violenti, le ricorrenti violazioni del diritto internazionale dei diritti umani commessi dallo Stato di Israele e a rendere edotta l’opinione pubblica delle questioni in campo. In particolare questa sentenza è importante perché riconosce piena legittimità ad un’iniziativa politica, il BDS osteggiata con lo stigma incredibile dell’antisemitismo.  La pretesa di iscrivere le critiche alle politiche perseguite dai governi israeliani nel campo dell’antisemitismo, cioè di qualificarle come espressioni di razzismo, negli ultimi anni ha portato a un’escalation delle campagne diffamatorie anti-BDS in Europa. Al punto che nel maggio 2019 il parlamento tedesco ha approvato una mozione equiparando il movimento BDS all’antisemitismo. Una risoluzione analoga è stata approvata dal parlamento austriaco nel febbraio 2020. Dopo l’intervento della Corte EDU non è più possibile calunniare o criminalizzare il BDS ed ogni altro movimento che punti ad attivare l’opinione pubblica internazionale ed a stimolare i Governi ad adottare delle misure di responsabilizzazione nei confronti di Israele in conformità con il diritto internazionale. E’ pacifico che il diritto internazionale è un diritto imperfetto perché non vi sono sanzioni e non esiste un’autorità capace di farlo rispettare, tuttavia i suoi principi, sanciti dall’umanità all’uscita dalle tenebre della seconda guerra mondiale e della Shoà, sono l’unico fondamento che possa assicurare la coesistenza pacifica fra le nazioni e la soluzione delle crisi generate dalla violenza delle armi.  In definitiva spetta all’opinione pubblica assicurare il rispetto del diritto internazionale ed il movimento del BDS rappresenta un fattore di maturazione e crescita dell’opinione pubblica mondiale. Per questo, come tutti i movimenti politici che hanno a cuore la difesa dei diritti umani, il boicottaggio di Israele, lungi dall’appartenere al campo degli “hate speeches” deve essere incluso nei “love speeches”.

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Domenico Gallo

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l’1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 è in servizio presso la Corte di Cassazione, attualmente ricopre le funzioni di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019)

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ANPI Dossier: le Foibe

 
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Dossier: le Foibe

La storia (1866-1960): dall’irredentismo triestino all’esodo italiano dall’Istria e dalla Croazia

Quando si parla di foibe, l’attenzione si polarizza immediatamente sulle tragiche vicende dell’autunno del 1943 e della primavera del 1945, in Istria e nella Venezia Giulia, segnate dagli eccidi compiuti dalle milizie jugoslave e da non pochi civili sloveni e croati contro gli italiani, ma ciò non basta per comprendere il significato profondo di tali eventi, che devono essere situati in un più ampio contesto temporale. L’impostazione storiografica di lungo periodo è quella più idonea per capire quanto avvenuto al confine orientale tra il 1943 e il 1945. E’, infatti, nei primi anni Sessanta dell’Ottocento che incomincia a delinearsi consapevolmente il problema del confine orientale del neocostituito Regno d’Italia.

Le guerre d’indipendenza e l’irredentismo italiano e slavo

Nel periodo tra la II e la III guerra d’indipendenza si discute appassionatamente la questione del giusto confine orientale, tale ritenuto, per i più, se comprendente, oltre ai vecchi domini veneziani nella penisola istriana, anche Gorizia e Trieste, cioè le terre italiane appartenenti all’impero asburgico.
La delusione del 1866, con l’annessione del solo Veneto, comprendente parte del Friuli, fa nascere l'”irredentismo”.
Nel medesimo periodo veniva sviluppandosi rapidamente anche un duplice risorgimento, spirituale e materiale, delle popolazioni slave residenti nel Litorale, poiché tanto gli sloveni quanto i croati, in ciò guidati dal clero cattolico, avevano iniziato a scoprire e a consolidare la propria identità nazionale da un lato e a battersi per il miglioramento delle condizioni economiche dall’altro; da qui, pertanto, l’avvio di uno scontro sempre più acceso sul piano etnico e sociale, dal momento che la componente italiana, che deteneva una posizione di assoluta supremazia anche a livello censuario, aveva il controllo della vita amministrativa e politica locale.

L’afflusso sempre più consistente di manodopera slava dall’interno dell’Impero verso una città in grande espansione come Trieste e l’ascesa materiale e culturale degli abitanti croati e sloveni della regione determina una miscela esplosiva costituita da una crescente consapevolezza nazionale in entrambe le etnie conviventi nell’allora Litorale; una contrapposizione drastica sul versante religioso; un conflitto di classe tra una borghesia consolidata e un movimento contadino e proletario in ascesa e, per finire, un contrasto tra città, a larga dominanza italiana, e campagna, quasi ovunque abitata da slavi.

Ciò determinava la fusione della questione sociale con quella nazionale, rendendo ancor più drammatico il conflitto.

La Grande Guerra e l’annessione dell’Istria

Va, peraltro, rilevato che sul versante italiano si può inizialmente parlare di un nazionalismo difensivo, mentre dall’altra parte è evidente un nazionalismo offensivo, rivendicante la liquidazione dell’elemento italiano e lo sbocco al mare con una Trieste trasformata nella capitale morale e materiale della Slovenia, la creazione di una grande Slovenia fino al Cividalese e alla Carnia, sia pure entro la compagine imperiale, che non poteva non preoccupare e spingere a un ulteriore arroccamento la dirigenza liberal-nazionale italiana. A ciò s’aggiunga il graduale raffreddamento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Austria-Ungheria in seguito alla progressiva competizione economica e commerciale nei Balcani e ai nuovi orientamenti internazionali dei governi di Roma, l’affermazione di un aggressivo nazionalismo anche imperialista in Italia, il ribollire sempre meno controllabile delle tensioni nazionali nell’Impero e si comprenderà come allo scoppio della guerra nel 1914 e all’entrata in essa dell’Italia l’anno dopo, gli spiriti da entrambe le parti fossero sufficientemente accesi e predisposti a uno scontro anche armato per risolvere la questione dell’appartenenza nazionale e statuale della Venezia Giulia.

Lo Stato Maggiore imperiale, esperto nel gestire truppe di varia provenienza etnica, non a caso scelse di schierare sul fronte isontino milizie in prevalenza slovene e croate, oltre che carinziane e tirolesi, sapendo di poter contare sul loro sentimento antiitaliano. Il conflitto etnico era, dunque, esplicito e radicale, combattuto con le armi in pugno ben prima del 1941. I trattati di pace postbellici, gli accordi di Rapallo (1920) prima e di Roma (1924) poi, dando una sistemazione del confine orientale confacente agli interessi italiani, incorporavano, però, nel Regno un consistente numero di sloveni e croati, cui la classe dirigente liberale, seguendo i consigli di Francesco Salata, assicurò i fondamentali diritti di tutela della propria identità nazionale. In particolare il Trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, ebbe l’effetto di un fiammifero sulla benzina. Il Trattato accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell’area ritenuta dagli sloveni come proprio “territorio etnico“.

Il fascismo e l’italianizzazione delle minoranze

Con l’avvento del fascismo (che allontana Salata)  vi fu una politica di snazionalizzazione antislava, che  rientrava in un più ampio e complessivo processo di italianizzazione di tutte le minoranze “alloglotte”, incluse quelle germanofone sudtirolesi e francofone valdostane. Nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, le scuole furono italianizzate, gli insegnanti licenziati o costretti ad emigrare, vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nei pubblici impieghi. All’eliminazione politica delle minoranze, si accompagnò da parte del regime mussoliniano un’azione che aveva l’intento di arrivare alla bonifica etnica della Venezia Giulia. Anche attraverso la repressione nei confronti del clero, che rappresentava un importante momento di sintesi della coscienza nazionale delle minoranze. Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa di confine furono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej, e del vescovo di Trieste, Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive “romanizzatrici” del Vaticano, anche attraverso l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi. D’altra parte il concordato del 1929 con il Vaticano tolse una potente arma d’opposizione al clero sloveno e croato, che non poteva non riconoscere talune benemerenze a un regime ora alleato del Papa. La prima conseguenza di questo programma di distruzione integrale delle identità fu la fuga di gran parte delle minoranze dalla Venezia Giulia: secondo stime jugoslave emigrarono 105 mila sloveni e croati. Ma soprattutto si consolidò, agli occhi di queste minoranze, un fortissimo sentimento anti italiano, l’equivalenza tra Italia e fascismo che portò la maggioranza degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Come reazione, si radicalizzarono gli obiettivi delle organizzazioni clandestine slovene che, verso la metà degli anni Trenta, abbandonarono le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello Stato italiano per puntare invece al distacco dall’Italia dei territori considerati loro. Un’azione che trovò l’appoggio del Partito comunista italiano.

L’Italia attacca la Jugoslavia; l’occupazione fascista in Slovenia

In un tale contesto lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia nella primavera del 1941 che seguiva all’improvviso rovesciamento di alleanze del governo di Belgrado come conseguenza di un vero e proprio colpo di Stato a favore dei nemici dell’Asse portarono ulteriori elementi di complicazione a una situazione già complessa e travagliata.

La dissoluzione del regno dei Karageorgevic portò alla costituzione di una provincia di Lubiana, annessa al regno d’Italia, sia pure con un certo grado di autonomia, e allo spostamento a est del confine orientale nazionale con il conseguente inglobamento di altri sloveni e croati. Di vera e propria resistenza slava non si può parlare fino al luglio del ’41. Dopo tale data ebbe inizio una guerriglia non solo nazionale e patriottica, ma anche ideologica, alla quale le forze di occupazione italiana risposero con una feroce repressione, bruciando case, sequestrando beni e uccidendo partigiani e civili o rinchiudendoli in campi di concentramento. I campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, LopudKupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), e molti furono dislocati anche in Italia. Vi morirono oltre 7.000 persone. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche “zingari” ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini

Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista, nei 4.550 Km quadrati di questo territorio:

Ostaggi civili fucilati ………………………..…      n. 1.500
Fucilati sul posto………………………………….     n. 2.500 
Deceduti per sevizie…………………………….     n.       84 
Torturati e arsi vivi………………………     n.   103 
Uomini, donne e bambini morti nei campi
di concentramento……………………..…   n. 7.000

Totale …………………………………        n. 13.087

Le violenze del ’43 in Istria

L’8 settembre 1943, con la scomparsa quasi istantanea delle istituzioni militari e civili nazionali nell’area giuliana, creò un vuoto di potere nel quale il movimento partigiano sloveno e croato, ormai egemonizzato dalla componente comunista, fu pronto a inserirsi, scatenando un’ondata di terrore, che, se in qualche misura può anche esser vista come esplosione di furori contadini a lungo repressi nell’Istria interna, fu in sostanza il risultato di un’operazione predisposta dall’alto, a partire da Tito, che mirava (n.d.r. giustamente) a colpire tutti quelli che in qualche modo rappresentavano lo Stato italiano e l’apparato fascista o che si sapeva risolutamente contrari a un’annessione alla Jugoslavia, pur se antifascisti dichiarati.

L’occupazione jugoslava del Litorale e le foibe

Il culmine lo si raggiunse nella primavera del 1945 al crollo del III Reich con la conseguente occupazione jugoslava del Litorale Adriatico (Adriatisches Kustenland), in pratica staccato dalla RSI e governato dai proconsoli della Germania hitleriana.

I quaranta giorni dell’occupazione titina di Gorizia e di Trieste dove, in seguito a un accordo interalleato, subentrò l’amministrazione militare angloamericana, mentre l’Istria rimase definitivamente alla Jugoslavia furono caratterizzati da un’applicazione su vasta scala della pratica del terrore, gestita con estrema abilità ed efficacia anche sul piano psicologico dai servizi segreti jugoslavi, che, operarono con la massima determinazione per cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio, colpendo in modo sistematico ogni possibile opposizione in chiave nazionale e ideologica, arrestando, deportando nelle carceri e nei campi di prigionia (tra i quali va ricordato quello di Borovnica), infoibando o comunque sopprimendo in tutta la Venezia Giulia occupata, nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano, migliaia di avversari, in prevalenza italiani (non solo fascisti, ma anche esponenti del Cln che si opponevano all’annessione) e pure sloveni e croati, creando ad arte un velo di mistero e di segretezza sulla loro scomparsa al fine di provocare un’atmosfera di paura generalizzata e di tensione e inquietudine diffusa. Il partito comunista italiano di Trieste, uscito nel settembre ’44 dal C.L.N., appoggiò le mire slave.

VITTIME   delle FOIBE

Nel ’43: tra le 500 e le 700

Nel ’45: dalle 4-5.000 alle 10-12.000 vittime

Dopoguerra e esodo degli italiani dall’Istria e dalla Croazia

Nel ’47 la situazione peggiorò perché le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato di occuparsi solo dell’amministrazione provvisoria della zona B, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti. Tentarono di «ostringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione e della violenza. Un disegno – affermano gli storici – dal quale traspare palese l’intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere. Da parte jugoslava si vide con crescente favore l’abbandono degli italiani della loro terra d’origin». Intanto nel ’48, dopo la rottura tra il movimento titino e il Cominform, erano esplose le tensioni tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi. Numerosi esponenti del Pci, la maggior parte dei quali erano accorsi in Jugoslavia attirati dal mito dell’edificazione del socialismo, subirono il carcere, la deportazione e l’esilio. Gli scoppi di violenza che avvenirono durante le elezioni del 1950, e successivamente la crisi triestina nel ’53, fecero il resto. Il risultato fu l’esodo dai territori istriani di migliaia di italiani: 27 mila nelle aree oggi soggette alla sovranità slovena, dai 200 ai 300 mila dalla Croazia.

 

 La Campagna di Jugoslavia  e il regime di occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)

 Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava(saggio di Alberto Buvoli , Patria Indipendente, 27 febbraio 2005)

 Le foibe. Istria, settembre-ottobre 1943 (saggio di Galliano Fogar, Patria Indipendente, 27 febbraio 2005)

 1941-3: la repressione antipartigiana e i campi di concentramento italiani nella Jugoslavia occupata

 Foibe, è il caso di parlarne (di Maria R. Calderoni, Liberazione)

 «Le stragi delle foibe furono violenza di Stato». Il testo definitivo dell’analisi bilaterale Italia-Slovenia (di Francesco Alberti, Corriere della Sera 4 aprile 2001

 La questione di Trieste: cronologia 1944-1975

 

 

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Domenico Gallo02.07.2020 – Manifesto

Il giudicato, secondo un antico brocardo del diritto romano, facit de albo nigro, aequat quadrata rotundis. Cioè il giudicato ha una forza tale che può trasformare il bianco in nero e rendere i quadrati uguali ai cerchi. In tempi in cui l’autorevolezza delle sentenze passate in giudicato appare piuttosto gracile, dobbiamo constatare che la funzione iperbolica che i romani attribuivano al giudicato è passata di mano. Oggi è la potenza di un sistema mediatico che può rovesciare una realtà e il nero in bianco.

Solo così si può spiegare l’attacco temerario contro la sentenza della Cassazione che, nell’agosto del 2013, ha reso definitiva la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Il cosiddetto “audio shock” trasmesso da una Tv di Berlusconi, poi rilanciato con commenti al vetriolo contro la magistratura dalla galassia dei media del Cavaliere ed utilizzato dai politici di Forza Italia per avanzare le richieste più strampalate (come la nomina di Berlusconi senatore a vita), è un documento che testimonia l’esatto contrario di quanto vorrebbero fargli dire coloro che l’hanno diffuso.

Il tenore del colloquio esprime chiaramente l’esigenza del giudice Amedeo Franco di dissociarsi dalla decisione assunta dal Collegio giudicante. Se poi guardiamo il contenuto delle “rivelazioni” del giudice Franco, vediamo che l’unico appiglio utilizzato come prova di disegno di pilotare il processo a danno di Berlusconi, è la questione dell’affidamento del processo alla Sezione feriale. Il comunicato emesso ieri dalla Corte di Cassazione ha dimostrato la falsità dell’insinuazione. Il fascicolo è stato iscritto presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano.

“In ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, (..) venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge.”

Quanto all’insinuazione sulla “malafede” del Presidente del Collegio giudicante, che, a detta di Franco, avrebbe ricevuto pressioni dalla Procura di Milano per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla stessa Procura per… “essere stato beccato con droga a casa di…”, anche in questo caso la circostanza della droga evocata è completamente falsa.

Essendo del tutto false l’insinuazione sull’attribuzione del processo ad un Collegio ad hoc e quella su presunte pressioni della Procura di Milano sul Presidente del Collegio, tutto il resto non è altro che una giaculatoria volta a dimostrare all’illustre imputato che lo stesso Franco non condivideva la decisione. Anche l’espressione “plotone di esecuzione”, riferita al Collegio giudicante, seppur riprende un linguaggio comune delle difese mediatiche, caro all’orecchio del Commendatore, non arreca alcun elemento fattuale di conoscenza, esprimendo una mera opinione. D’altra parte la cosa più significativa che emerge nel corso del colloquio è il fatto che Amedeo Franco confessa la sua fedeltà a Berlusconi: “Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore (..) non dell’ultima ora”.

Dobbiamo allora chiederci: per quale motivo un giudice, violando il segreto della Camera di Consiglio, sente l’esigenza di discolparsi con l’imputato per l’esito a lui non favorevole del processo?

Una risposta a questa domanda avrebbe potuto darla soltanto il procedimento penale (e disciplinare) che inevitabilmente sarebbe stato aperto se il protagonista non fosse deceduto. Non è un caso, pertanto, che questa “prova” della iniquità del processo sia stata diffusa dopo la morte dell’interessato. Indubbiamente un comportamento così inusitato per un giudice, costituisce indizio di un rapporto non trasparente con l’imputato e quindi di una perdita di imparzialità.

In definitiva questo colloquio registrato lungi dall’essere un elemento significativo di una persecuzione giudiziaria in danno di Berlusconi, costituisce una prova del rapporto opaco che Berlusconi intratteneva con taluni magistrati. Forse qualcuno dovrebbe spiegare al cittadino comune che questa sensazionale rivelazione, non rivela nulla se non il fascino che il sistema di potere berlusconiano esercitava, e forse esercita ancora, nei confronti di una frangia di magistrati, ma rivela anche che, fin qui, il sistema indipendenza della magistratura, ha sostanzialmente retto assicurando il controllo di legalità nei confronti dei potentati economici e politici, a garanzia dei diritti dei cittadini. Ma domani è un altro giorno.

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La Memoria Antonina Azoti

 

 Importantissima pagina di Storia della Sicilia. Antonina Azoti intervistata spiega a lungo come, e a quale duro prezzo, la bambina che a 4 anni assiste all’assassinio del padre Nicolò Azoti Segretario della Camera del Lavoro di Baucina, è tutta sola arrivata dopo 46 anni, nel 1992, a gridare la verità al mondo lì all’albero Falcone che anche suo padre era stato ucciso, come tanti altri sindacalisti, dalla mafia.

E’ una intervista da seguire con attenzione: Antonina Azoti ci spiega come la mafia per fare piazza pulita, per cancellare la storia, quando uccide qualcuno, lo uccide due volte. una volta per ucciderlo e la seconda volta per cancellarne la memoria. La sua è una storia straordinaria che ci indica la strada per il riscatto della Storia, per il riscatto degli ultimi, per la difesa del lavoro, per la difesa della democrazia e del rispetto della dignità umana.

 

 

 

 
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La civiltà del ginocchio sul collo

La civiltà del ginocchio sul collo

America down. In strada non sono scesi solo gli afroamericani, ma anche tanti di quelli – bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia. Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere

La protesta a Minneapolis
La protesta a Minneapolis

C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo della vittima a Minneapolis – San Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, perfino il cacciatore bianco sull’elefante o il rinoceronte ucciso in safari… Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio … E del bianco sul nero. Così deve essersi sentito il poliziotto Dereck Chauvin, domatore sul corpo prostrato di George Floyd in mezzo alla strada, davanti agli occhi di tutti.

Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro, vita del corpo e soffio dello spirito. A Minneapolis, la civiltà è la bestia, l’ordine è selvaggio, la legge è l’arbitrio, l’umanità è soffocata e soppressa. Jack London lo chiamava il Tallone di ferro; stavolta è un ginocchio, a New York al collo di Eric Garner era un braccio; ma la sostanza è la stessa.

Anche per questo in strada non sono scesi solo i fratelli e le sorelle afroamericani, i più prossimi alla vittima, ma anche tanti di quelli – bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia. Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere. Il respiro spezzato di George Floyd e di Eric Garner è anche una figura della loro voce negata.

E’ una parte di America senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza quella che è esplosa in tutto il paese. Lo stato è in mano a forze che lo pensano come potere di dominio senza responsabilità di governo; quando il paese diventa ingovernabile sanno solo minacciare sparatorie ed evocare “cani feroci” da scagliare addosso ai manifestanti – salvo andarsi a nascondere nel bunker come di un ditta torello spaventato dai suoi stessi sudditi. Peraltro, la vigliaccheria è funzionale anche a un consapevole disegno politico: drammatizzare la situazione, accentuare il conflitto, radicalizzare le aree di consenso su cui si basa il sostegno elettorale di Trump, far dimenticare la disastrosa gestione dell’emergenza sanitaria, cogliere l’occasione per criminalizzare il dissenso. C’è un’intenzionale parallelismo fra il gesto di Trump di scendere le bunker e quello del vicepresidente Cheney dopo l’11 settembre: come dire che la crisi di adesso è la stessa di allora (e i “terroristi” sono gli “antifa”) e legittima la stessa politica securitaria, le stesse violazioni e sospensioni della democrazia di allora.

Né l’alternativa possono essere le parole flebili, convenzionali, di prammatica (e soprattutto: parole, in un momento che avrebbe bisogno di azioni, di gesti significativi) che sono venute da Biden e del partito cosiddetto democratico, che peraltro di scheletri nell’armadio ne ha fin troppi. Fino a una settimana fa, la più plausibile candidata democratica alla vicepresidenza era Amy Klobuchar, ex pubblico ministero della contea di Minneapolis, che in quanto tale aveva lasciato correre, e anzi appoggiato, l’aggressività endemica della polizia ed era addirittura accusata di aver lasciato indenne in un caso precedente lo stesso Derek Chauvin. Anche se è ormai chiaro che non sarà lei la prescelta, il solo fatto che si fosse pensato a lei per la vicepresidenza (e quindi in futuro addirittura per una possibile candidatura presidenziale) ci dice quanto questi temi fossero estranei alla visione del gruppo dirigente democratico.

La sola opposizione in questo momento sta nelle strade. La “violenza” non piace a nessuno; ma se i senza parola non avessero alzato la voce Dereck Chauvin l’avrebbe fatta franca per l’ennesima volta come tutti gli altri; e se non avessero parlato con il fuoco nelle strade le istituzioni si sarebbero limitate a licenziarlo ma non l’avrebbero, troppo tardi, incriminato. Tutti applaudivano quando un grande scrittore come James Baldwin, sugli echi biblici di un grande spiritual, ammoniva: la prossima volta il fuoco. Bene, la prossima volta è questa, il commissariato di polizia a Minneapolis brucia davvero. E adesso che le parole di Baldwin diventano fatti, tutti a stigmatizzare la violenza come se non li avessero avvertiti prima, invece di domandarsi che cosa potevamo fare perché non fosse ancora una volta inevitabile e che cosa dovremo fare, quando i fuochi sembreranno spegnersi, perché non sia necessario che tornino a divampare un’altra volta.

Per fortuna, nelle strade d’America c’è stato anche il gesto concreto di un’altra opposizione, che segna davvero una novità storica – e viene da gruppi imprevisti di lavoratori. Hanno cominciato gli autisti degli autobus di Minneapolis, rifiutandosi di potare in carcere i manifestanti arrestati. Ma il messaggio più potente viene propria da dentro quello sarebbe il campo avverso: sono i poliziotti che si uniscono ai cortei dei manifestanti, che solidarizzano con la protesta, che dicono basta alla solidarietà a priori con i propri colleghi picchiatori e assassini. Mi colpisce che gli episodi più clamorosi vengano da realtà con un forte potere simbolico: Camden, New Jersey (città di Walt Whitman, poeta della democrazia, e periferia disastrata), Flint, Michigan (la città operaia della General Motors e Michael Moore, avvelenata dagli scarichi industriali nelle acque col sillenzio del governo federale), e soprattutto Ferguson, Missouri, la città dove l’assassinio di Michael Brown e la repressione militare della protesta hanno aperto nel 2014 una nuova fase che culmina (per ora) con gli eventi di oggi. A Ferguson, la polizia era armata come un esercito di occupazione, e addestrata a pensare ai manifestanti, letteralmente, come “nemici”. Che poliziotti di Ferguson si inginocchino in omaggio a un afroamericano ammazzato da uno come loro significa che c’è un limite a tutto, che questo limite è stato oltrepassato, e che qualche coscienza comincia a cambiare. Forse non basta, ma non era mai successo prima. Forse, adesso che il drago si scuote, anche San Giorgio comincia ad avere qualche dubbio.

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