Straordinaria partecipazione al 25 aprile 2020

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LA LAPIDE NELL’ATRIO DEL COMUNE POSTA IL 25 APRILE DEL 2015

 

NEL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

LA CITTA’ DI PALERMO

CELEBRA CON RINNOVATA GRATITUDINE

E CONSEGNA ALLA MEMORIA DELLE NUOVE GENERAZIONI

AD ESEMPIO PERENNE DI CIVICHE VIRTU’

PARTIGIANI E PARTIGIANE

PERSEGUITATI PER CAUSE DI GIUSTIZIA

DEPORTATI NEI CAMPI DI STERMINIO

RESISTENTI, VITTIME E GLORIOSI CADUTI

NELLA LOTTA CONTRO LA BARBARIE NAZI-FASCISTA

PER LA RICONQUISTA DELLA LIBERTA’

PER LA RINASCITA DEMOCRATICA DEL POPOLO ITALIANO

E PER LA DIFESA DELLA DIGNITA’ UMANA

IL SINDACO E IL CONSIGLIO COMUNALE

PALERMO 25 APRILE 2015

La bandiera dell’Anpi svetta, orgogliosamente, sul balcone principale del Comune di Palermo, accanto a quella siciliana, italiana ed europea. Orgogliosa e rispettosa dei tanti nostri concittadini morti, anche, per la pandemia. E riconoscente per il lavoro e l’impegno profuso da tutti gli operatori sanitari ed a tutti gli altri che sono rimasti al lavoro per tutti Noi.

Alla cerimonia di commemorazione, dei partigiani e partigiane, dei confinati, perseguitati per motivi politici  combattenti contro la barbarie del nazifascismo o deportati nei campi di sterminio, dinanzi alla lapide posta nell’atrio del Palazzo delle Aquile di Palermo, erano presenti, rispettivamente, la Prefetta Antonella De Miro, il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il presidente del Consiglio comunale Totò Orlando ed il rappresentante dell’Anpi Palermo Armando Sorrentino

Un ringraziamento al Sindaco di Palermo ed al presidente del Consiglio che hanno accettato, sin da subito, le richieste di Anpi Palermo. Un ringraziamento particolare al nostro Armando Sorrentino che si e’ assunto il compito di rappresentare l’Anpi Palermo, su delega del Presidente Ottavio Terranova  

Salvo Li Castri

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CARLA NESPOLO E L’EUROPA

ANPI Palermo Barbato RECUPERIAMO PAGINE DI STORIA in tempi di koronavirus 4)

Nespolo: “L’Unione Europea espella l’indegno regime ungherese”

31 Marzo 2020

Dichiarazione della Presidente nazionale ANPI, Carla Nespolo

In Ungheria l’attribuzione dei pieni poteri a Viktor Orban, con l’ignobile pretesto della pandemia, segna la nascita di un regime antidemocratico e autoritario e svela il pericolo delle formazioni cosiddette sovraniste che nascondono dietro la parvenza democratica pulsioni nazionaliste e liberticide. A chi vaneggia sulla legittimità formale di tale decisione va ricordato che anche Mussolini e Hitler andarono al potere con una copertura di legittimità. La svolta ungherese è un’intollerabile ferita all’UE perché contrasta con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione che si basa “sul principio della democrazia e dello Stato di diritto”. Nel 75esimo della Liberazione esigiamo che l’UE espella l’indegno regime ungherese che ha tradito il patto antifascista da cui è nata l’idea di Europa.

Carla Nespolo – Presidente nazionale ANPI

31 marzo 2020

 
 
 

 

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L’ALBA, PRIMA O POI. Gianfranco Pagliarulo

L’ALBA, PRIMA O POI

Il diritto alla vita. Costituzione, salute pubblica, parlamento, eguaglianza. L’UE e i Paesi sovranisti

   

“Sentinella, a che punto è la notte?”, recita una citazione biblica. È la domanda che ciascuno di noi pone e si pone, scrutando nell’universo del web e delle tv qualcuno o qualcosa che faccia intravvedere uno sprazzo di luce. Ma oggi è notte, e a vista dobbiamo camminare nell’innaturale silenzio delle città. L’unica cosa certa è che dobbiamo operare per la salvaguardia della vita di tutti. E non è affatto facile, perché la tragedia che viviamo non ha precedenti, cioè non ha ricette collaudate, soluzioni sicure, esperienze vincenti. In attesa di farmaci e vaccini, i provvedimenti assunti in merito al cosiddetto distanziamento sociale sono gli unici che possono garantire una ragionevole speranza di rallentare l’avanzata della pandemia, affinché poi in qualche modo si estingua.

È evidente che in questo periodo siamo privati di diritti elementari, come quello di uscire da casa, ma ciò si spiega con la necessità di salvaguardare un diritto prevalente, quello alla vita, senza il quale non si potrebbe usufruire di alcun diritto. La Costituzione, che pure non specifica una norma relativa a provvedimenti conseguenti a catastrofi di questo tipo, in qualche modo lo prevede, quando afferma (art. 16) che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o sicurezza”.

A conferma, ecco l’art. 32: “La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (…)”. Ma l’urgenza della situazione è tale da non poter attendere l’ordinario iter che accompagna l’approvazione di una legge in parlamento. Le decisioni devono essere assunte qui ed ora, cambiando se necessario di giorno in giorno, come infatti sta avvenendo. Ciò spiega perché sono state assunte decisioni nella forma di decreto del presidente del Consiglio. Siamo insomma in una situazione di sospensione dove, pur seguendo la traccia costituzionale, non è centrale in ruolo del parlamento, che si è anche riunito in forme parziali e discutibili. Tale eccezionalità è però, in questa fase convulsa e drammatica, spiegabile, a condizione che rimanga tale e cioè che, trascorsa la necessità ed urgenza, si ritorni ad una piena restituzione dei diritti ed ad un altrettanto pieno funzionamento delle Camere, che devono esercitare il loro potere prevalente.

Foto Imagoeconomica

Il problema più pregnante oggi, invece, è quello dell’uguaglianza; l’Italia è divisa in due: la maggioranza, pur costretta dalle norme, è relativamente salvaguardata dall’epidemia tramite il distanziamento sociale ed altre tutele connesse; ma c’è una minoranza consistente della popolazione che non è salvaguardata, o è salvaguardata molto meno; si tratta di un lungo elenco: i medici e tutto il personale sanitario, gli addetti ai servizi pubblici, gli addetti ai servizi essenziali, i lavoratori delle aziende fondamentali, larga parte dei giornalisti e tanti altri, tutti coloro, insomma, la cui funzione è necessaria al fine della quotidianità della vita. A questi si aggiungono – si badi – altre categorie: i detenuti, coloro che vivono nei campi rom, gli immigrati irregolari, i clochard. Il rischio a cui sono esposte tutte queste categorie è molto maggiore di quello che corrono tutti coloro che usufruiscono del distanziamento sociale. La questione non si può risolvere astrattamente, ma ogni sforzo concreto dev’essere fatto per ridurre il rischio di chi è più vulnerabile al virus per la sua posizione sociale o lavorativa, a cominciare da tutti gli addetti alla sanità; tanto per essere chiari, colpisce l’elevatissima percentuale di medici contagiati.

Questo governo ha risposto e sta rispondendo a un’ondata travolgente di necessità, di urgenze e di drammi in un modo che è diventato esemplare su scala globale. Eppure è indispensabile che colmi il più possibile il gap di eguaglianza che si è creato nel Paese.

Cosa diventerà questo Paese, l’Europa e il mondo intero quando sarà passata la notte, non è dato sapere. Senza dubbio sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto, e cambierà in parte forse rilevantissima la nostra vita quotidiana per mille ragioni, a cominciare dalla crisi economica e occupazionale dovuta al lungo blocco delle attività produttive, commerciali e di servizio. Questo sarà il problema, e, per alcuni aspetti, lo è anche oggi, per tutti coloro, per esempio, che hanno visto di colpo interrotta la loro unica fonte di reddito. Si tratta perciò di una priorità assoluta nella gerarchia degli impegni del governo e del parlamento, e più in generale della vita sociale.

Emergency e altre ong, grazie ai loro volontari, portano a casa degli anziani e delle persone più fragili cibo, medicine e beni di prima necessità. Foto Imagoeconomica

Tutto ciò rinvia ad un criterio abbastanza ovvio in ogni emergenza nazionale: l’unità. Eppure, nonostante i pressanti inviti del Presidente della Repubblica che sta svolgendo una funzione davvero meritoria in questa situazione così difficile, siamo sommersi da distinguo, rivendicazioni, blasfemi riferimenti religiosi, persino fake news o insulti da parte di questo o quel personaggio pubblico, magari lo stesso che un mese fa sosteneva l’esatto contrario. C’è chi il 22 febbraio gridava “Blindiamo i confini”, il 27 febbraio diceva “Riaprire e rilanciare le fabbriche, i negozi, i musei”, ed oggi invoca misure sempre più draconiane con l’aria di chi dice “Io l’avevo detto!”. Si tratta – diciamo così – di uno spettacolo imbarazzante e di cattivo gusto, dove sembra prevalere l’interesse di parte sull’interesse nazionale, e dove il senso di responsabilità viene travolto dalla scelta di cavalcare le paure ed anche i rancori che in questo periodo stanno crescendo nel ventre della società.

Mascherine inviati dalla Cina all’Italia “fermate” in alcuni Paesi del patto di Visegrad (da https://static.nexilia.it/ nextquotidiano/2020/03/ mascherine-italia-cina-repubblica-ceca.jpg)

E c’è infine il contesto europeo dove, alla prima, devastante dichiarazione del 12 marzo di Christine Lagarde, presidente della Bce (“Non siamo qui per chiudere gli spread”), ennesima testimonianza dell’irriducibile incapacità della logica liberista di mettere al primo posto gli interessi dell’umanità, hanno fatto seguito dichiarazioni e decisioni di segno opposto, a cui hanno corrisposto finanziamenti ampi (ma vedremo se sufficienti e ben indirizzati). Ma, fra i tanti eventi di questi giorni, colpisce il sequestro in dogana di mascherine destinate all’Italia da parte della Polonia e della repubblica Ceca, Paesi, assieme all’Ungheria ed alla Slovacchia, di punta del sovranismo in Europa e dei muri contro i migranti. Non si tratta solo di gesti meschini che la dicono lunga sulla qualità dei rispettivi governi; si tratta di atti che colpiscono al cuore quel minimo di unità senza cui l’Unione europea è una parola priva di senso.

Ne discendono due conseguenze. La prima è la necessità di rafforzare il contrasto a ogni sovranismo, forma moderna e rivisitata del novecentesco nazionalismo, in cui con tutta evidenza gli egoismi nazionali entrano in rotta di collisione con gli interessi e i diritti degli altri paesi e che porterebbero inesorabilmente alla dissoluzione della Ue. La seconda è l’urgenza di un’altra Ue, dove comunità, solidarietà, responsabilità, non siano vuota retorica ma pratica quotidiana e dove si ponga al centro dell’interesse dell’Unione il lavoro, il progresso tecnologico e scientifico, l’uguaglianza, la pace. Questo era il Manifesto di Ventotene. Questa era la visione dei fondatori. Questa davanti alla grande crisi economica e sociale che si prospetta, è l’unica, ragionevole strada per salvare l’Europa e gli europei.

Tutti noi, tutti gli italiani sono scossi se non traumatizzati dal precipitare di eventi che hanno sconvolto in pochi giorni la nostra vita ed hanno persino negato la vita ad alcune migliaia di cittadini. Pur nelle mille contraddizioni di questo tempo infame, sappiamo che dopo la notte, dopo ogni notte, sorge l’alba. Non solo l’alba della scomparsa del virus e del ritorno ad una nostra vita piena. Il virus ci ha reso nudi, e questo ci dà la possibilità di essere migliori. Ci danno l’esempio i tanti medici che rischiano la pelle per curare gli ammalati. E forse, dopo, quando sorgerà l’alba, potremo guardarci con altri occhi, e potremo scoprire che c’è un altro modo di convivere e di rispettarci, di organizzare l’economia, la società, la politica, un altro modo di pensare, più libero e civile, un altro modo di vivere. O forse no, forse avverrà esattamente il contrario, con un ulteriore imbarbarimento. Dipende anche da noi. Mai come oggi c’è bisogno da parte di tutti di un nuovo senso di responsabilità nazionale verso gli altri e verso noi stessi.

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Coronavirus, il partigiano Carlo Smuraglia: «Affrontare il virus è come camminare in guerra tra le mine»

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«È come combattere una guerra che ci mette tutti sullo stesso livello, perché il coronavirus a modo suo è democratico. Tutti abbiamo una spada di Damocle sopra la testa e tutti abbiamo gli stessi obblighi». Carlo Smuraglia, presidente emerito dell’Anpi, avvocato, professore, parlamentare, 97 anni ad agosto, vive a Milano, nella Regione più flagellata dal Covid 19. Nel 1944 era un volontario al fianco dell’8ª Armata britannica, nel gruppo di combattimento Cremona. «Risalivamo l’Italia liberandola dai tedeschi» ricorda. E il flash tra quell’Italia straziata dalla guerra e questa attaccata dal Covid 19 è immediato.

Trova analogie tra l’epidemia e le sue esperienze nell’Italia stravolta dalla guerra?

«Si, anche se contro il virus è una guerra atipica. Ora si combatte contro un nemico invisibile che ci spara addosso senza che ce ne rendiamo conto, fa molte vittime, e non sappiamo bene con quali strumenti fronteggiarlo. Mi ricordo un episodio preciso».

Quale?

«Ci misero in una pineta piena di mine che dovevamo cercare con una specie di aspirapolvere. Se battendo il terreno sentivamo un certo rumore dovevamo dare l’allarme. Mentre dall’altra parte della pineta, fra gli alberi, c’erano i tedeschi che ci sparavano. Lì ho conosciuto la paura vera perché il nemico non le vedevi. Potevi prenderti una pallottola o saltare per aria a ogni passo. Oggi c’è lo stesso senso di ignoto e di incertezza, però almeno non mancano le medicine o il cibo».

Lei ha paura di ammalarsi?

«La considero un’eventualità che può capitare a me come a tutti. Sono certamente preoccupato perché ho una certa età, sto attento e prendo tutte le precauzioni. Ma la prendo con filosofia. Sa perché fatico ad addormentarmi la notte?».

Dica.

«Perché, per esempio, non riesco a vedere la mia nipotina di cinque anni: abita vicino a me, ma è meglio stare per un po’ lontani. Penso al suo futuro e vorrei che non vivesse momenti di dolore come questo».

Come trascorre le giornate?

«Lavorando, leggendo e ascoltando musica. Insieme a mia moglie Enrica. Siamo sposati dal 1961 ed è la mia preziosa compagna di vita, infatti, se ho avuto un minimo di successo nella mia vita lo devo certamente, per buona parte, a lei. Ora stiamo a casa, un pochino annoiandoci insieme, ma organizzandoci la giornata fra la musica classica, la lettura, la televisione che ci interessa».

È anche un’occasione per riflettere?

«Sul futuro. Credo che ne usciremo più consapevoli della relatività della nostra esistenza, perché di fronte al coronavirus siamo diventati piccoli. E più solidali, perché è una vicenda che stiamo vivendo tutti insieme. Ora non c’è posto per l’odio, c’è solo la voglia di contattare le persone alle quali si è in qualche modo legati. E così scopriamo quelle che vogliamo davvero vicino a noi».

E il futuro?

«Alla fine dovremo vivere una realtà nuova, con nuovi strumenti. Tanti avranno perso i propri e la crisi economica creerà problemi sociali».

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Prof, A. Scaglione ricorda Peppino Benincasa sopravvissuto alla strage di Cefalonia

64233003_331579291109165_7017896250070532096_nIn ricordo di Peppino Benincasa sopravvissuto alla strage di Cefalonia, ha combattuto come partigiano dell’ELLAS per la Libertà dell’Italia e della Grecia dal nazifascismo.

Mi avvio alla conclusione con le parole di Giuseppe Benincasa: <<Noi della Divisione Acqui non vogliamo ricompense, né chiediamo vendetta, perché non servono a risuscitare i 9.406 morti. Almeno, però dateci l’onore e ricordate che siamo stati i primi a combattere l’arroganza e l’alterigia dei nazi tedeschi>>                                                    Prof. Antonio Scaglione

 

 La battaglia e la strage di Cefalonia:

esperienze umane e processuali

The battle and the massacre of Cephalonia: human and procedural experiences

del Prof. Antonio Scaglione

Gentili Signore e Signori,
anzitutto ritengo doveroso ringraziare vivamente il prof. Giovanni Puglisi, Presidente della Società Siciliana per la Storia Patria e il dott. Salvatore Savoia, Segretario Generale della stessa, per avere
patrocinato il presente evento e per averlo ospitato in questo splendido e secolare Salone Di Maggio.
Ringrazio anche l’ANPI, nelle persone del Vice Presidente nazionale e Presidente della sede di Palermo, Ottavio Terranova, e del Vice Presidente, Angelo Ficarra, e tutti i relatori per avere aderito alla presente iniziativa.
Saluto cordialmente le Autorità civili e militari, i rappresentanti delle Magistrature, ordinaria e contabile, e dell’Avvocatura, e tutti i gentili ospiti intervenuti, che, con la loro presenza, testimoniano
stima e considerazione per questa iniziativa di memoria e di ricordo dei militari caduti nella battaglia e nella strage di Cefalonia.
Ringrazio infine, tutti coloro che, impossibilitati a partecipare, hanno fatto pervenire graditi messaggi di saluti e di ricordo delle vittime della strage, come, tra i tanti, il Presidente e il Vice Presidente della Regione, il Presidente della Corte di Appello, dott. Matteo Frasca, il Comandante Interregionale della
Guardia di Finanza, Generale di Corpo di Armata, Carmine Lopez, il Sindaco di Palermo, prof. Leoluca Orlando, e il Sindaco, Alexandros Paris, e il Vice Sindaco, Evangelos Kekatos, di Cefalonia.
Il 26 ottobre dello scorso anno, ci siamo già incontrati in questa stessa sede per presentare il volume sulla strage di Cefalonia, curato dal dott. Marco De Paolis, Procuratore generale militare di appello, oggi nuovamente presente tra noi, e dalla professoressa Isabella Insolvibile, nel quale i due studiosi hanno ricostruito questi drammatici eventi sotto il profilo sia storico sia giudiziario, inserendo anche una fondamentale appendice che contiene i più rilevanti atti giudiziari, sinora inediti

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.

L’amplissima pubblicistica sugli eventi di Cefalonia si è ulteriormente arricchita, nell’anno in corso, di altri due volumi: Filippo Boni, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia, Longanesi, Milano, e Ermanno Bronzini, La battaglia di Cefalonia, Il Mulino, Bologna4
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Abbiamo deciso, con il presente Convegno, di ritornare su questi drammatici avvenimenti, anche per ricordare la recente scomparsa del soldato-partigiano, Giuseppe Benincasa, che era stato presente in questo stesso Salone, alcuni anni fa, per un altro Convegno sui processi per i crimini di guerra nazifascisti.
Giuseppe Benincasa raccolse anche le Sue memorie in un volume edito a cura dell’Anpi nel 2013, nel quale raccontò la sua vita: una gioventù difficile, connotata già da sentimenti libertari e antifascisti; l’arruolamento a 18 anni e la partenza per la Grecia; il suo inserimento nella banda musicale militare; la iniziale vita tranquilla a Cefalonia; le drammatiche vicende seguite all’8 settembre del 1943; le manifestazioni di giubilo per l’armistizio; i violenti combattimenti tra gli undicimila militari italiani e le truppe tedesche; la resa e il successivo eccidio di ufficiali e militari; la sua fuga dal luogo della strage; il suo ingresso nelle formazioni partigiane dell’Ellas; il suo matrimonio; la lotta partigiana e la
successiva guerra civile in Grecia; il suo rientro in Italia.

1 Testo della Relazione introduttiva svolta al Convegno su “La battaglia e la strage di Cefalonia: esperienze umane e
processuali” (Palermo, 19 novembre 2019, Fondazione “Società Siciliane per la Storia patria”).
2 Già Vice Presidente del Consiglio della Magistratura militare.
3 M. DE PAOLIS-I. INSOLVIBILE, Cefalonia: Il processo, la storia e i documenti, Viella Libreria editrice, Roma,
2017, passim.
4
V. F. BONI, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia, Longanesi, Milano, 2019; E. BRONZINI, La battaglia di
Cefalonia, Il Muino, Bologna. 2019. Negli ultimi anni, oltre al libro di DE PAOLIS-INSOLVIBILE, era stato
pubblicato anche il volume di E. AGA ROSSI, Cefalonia, la resistenza, l’eccidio, il mito, il Mulino, Bologna, 2016.
5 G. BENINCASA, Memorie di Cefalonia, Diario di un sopravvissuto della divisione Acqui, Quaderni dell’ANPI
Sicilia, a cura di F. Ciminato, Istituto poligrafico europeo, Palermo, 2013.

Particolarmente drammatiche sono le pagine nelle quali ha descritto come scampò alla strage: <<I miei commilitoni si accasciavano su di me. Gli spari si confondevano con le loro urla e i loro lamenti, cadevano come birilli. Venni travolto da quell’immenso peso umano che mi cadeva addosso, rimanendo schiacciato dai tanti corpi privi di vita, non riuscivo più a muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione>>6
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La battaglia, svoltasi nell’isola greca di Cefalonia tra il 15 e il 22 settembre 1943, costituisce il più rilevante scontro armato tra le truppe italiane, soprattutto della Divisione di Fanteria Acqui, e quelle tedesche dopo l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, che sancì la cessazione delle ostilità tra l’Italia e gli anglo-americani, e segnò l’inizio della Resistenza contro i nazifascisti.
Dopo i combattimenti e la resa della Divisione Acqui, il 22 settembre 1943 i tedeschi trucidarono migliaia di prigionieri militari italiani, il cui numero è ancora oggi uno dei fatti più controversi degli eventi di Cefalonia; prigionieri di guerra ai quali doveva applicarsi la Convenzione di Ginevra.
Il successivo 24 settembre gli ufficiali italiani superstiti furono fucilati in quello, che è stato definito dalla storiografia, come “l’eccidio della Casetta rossa”.
La strage rappresenta uno dei più gravi massacri e crimini di guerra commessi dalle truppe naziste nei confronti di militari italiani nel drammatico biennio 1943-1945.
La vicenda giudiziaria relativa alla strage di Cefalonia è analoga a tutte le altre vicende per i crimini di guerra commessi in Italia e all’estero dalle truppe nazifasciste nel biennio 1943-1945, evidenziando, drammaticamente ombre, luci e disfunzioni della nostra giustizia penale militare

7
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Il contesto originario è costituito dalla situazione del nostro paese alla fine del secondo conflitto mondiale.
Elementari esigenze di giustizia avrebbero imposto di processare immediatamente, con rigore e equilibrio, tutti i militari tedeschi e italiani, responsabili delle stragi e degli altri efferati delitti
commessi in danno di militari, civili e ebrei.
Sennonché ciò avvenne, come è noto, in maniera molto limitata.
Infatti, dopo i cinquanta processi circa a carico di militari tedeschi portati a conclusione dalle Corti militari alleate, l’Autorità giudiziaria militare italiana, nell’arco temporale di dieci anni, avviò e portò a conclusione solo dodici processi a carico di militari tedeschi per crimini di guerra.
Le cause devono essere ricondotte, sul piano internazionale al contesto della guerra fredda e, sul piano interno, al qualunquismo, alla sconfitta del fronte di sinistra nel 1948, alla spaccatura della popolazione tra comunisti e anticomunisti, al revanscismo, e al ritorno della vecchia Italia del compromesso e delle ambiguità.
A questo quadro, sul piano normativo, si devono aggiungere l’amnistia del Ministro della Giustizia dell’epoca, motivata dalla “necessità della riconciliazione e della pacificazione di tutti gli Italiani”, nonché i contestuali provvedimenti di indulto, di grazia e di liberazione condizionale concessi ampiamente ai condannati.
Solo nel 1994, dopo un lungo periodo di colpevole stasi giudiziaria, nel corso delle indagini riaperte per la strage delle Fosse ardeatine a carico del Capitano delle S.S. Erich Priebke, fu scoperto, negli
archivi della Procura generale militare presso la Corte di Cassazione, siti in Palazzo Cesi a Roma, un armadio, passato alla storia, secondo una puntuale definizione del giornalista Franco Giustolisi, come “L’armadio della vergogna”.
In questo armadio erano contenuti 695 fascicoli processuali relativi a delitti commessi dalle truppe tedesche e italiane della Repubblica di Salò nei confronti di civili e militari italiani in Italia e all’estero
dall’8 settembre 1943 al maggio del 1945, archiviati provvisoriamente nel 1960 dall’autorità giudiziaria militare dell’epoca, tra i quali anche gli atti relativi alla strage di Cefalonia9
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6 G. BENINCASA, Memorie di Cefalonia, cit. p. 35 s.
7 Sul tema, v. S. BUZZELLI- M. DE PAOLIS – A. SPERANZONI, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti
in Italia. Questioni preliminari, Giappichelli, Torino, 2012, passim.
8 V. M. DE PAOLIS, La punizione dei crimini di guerra in Italia, in S. BUZZELLI, M. DE PAOLIS, A. SPERANZONI, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti, cit., p. 109 ss.
9 V. F. GIUSTOLISI, L’armadio della vergogna, Beat, Nutrimenti, Roma, 2011.

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Purtroppo, però, ombre e disfunzioni continuarono ad essere presenti. Infatti, alla luce di un altro recente studio della stessa prof. Insolvibile, sia pure limitato ai crimini di guerra commessi all’estero10, si registra un ulteriore periodo di stasi dal 1994 al 2001, caratterizzato da riaperture delle indagini e rapide conclusive archiviazioni.
Ad analoghe conclusioni, sulla base di un confronto tra gli elenchi forniti dalla Procura militare di Roma e gli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sull’occultamento dei fascicoli, si è
pervenuti anche con riferimento ai processi penali per crimini di guerra commessi nel centro dell’Italia durante l’occupazione tedesca. Nel periodo 1994-2001 si registrarono, infatti, sia provvedimenti di archiviazione senza lo svolgimento di idonee e effettive investigazioni, sia applicazioni generalizzate e problematiche dell’istituto della prescrizione.
Solo successivamente furono disposte invece riaperture delle indagini e positive conclusioni delle stesse per impulso di alcune Procure militari: la Procura militare di La Spezia, diretta dal dott. Marco De Paolis, tra il 2002 e il 2008, quella di Verona dal 2008 al 2010 – pubblico ministero De Paolis – e, infine, quella di Roma, diretta dallo stesso dott. De Paolis dal 2010 al luglio del 2019.
Da notare altresì che, mentre i pochi processi penali celebrati in precedenza avevano limitato la responsabilità penale ai comandanti, i nuovi processi hanno riguardato anche militari di grado non elevato sul presupposto della irrilevanza, per questi crimini di guerra, della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere.
Questi processi per fatti di strage, nonostante la difficoltà di avvalersi della prova testimoniale per il decorso del tempo e anche se con decenni di ritardo dovuti alla già evidenziata stasi processuale del periodo 1994-2001, si sono conclusi con decine di sentenze di condanna all’ergastolo.
In particolare, con riferimento proprio alla strage di Cefalonia il relativo procedimento penale fu avviato originariamente solo nel 2007 e fu chiuso successivamente per la morte dell’unico imputato,
un sottotenente dell’esercito tedesco. Le indagini furono però riaperte nel 2010 dal Procuratore militare Marco De Paolis e portarono, il 18 ottobre 2013, alla sentenza di condanna all’ergastolo (in contumacia) emessa dal Tribunale militare di Roma, poi passata in giudicato, del caporale tedesco
Alfred Störk, ritenuto responsabile del delitto di concorso in violenza con omicidio continuato commessa da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra, almeno 117 ufficiali.
Il Procuratore De Paolis dichiarò all’epoca che questa sentenza di condanna, a distanza di settant’anni dai fatti, costituì comunque un caso di <<denegata giustizia>>, soprattutto perché limitata ad un solo responsabile, pur essendo positiva la statuizione che l’ordine illegittimo, nel caso di specie, non doveva essere eseguito non potendo costituire <<un paravento per coprire misfatti del genere>> 11)

Al riguardo, voglio ancora una volta ricordare che il dott. De Paolis ha promosso e istruito oltre 500 procedimenti penali relativi a stragi commesse sia in Italia contro la popolazione civile – tra le quali le stragi di Marzabotto, Monte Sole, Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Padule di Fucecchio, San Terenzo e Vinca – sia all’estero contro militari italiani, prigionieri di guerra dei nazisti.
In questo contesto sono stati complessivamente 450 i procedimenti penali istruiti dal dott. De Paolis,
e, conseguentemente, 80 i militari tedeschi rinviati a giudizio e processati davanti ai Tribunali militari di Roma, La Spezia e Verona e 57 gli ergastoli irrogati a persone di cui sette ancora in vita nel 2016, ma la Germania non ha mai eseguito queste sentenze12
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Mi avvio alla conclusione con le parole di Giuseppe Benincasa: <<Noi della Divisione Acqui non vogliamo ricompense, né chiediamo vendetta, perché non servono a risuscitare i 9.406 morti. Almeno, però dateci l’onore e ricordate che siamo stati i primi a combattere l’arroganza e l’alterigia dei nazi tedeschi>>13
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10 I. INSOLVIBILE, Archiviazione definitiva. La sorte dei fascicoli esteri dopo il rinvenimento dell’armadio della
vergogna, in Giornale di Storia contemporanea, XVIII (2 n.s.), 1, 2015, pp.5-44.
11 M. DE PAOLIS, in Il Corriere della Sera, 2 marzo 2016. V., pure, E. A. ROSSI, Cefalonia, cit., p. 119 s..
12 V. M. DE PAOLIS, in Corriere della Sera, 2 marzo 2016.
13 G. BENICASA, Memorie di Cefalonia, cit. p. 65.61

Con il presente incontro abbiamo voluto fare memoria; memoria che – come scrisse Mario Rigoni Stern
con riferimento al testamento morale di Primo Levi
– è <<necessaria […] perché le cose che si dimenticano possono tornare>>.
Vi ringrazio per la vostra cortese attenzione.

 
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Andrea Camilleri e Pio La Torre

 

Andrea Camilleri: ”Pio La Torre è stato per me una rivelazione”

La prefazione storica dello scrittore al libro “Chi ha ucciso Pio La Torre” di Paolo Mondani e Armando Sorrentino
di AMDumila

Per onorare la memoria del Maestro Andrea Camilleri di seguito pubblichiamo la Prefazione al libro di Paolo Mondani ed Armando Sorrentino, “Chi ha ucciso Pio La Torre“, edito da Castelvecchi (2012).

La Prefazione
In Pio La Torre avviene un fenomeno singolare che è quello del ritorno. Romanzescamente, perchè io sono un romanziere, direi che di quest’uomo, di questo siciliano, è fondamentale la provenienza sociale. Non è un comunista borghese, uno che nasce da una famiglia borghese, è uno che sape quantu costa u pane e quale fatica ci vuole. Non è retorica, è vita vissuta, tanto che va in carcere per le lotte dei contadini di Bisacquino.
Se mi è permesso dirlo, all’interno della Direzione del partito la provenienza borghese era del 99 per cento e solo per l’uno per cento era operaia e contadina. E allora è chiaro che quando La Torre va in Sicilia nel partito a Roma si sentì più ricompattata. Il ritorno di Pio nella sua terra come segretario gli consente una rinascita, una sorta di riscatto, la possibilità di rendere azione tutto quel che si porta dentro, e gli dà una lucidità mostruosa. Anche se a conoscerlo e a parlargli non la manifestava e questo mi impressionò terribilmente dopo. Di La Torre si aveva l’impressione di un uomo serio ma in certo modo non in grado di fare quello che poi ha fatto. Invece questa sorta di bagno lustrale che viene a fare tornando in Sicilia gli dà una prontezza di ragionamento e di collegamento inaudita per cui è come se fosse diventato un’altra persona: ma che gli è capitato a La Torre, si è impazzito? Credo che abbia avuto questo effetto nel partito. E che fosse abbastanza diffusa questa sensazione. C’era perfino qualcuno che si era preoccupato del suo attivismo, del gioco di fuoco delle sue idee. Eppure se lo ascoltavi e ci riflettevi un momento sopra dicevi: Madonna è vero!

Ricordo che cominciai a seguirlo quando se ne andò in Sicilia nell’81 mentre io me ne stavo qua a Roma. Lo stimavo ma qui finiva il discorso. Tanto che l’unica cosa che ho potuto fare dopo la morte fu quella di dire – quando si decise di intitolare l’aeroporto di Comiso – che bisognava dargli il suo nome, non solo per quella mobilitazione contro la base missilistica ma per tutto quello che aveva fatto per la sua terra.
L’ ipotesi che gli autori di questo libro fanno sui moventi dell’omicidio mi ritorna da sempre come un trapano.
Cominciamo col dire che è comodo circoscrivere alla Sicilia il fenomeno mafioso – la linea della palma di Sciascia – anche se negli ultimi tempi si sono tutti resi conto che non sta in piedi. Quando Totò Riina decide di passare all’azione armata – lo leggo nel libro del magistrato Michele Prestipino – Bernardo Provenzano si preoccupa di fare un piccolo referendum, una specie di sondaggio interno, e c’è quello che porta il responso degli industriali del Nord e dice che sono tutti d’accordo. Mi sono sempre chiesto: ma chi erano questi che si dichiaravano d’accordo? Solo ora cominciamo a intravedere chi potevano essere: per venire sondaggiati vuol dire che uno gli può telefonare o andarli a trovare. Quando nella relazione della Commissione Antimafia del 1976 Pio intuisce questo legame aveva perfettamente ragione.

Pur essendo uno che veniva dalla destra del partito La Torre si ritrovò sulle posizioni della diversità berlingueriana, un’idea che continua tuttora a dare fastidio e che in quel momento era un signum individuationis molto preciso. Altro che moralismo.
La sua uccisione è un’opera di Dio, in termini marinareschi. Tu hai la rete nella tempesta e ti si rompe anche il motore: un’opera di Dio perchè è una concomitanza di fatti straordinari. Aveva gettato una tale quantità di ami che potevano ammagliare una gran quantità di pesci, troppi. E’ come quando Leonardo Sciascia insieme a Guttuso vanno a trovare Berlinguer e lo vedono stravolto perchè teme che il sequestro Moro sia il risultato di un felice connubio tra Cia e Kgb.
Certo, tra i moventi la proposta di legge sui patrimoni mafiosi può aver contato ma è dimostrato che la mafia si è assunta compiti anche per conto terzi, una parte di interesse nell’omicidio di Pio certamente l’aveva ma poi tornava comodo ad altri come copertura. Spesso in Sicilia si manifestano questi fenomeni di convergenza di intenti. Sindona, la mafia al Nord, Gladio, quanti altarini rischia di scoprire quest’uomo? Gli concedono di scoprirne alcuni minori ma tutti proprio no. Indagare su Sindona era tra l’altro una gran bella camurria: Sindona significa Andreotti e una gran quantità di cose, è come la Banda della Magliana compresa in un’unica persona. 
Ricordo che ci furono come delle reticenze sul movente dell’omicidio. Subito si disse: la mafia, la mafia, la mafia. Poi subito dopo, anche sui giornali, ci fu chi disse addirittura che si trattava di una resa di conti interna al partito, una cosa assolutamente incredibile. Se poi qualcuno non ha pianto lo metto tranquillamente in conto.

chi ha ucciso pio la torre libroIo e La Torre ci eravamo conosciuti fuori del partito per via di una comune amica. E mi aveva fatto un’impressione enorme. Nutro una personale simpatia per i miei compaesani che studiano, sono teste dure, non mollano e quando arrivano non è che arrivano per sé, arrivano per gli altri. La Torre era un siciliano di scoglio che se si metteva in mare poteva scoprire l’America.
Conoscevo molto bene anche Giuseppe Montalbano e un po’ meno Girolamo Li Causi, due facce complementari del partito. Li Causi era il capo popolo, Montalbano l’intellettuale ma con scarse qualità oratorie e un certo qual carattere. Ricordo che una sera andammo a teatro a Palermo a vedere Paola Borboni, stavo con Montalbano allora sottosegretario alla Marina mercantile nel governo Bonomi. Siamo nel ’44 o nel ’45. Dopo lo spettacolo la raggiungemmo nel camerino per salutarla e lei gli chiese: “Onorevole stasera ho recitato male, cosa ne pensa?” Lui: “Signora, se lo dice lei che ha recitato male…” . Io avrei voluto sprufunnari.

C’è sempre un momento giusto per i mandanti.
Ma quell’arco temporale tra il 1978 e il 1982 è da far tremare i polsi. Quel che accadde con l’omicidio Moro seguito alla morte di Mattarella e La Torre è un periodo che continua a segnare la nostra storia. Oggi si spara di meno. Il fenomeno mafioso è certamente meno sanguinoso ma non per questo meno pericoloso. E’ sempre più difficile fare la lotta alla mafia perchè è più impalpabile la sua organizzazione, altro che colletti bianchi, sono molto molto di più. Non c’è più bisogno del rituale di una volta, il santino bruciato, la puncicatura, ora bastano le password e le famiglie diventano sterminate perchè il territorio è quello del web quindi è infinito. Negli ultimi tempi la volontà di combattere la mafia è fragorosamente mancata. Hanno recentemente arrestato uno dei cento latitanti più pericolosi, ma scherziamo? Esattamente come una volta: finiva in carcere il guardiano dell’orto ma il proprietario del latifondo se ne era già andato bello e libero per i fatti suoi. Poi lo ritrovavamo ministro o onorevole.
La politica dello struzzo di Maroni che all’inizio descriveva il Nord come territorio libero dalla mafia finirà, come diceva Leonardo Sciascia, per portare la mafia sempre più a nord. Ai tempi di La Torre la situazione era più chiara. Per quanto fosse oscura, uno come Pio riusciva ad individuare i vari rivoli in cui il grande fiume si disperdeva. Riusciva a seguirli. Oggi sarebbe stato difficile anche per uno come lui. Lo aiutava molto la sua conoscenza del territorio, dell’animo dei siciliani, di come la pensano. Questa sua natività siciliana gli ha permesso di capire dove altri non capivano. Oggi è molto più difficile anche perchè c’è stato un impoverimento della statura della classe politica. Se Berlusconi è riuscito ad avere il potere per diciassette anni non è che si è imposto con la dittatura o con la forza delle armi. E’ stato regolarmente eletto dagli italiani. Se la politica ha prodotto un monstrum come Berlusconi vuol dire che ha fallito già vent’anni fa. Oggi si tenta in qualche modo di recuperare i cocci ma non saranno gli uomini che hanno contribuito a far nascere quel monstrum, e che stanno ancora in parlamento, a rinnovare la politica in Italia.

Monti è un tecnico condizionato dalla mala politica. C’è un pallone stratosferico, il Parlamento, un blob vagante che sostiene un governo di tecnici, uno Zeppelin che non ha più ancoraggi con la realtà politica del paese. E l’Europa è rimasta una parola. Perchè ci sono la Francia e la Germania che fanno quel che vogliono mentre l’Italia se la sta pigliando in saccoccia e la Grecia se l’è già pigliata.
Nel 1942 ero un giovane fascista non ancora diciassettenne, ci cridìa ‘u fascismu, e venni invitato a Firenze a un grande convegno internazionale della gioventù fascista. Il tema era l’ordine nuovo europeo. Partii pieno di speranze. Arrivai lì e sentii parlare Baldur Von Schirach, capo della HitlerJugend, e me ne tornai a Porto Empedocle scantato perché l’Europa che prospettavano sarebbe stata una caserma spaventosa. Io avevo tante piccole patrie, ero uno che aveva iniziato a leggere Conrad a sei anni, i miei padri letterari erano tanticchia in Inghilterra tanticchia in Francia, e al partito comunista mi avvicinai di lì a due anni per mia personale formazione. Non avevo incontrato Emanuele Macaluso, non avevo incontrato nessuno. Cominciai a leggere dei testi perchè mio padre era stato squadrista e marciatore su Roma ma possedeva tante belle pubblicazioni socialiste e comuniste. Quando più tardi sentii i capi del partito comunista attaccare una certa cultura, che per me era stata formativa, provai lo stesso disagio dei tempi di Mussolini. Poi venne il manifesto di Ventotene. Sentii parlare di Europa da De Gasperi e Adenauer. E molti anni dopo l’ho vista realizzata l’Europa ma solo sulla moneta. Ora mi domando: se avessimo perso un po’ più di tempo per fondarla su grandi ideali non sarebbe stata più forte?

L’Italia è una paese senza verità, ed è sempre stato un paese che ha accuratamente nascosto la verità. Facciamo l’esempio del brigantaggio meridionale. Se prendiamo un libro di storia viene definito come fenomeno di alcune bande, poi guardando lo specchietto del Comando di Capua riassuntivo per gli anni che vanno dal 1861 al 1863 e si trova scritto: briganti uccisi in combattimento 5.488, briganti fucilati 5.040, briganti arresi 4mila. Ma quali briganti, era un’altra cosa. Però nei libri di storia si continua a chiamarlo brigantaggio meridionale. Così come Pio La Torre è stato ammazzato dalla mafia o Aldo Moro dalle Brigate Rosse o a Ustica quel Dc9 è caduto per un incidente.

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Pio La Torre

Siccome la verità, come diceva la buonanima, è rivoluzionaria, evidentemente in Italia ci credono sul serio e quindi cercano di evitare la rivoluzione. Guardiamo a Portella della Ginestra, a quei tempi c’era un ispettore generale di Pubblica Sicurezza che si chiamava Messana che andava a trovare regolarmente il bandito Giuliano e per Natale ci purtava ‘u panettuni. Da chi era manovrato questo bandito quando sparava a Portella? Solo dagli agrari? Non mi persuade.
E l’occultamento della verità non è prerogativa solo italiana. Nel caso Kennedy rimangono senza risposta interrogativi grossi come una casa. Noi la verità la intuiamo, se su Portella ci fosse stato un processo serio avremmo almeno una verità relativa. Invece ci resta solo una verità che sentiamo a pelle e capiamo che c’è qualcosa che non torna perchè tra segreto di Stato, silenzi e complicità avvertiamo una molteplicità di moventi, ma lì ci fermiamo. E così è capitato per il caso La Torre, dove dietro l’omicidio non c’è una sola causale ma almeno tre. La primaria ti viene sbattuta in faccia e le altre sono coperte. Arrivi ad intuirle ma non a dimostrarle.
Quell’articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera dove diceva: “Io so i nomi dei responsabili delle stragi”; questa è l’unica cosa che si può dire. Non è l’ Io so di non sapere, è l’ Io so di sapere.
Ciò nonostante la società ha spesso più anticorpi delle istituzioni, le più facili ad ammalarsi. Perché subiamo oggi il fascino di certe società o di modi di ragionare che sono più del nord Europa che non del nostro paese? Perchè c’è una maggiore chiarezza nei rapporti umani. Noi non siamo così. Ha ragione Pirandello quando un suo personaggio dice: io di fronte a lei mi costruisco, cerco di dare l’immagine che lei vuole di me. Questa idea pirandelliana è assai meno cervellotica di quel che si pensi, è un modo di fare delle società meridionali, non solo italiane. E in Sicilia tutto questo acquista persino una sua grandeur.
Nella vicenda La Torre ci sono i servizi segreti che lo pedinano per decenni, spariscono i suoi documenti e sparisce la sua borsa. Le borse, chissà perché, spariscono sempre. E c’è la storia di alcuni professori a cui La Torre porta dei documenti riservati da studiare. Pio quelle carte le aveva evidentemente lette, le aveva interpretate e voleva la conferma di quel che aveva capito. E cioè che fra Stato e mafia c’era una relazione continua.
C’è un filo che collega Portella e le stragi fino a via D’Amelio? Perché non ipotizzare un continuum? Fino ad un certo periodo la mafia ha agito per interposta persona. Con lo sbarco degli americani, nel 1943, c’è il salto, un fatto clamoroso non mai abbastanza segnalato. Charles Poletti, capo dell’AMGOT ma in realtà agente Cia inviato in Sicilia, nomina sindaci una quantità di mafiosi, da Calò Vizzini a Genco Russo. E la mafia fa il suo ingresso in politica dopo che era andata in sonno durante il fascismo. Sarà pure politica amministrativa, ma sempre politica è. Ed è qui che si pongono le basi per scegliere quegli uomini collusi che faranno poi carriera politica. Una volta un deputato siciliano disse pubblicamente che si sarebbe rifiutato di far parte di una commissione perché vi era entrato un collega, anche lui siciliano, che lui pensava fosse un mafioso, non venne querelato e non venne sparato, ma la cosa venne detta. Sto parlando degli anni ’50. Se io sono stato eletto con i voti della mafia sono il rappresentante della mafia in Parlamento e questa non è trattativa, è qualcosa in più. Una volta tuttu u paese u canusciva u mafiusu, stava assettatu a u cafè e quella era la persona di riferimento. Quando quello non è più seduto lì ma sta seduto in Municipio e poi in Parlamento cosa accade nella mentalità siciliana? Quando si dice che il povero siciliano era combattuto fra la mafia e lo Stato, in alcuni momenti è in verità combattuto tra mafia e mafia e tra Stato e Stato.
Evidentemente le ultime carte nelle mani di Pio La Torre erano materia esplosiva eppure gli esperti a cui lui intendeva far analizzare quei documenti non sono mai stati interrogati né cercati da un magistrato. Di Pio non ho capito la sua intelligenza. Forse se ne vergognava, forse per prudenza, forse per pudore. Qualcuno della Direzione del partito un giorno mi disse: è un uomo rozzo. E io mi incazzai. E dovendo discutere dell’ammissione in sezione di uno che era operaio dissi: “ammettiamolo benchè operaio”. Venni rimproverato di fare dello spirito inutile.
La Torre è stato per me una rivelazione, io non l’avevo capito quell’uomo. L’ho stimato, l’ho apprezzato ma non l’avevo capito. E’ stata un’occasione persa. Da mangiarsi le dita.

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Peppino Benincasa

17 LUGLIO ORE 17.00. Le ceneri del nostro carissimo compagno Peppina Benincasa sopravvissuto alla strage nazifascista di Cefalonia e Partgiano dell’Ellas saranno esposte nell’atrio del Comune di Palermo per una grande e solenne commemorazione.
Vi invitiamo a partecipare per dare l’ultimo saluto all’indimenticabile Zio Peppino.
Partigiano dell’Ellas,  della Divisione Acqui, Sopravvissuto al massacro nazi-fascista di Cefalonia, cavaliere della Repubblica, Premio Acqui e testimone d’accusa nell’ultimo processo contro il nazista Alfred Stork.    

Compagne, compagni partecipiamo tutti per rendere omaggio ad un compagno, uomo semplice ma straordinario nello stesso tempo; libertario, profondo ricercatore e conoscitore delle ricchezze archeologiche del suo territorio. Uomo di grande intelligenza e umanità. Ci reputiamo fortunati, felici e orgogliosi di avere avuto la fortuna di conoscerlo.

Addio zio Peppino.

Le compagne e i compagni dell’ANPI Palermo Comandante Barbato

14 luglio 2019

 

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L’ANPI e l’8 luglio 1960

La battaglia di Palermo

Angelo Ficarra

Circolo Francesco Vella   

Palermo 22 marzo 2010

Le iniziative per la ricorrenza di questo 50° anniversario del luglio 1960 partono dal lodevole impegno del circolo “Francesco Vella”. Ad esso, ai suoi dirigenti, va la nostra gratitudine soprattutto per avere voluto avviare, col ricordo doveroso dei caduti in quelle memorabili giornate di lotta, una ampia, per molti versi attuale, più approfondita riflessione sul rapporto tra storia e politica.
Rapporto tra storia e politica nel quale inevitabilmente ci siamo imbattuti, nel momento in cui abbiamo registrato come grosse campagne di revisionismo storico abbiano, a vario titolo in questi ultimi vent’anni, fatto da sfondo e da sponda a diverse operazioni politiche e ideologiche.
Allora, in quelle straordinarie, spontanee giornate di popolare mobilitazione si respinse con forza il tentativo di rigurgito fascista messo in atto dal governo monocolore del democristiano Tambroni che si reggeva con l’appoggio determinante, richiesto ed esplicito, del MSI.
Fu una vittoria contro i residuati nefasti della borghesia fascista e mafiosa, imboscata e infiltrata nei gangli dello stato. Certo una vittoria non definitiva. E la lunga teoria delle stragi che avrebbero continuato a costellare la nostra storia ne sono una triste conferma.
Fu soprattutto la risposta ad un violento manifesto tentativo di riemersione fascista nato dalla crisi interna delle forze di maggioranza democristiane che governavano il paese e che costò la vita a diversi inermi cittadini italiani. Erano scesi in piazza in difesa della democrazia e della Costituzione animati dalla innata vocazione alla difesa della libertà e della dignità umana oltre che dagli alti ideali nati dalla Resistenza.
Oggi vogliamo ricordare innanzitutto quei caduti vittime di una insensata, cieca, antica violenza. Vogliamo farlo ricordando tutti i caduti. Ricordando la violenza disumana a limite della barbarie che dappertutto anche qui a Palermo come a Genova e Reggio, a Catania, a Licata segnò quelle giornate.
Violenza figlia di una antica barbarie, frutto non solo di quella “ banalità del male ” (come disse la Harendt del nazismo) che avrebbe continuato a segnare tutto il novecento fino ad oggi,( e quante cose ci dicono parole come Portella della Ginestra, Genova, Bolzaneto , Stefano Cucchi o Rovereto) ma lucida tragica conseguenza di una strategia del terrore che serve a segnare una terribile egemonia, a umiliare i deboli quasi non fossero esseri umani, a cancellare non solo le vittime ma anche ad impedirne, rendendola perseguibile, la memoria e con essa il sogno di una società umana.
Di fronte a questa violenza il silenzio, la rimozione della “società civile”. I giovani di oggi nella loro stragrande maggioranza sconoscono questa storia. Possiamo dire che è una storia sconosciuta a livello popolare. E tutto questo ci deve fare riflettere.
Forse piangendo disperatamente le recinzioni in ferro delle aiuole di via Libertà, le vetrine infrante (forse anche dalle sventagliate di mitra della polizia), e non i morti, la borghesia ancora una volta affermava la sua cieca egemonia facendo passare lo stereotipo della jacquerie, del ribellismo atavico, proseguendo nella sua antica devastante azione distruttrice della identità di un popolo. Per tutto questo vogliamo e dobbiamo avviare una seria ampia riflessione sui lunghi periodi di silenzio, per capire quanta parte di quello stereotipo era passata dentro di noi.
E ciò a partire dalla testimonianza, dalla memoria dei fatti, dei luoghi che sono stati teatro di eventi decisivi per la nostra democrazia. Tradizionalmente a Palermo, oltre i ricordi della sezione Montegrappa, è stato quasi unicamente il sindacato CGIL degli edili, la Fillea, che, a partire dal 20° anniversario, si è lodevolmente intestato alcune iniziative che hanno portato alcuni anni fa anche a dedicare una via periferica ai caduti dell’8 luglio ’60. E’nel 2001 che viene prodotto lo splendido video di Ottavio Terranova che ricostruisce quelle giornate recuperando per la storia preziose testimonianze di diversi protagonisti dell’epoca.

Da qui la necessità di riappropriarci dei tempi e dei luoghi in cui queste tragedie si sono verificate per restituirle alla collettività, alla pietà della gente; per farne momento di rielaborazione critica, collettiva, aperta.

Obiettivi certamente da meglio definire in un processo di ricerca che deve avere la capacità di andare al di là di questo momento e che comunque devono essere emblematicamente e ritualmente commemorativi, ma soprattutto significativi di un modo nuovo di recupero collettivo della memoria come ricerca identitaria delle proprie radici.
I fatti (accenni):
1960: in Italia la Democrazia Cristiana in crisi al suo interno decide di dare vita, per la prima volta dopo la lotta di liberazione dal nazifascismo, ad un governo monocolore guidato da Tambroni con l’appoggio esplicito e decisivo dei fascisti del MSI. E’ l’espressione di una grave crisi interna determinata dal contrasto di due anime della DC una, che fa capo a Moro che vuole aprire al PSI e dare vita ad alcune aperture sociali anche per contrastare meglio il partito comunista, l’altra facente capo fra gli altri a Segni fortemente determinata per una più decisa svolta a destra forte anche delle pressioni americane e delle gerarchie vaticane.
Siamo in pieno clima di guerra fredda e in presenza del più forte partito comunista d’occidente. La scelta della DC inevitabilmente determina una pericolosa confusa deriva anticostituzionale permeata di gladio, servizi segreti cosiddetti deviati e recupero del rigurgito fascista soprattutto in termini anticomunisti.
A giugno il MSI, in cambio del suo appoggio al governo, annuncia provocatoriamente di avere scelto Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, come sede del suo primo congresso nazionale affidandone la presidenza onoraria ad un ex prefetto fascista di Genova che si era particolarmente distinto per i tanti crimini nazifascisti commessi.
Genova dà vita ad un enorme spontaneo movimento antifascista unitario che respinge ogni ipotesi di congresso del MSI nella sua città.

30 giugno.
Centomila persone hanno partecipato alla grande manifestazione antifascista a Genova. Anche lì si conferma il segnale di una straordinaria partecipazione di giovani e giovanissimi; segnale che, come vedremo, per prima si era avvertito a Palermo in occasione dello sciopero generale del 27 giugno. La manifestazione di Genova viene turbata alla fine dalle cariche provocatorie della polizia che danno luogo a violenti scontri. Era intervenuto un noto e famigerato battaglione della “celere” di stanza a Padova, di cui era particolarmente orgoglioso Scelba; famigerato perché particolarmente addestrato all’uso della violenza negli interventi antioperai.
Il direttivo generale della camera del lavoro di Genova riunitosi d’urgenza in serata, mentre il centro cittadino era ancora in balia dei caroselli delle jeep, decideva, con inizio alle ore 6 della mattina del 2 luglio, la proclamazione di uno sciopero generale provinciale.
2 luglio ore 1,40 della notte: Il prefetto di Genova chiama al telefono il segretario della CdL Pigna, operaio metalmeccanico, comunicando che il congresso del MSI non si sarebbe più svolto nella città di Genova. Il giornale L’ORA di Palermo nella sua edizione del sabato 2 domenica 3 luglio titola su otto colonne “Genova ha vinto Tambroni in difficoltà” “Gronchi ha convocato Tambroni al Quirinale”.
Ma Tambroni non molla forte anche delle pressioni della ambasciata americana in Italia che spudoratamente sul suo Rome Daily American aveva commentato i fatti di Genova scrivendo: ”Tambroni sarebbe stato giustificato se avesse chiamato le truppe a reprimere le manifestazioni.”
Da qui in avanti si registra una accelerazione nel comportamento di polizia e carabinieri.
5 luglio Licata. Sciopero generale per il lavoro proclamato da un comitato popolare con in testa unitariamente la amministrazione comunale. Al grido di Licata non deve morire partecipano 20.000 persone. Schieramento particolare di polizia , battaglioni di carabinieri e reparti speciali provenienti da Palermo, Catania e Agrigento. Diverse forze dislocate nelle campagne vicine, cingevano di assedio la città. La polizia spara e uccide Vincenzo Napoli un giovane di 22 anni.
6 luglio Roma Porta S. Paolo. Manifestazione per la democrazia e deposizione di una corona al sacrario della Resistenza. Bestiale carica della polizia e dei carabinieri a cavallo. Inseguiti ed arrestati fin dentro le case i borgatari romani.
7 luglio Reggio Emilia: cinque manifestanti uccisi dalla polizia. Massacri caparbiamente perseguiti dal governo Tambroni in risposta alla sconfitta di Genova. Lo sbigottimento fu enorme pari solo al miscuglio di sconforto e rabbia che suscitò in noi.
Subito nel pomeriggio fu proclamato dalla CGIL per l’indomani 8 luglio ’60 lo sciopero generale nazionale in difesa della democrazia.
La mattina dell’8 luglio all’apertura della seduta del Senato il presidente democristiano Merzagora, in una attenzione intensissima dell’aula, dichiarava: “la gravità della situazione e la consapevolezza che tutti i valori più sacri della Costituzione ne risultano compromessi “mi spingono a formulare una proposta concreta per risolvere dignitosamente i conflitti in atto”.
Era una proposta di tregua dettagliatamente articolata che prevedeva significativamente tra l’altro che – cito testualmente – “le guardie , le forze armate rimangono in caserma salvo i contingenti normalissimi”. Tamboni purtroppo si ostina sulla strada della violenza; i fascisti quindi riconfermano l’appoggio al governo. Dicono con ambiguità no alla tregua liberali, monarchici e il PDI, i demoitaliani.
Sono ore convulse che ci testimoniano come la situazione fosse arrivata sull’orlo del baratro. E di questo avevamo diffusa consapevolezza allora nonostante il fazioso atteggiamento della Rai -TV : oltre a ripetere per tutto quell’8 luglio che lo sciopero era fallito, tutti sono al lavoro, era persino arrivata a censurare la proposta di tregua dandone confusa sommaria notizia. Ci fu persino una vibrata protesta di Merzagora per il comportamento della Rai. Tambroni non vuole andarsene e si contrappone al Parlamento. La D.C. prende tempo e rinvia. Sono titoli e sommari dei giornali i quali riporteranno la notizia che “Moro, a sentire le voci messe in giro dai d.c. a Montecitorio, dormirebbe fuori casa”. E’ questo il clima da golpe che si respirava in quei giorni del luglio 1960

A Palermo e un po’ ovunque in Italia, per la prima volta dalla caduta del fascismo, lo sciopero fu caratterizzato da una straordinaria, massiccia, inattesa partecipazione di giovani; i giovani dalle magliette a striscie. Il segnale di un ingresso così significativo di una imponente massa di giovani sulla scena sociale e politica invero in Sicilia si era già avvertito a Palermo poco più di una settimana prima, il 27 giugno, in un grandioso sciopero per lo sviluppo industriale e per migliori condizioni e prospettive di vita. Lo sciopero aveva registrato una furiosa carica della polizia sui dimostranti all’altezza della Cattedrale. Ma era successo un fatto nuovo; per la prima volta i giovani avevano respinto la violenza della polizia.
Ricordo ancora l’impressione che mi fece quando vidi quel 27 giugno, imboccando la via Maqueda dalla porta S. Antonino verso le sette o le otto di sera (venivo da via Archirafi dove avevo sostenuto un esame di Fisica), diversi autobus bloccati e abbandonati lungo la via.

8 luglio 1960. Dalla cronaca di quella giornata.
Quella mattina Pio La Torre e Nicola Cipolla, da una testimonianza di quest’ultimo, con i compagni della camera del lavoro si erano recati all’ingresso degli operai al cantiere navale per informarli della strage di Reggio e dello sciopero generale dalle ore 14.
La testimonianza di un anziano impiegato del Cantiere Navale recuperata da Marcello Cimino in occasione del 20° anniversario ci dice che “scioperarono tutti gli operai effettivi ma vennero bloccati dalla polizia subito, all’uscita dai cancelli” a mezzogiorno. “Riescono però ad aggirare lo sbarramento e a risalire la via dei cantieri fino al cavalcavia dove un più forte cordone di polizia li ferma. Segue un primo scontro a base di gas lacrimogeni. Gli operai si riaccorpano in corteo più avanti risalendo la via Duca della Verdura. All’altezza del fondo Amato dove ora sorge l’Istituto Tecnico industriale, allora tutto voragini e macerie, altra carica della polizia, altra sassaiola, altri gas lacrimogeni e altro aggiramento degli operai che continuano la marcia verso piazza Politeama dove il caos era già cominciato”
E’ il segnale che la polizia tenta, per ordine del governo, di impedire lo sciopero e la manifestazione violando le più elementari garanzie delle libertà costituzionali; altro che mantenere l’ordine pubblico.
Già in piazza Politeama “migliaia di scioperanti, di giovani e di cittadini fin dalle ore 13 sono cominciati ad affluire. La piazza dalle 14 in poi e per tutta la serata è divenuta l’epicentro di continui, violenti scontri con i reparti di poliziotti e carabinieri”.
A mezzogiorno era cominciato l’esodo da tutti i cantieri edili. Alle 14 in punto tutti i filobus e gli autobus dei trasporti urbani erano rientrati, senza eccezione alcuna, nelle rimesse.

“Alle 14,30 cortei di giovani e di lavoratori, partendo dal Politeama, imboccavano la via Ruggero Settimo. A un certo punto, alle spalle dei dimostranti piombavano una mezza dozzina di jeeps cariche di celerini i quali cominciavano a caricare violentemente. I dimostranti sparpagliatisi in gruppi” – una parte del corteo scese per via Emerico Amari – “organizzavano la difesa”.
“Le jeeps lanciate a pazza velocità venivano fatte segno a lanci di sassi e di paletti di legno.
Il tratto dell’asse piazza Politeama piazza Massimo era divenuto un campo di battaglia.

Trascrivo dalla testimonianza di Manlio Guardo dottore in Chimica dirigente giovanile comunista, al quale, già arrestato e caricato ammanettato su una camionetta della polizia con altri due dirigenti del PCI Giuseppe Messina e Piero Calcara, un ufficiale urla: – Ho il diritto di ucciderla!-
Ore 15.05: all’angolo fra via Principe di Belmonte e via Ruggero Settimo scorgo un folto gruppo di dimostranti che comincia a costruire una barricata con quanto riesce a trovarsi intorno. Insieme con il segretario della Camera del Lavoro Pio La Torre mi caccio in mezzo alla calca. Cerchiamo di impedire che si continui ad accumulare ostacoli sulla strada, intuiamo che già questo costituirà un buon pretesto per la reazione delle forze di polizia. Ma quando tentiamo di trascinare con noi la folla in direzione del Politeama, giovani e vecchi ci affrontano: – Che calma volete, gridano, chisti sparanu, chisti ammazzanu!-. Tutti sapevano dell’eccidio di Reggio, tutti temevano il peggio, erano certi che il peggio sarebbe presto venuto.
Per bloccare i caroselli delle jeeps, con tutti i mezzi di fortuna disponibili compresi i bidoni di latta che allora spingevano a mano i netturbini, si erano improvvisati degli sbarramenti. Qui di fronte alla inattesa resistenza dei manifestanti i reparti armati perdono la testa: oltre al lancio di bombe lacrimogene, di candelotti lacrimogeni e di idranti che erano entrati in funzione a piazza Politeama incominciano a sentirsi colpi di fucile e le prime sventagliate di mitra.
“La furia incontrollata di chi dirigeva le forze di polizia è esplosa verso le 17,15 del pomeriggio, quando la massa dei dimostranti, dopo aver fatto fronte a numerose cariche, si è attestata in via Maqueda”.

Dirigenti sindacali e deputati regionali, ormai sospettate le gravi intenzioni della polizia, avevano tentato di fare intervenire il presidente della regione sul prefetto e il questore per fare ritirare i reparti armati e consentire di riportare la calma e sotto controllo la situazione. Ma tutto è inutile. Sembra che apparentemente scollegati fra loro altri reparti nel frattempo entrano in azione vanificando ogni tentativo di non fare precipitare la situazione.
La battaglia continuerà fino a tarda sera con un terribile bilancio di violenza e di morte.
Le cariche violente della polizia, i caroselli delle jeeps, le bombe lacrimogene, le sventagliate di mitra in piazza Massimo avevano sospinto una parte dei dimostranti in via Maqueda e un’altra massa verso via Cavour. Pare che sia in questa fase che un colpo di fucile sparato in aria da piazza Massimo alle spalle dei dimostranti colpisce la signora Rosa La Barbera mentre stava chiudendo le persiane del suo balcone in via Rosolino Pilo; morirà l’indomani in ospedale.
Fra i dimostranti che si dirigono verso via Maqueda c’è Francesco Vella. Operaio edile, dirigente comunista della sezione Monte Grappa, ha un grandissimo ascendente fra i giovani operai edili di Palermo. Siamo nel pieno del sacco edilizio di Palermo con fortissimo controllo mafioso. Si parla di pizzo giornaliero per lavorare nei cantieri. Vella per i giovani edili è certamente un importante punto di riferimento anche in questa battaglia. Dalla testimonianza di Vincenzo Sanfilippo allora amorevole fidanzato di Fina, figlia di Ciccio Vella, che poi sposerà, sappiamo dell’atteggiamento premuroso, paterno di Ciccio verso i suoi giovani edili. Grida, li esorta a mettersi al riparo, non fatevi ammazzare. Li sospinge dentro la via Bari al sicuro dei colpi di fucile e di mitra che ormai la polizia tira all’impazzata. I manifestanti non erano fuggiti neanche quando chiazze di sangue e i corpi accasciati al suolo hanno dato la misura della tragedia. Si sono visti dei ragazzi correre contro i carabinieri, afferrare le canne dei mitra con le mani e gridare “sparate, sparate assassini”. E qui che Francesco Vella viene colpito vittima della sua grande paterna generosità. E’ Lillo Roxas, grande dirigente comunista nisseno, che ne rese allora testimonianza: “Io ero con Ciccio Vella un minuto prima che un assassino in divisa mirasse e lo ammazzasse”. Ciccio Vella cade fra le braccia di Vincenzo Sanfilippo.

“Erano circa le ore 19.” Così ricorda quei momenti Giacomo Di Giugno, laureando in medicina. “In piazza Verdi si era radunata una folla in gran parte composta da coloro che cercavano di allontanarsi da via Ruggero Settimo dove poco prima erano stati lanciati dei candelotti lacrimogeni. La gente aveva gli occhi rossi ed era confusa: stava ferma a gruppi in vari punti della piazza. Un folto gruppo era davanti alla scalinata del Massimo.
Ad un certo punto da dietro il teatro, forse da via Volturno, sopravvennero alcuni camion o jeep carichi di carabinieri e agenti. In quel momento la piazza era calma. Ma all’improvviso gli armati scesero dai loro mezzi e si lanciarono addosso alla gente piccchiando all’impazzata con i manganelli e i calci dei fucili. Alcuni cittadini furono così abbattuti e lasciati per terra, molti altri furono afferrati brutalmente e sospinti con calci e pugni sui camion. Allora i giovani che erano fra la folla cominciarono a disselciare il marciapiede e a lanciare sassi contro i poliziotti i quali furono costretti a ritirarsi verso la via Cavour. A questo punto cominciarono a sparare dapprima in aria. Poi, avvertendo le pallottole frusciare fra gli alberi piuttosto bassi della piazza, mi resi conto che abbassavano il tiro. I dimostranti cominciarono a diradarsi riparandosi nelle stradine adiacenti.
Anche io, che ero con alcuni altri studenti e cittadini, …..cominciai a fuggire per ripararmi. Mi trovai così accanto ad un giovane bruno quasi della mia altezza e imboccammo assieme via Salvatore Spinuzza. …mi girai un momento e vidi distintamente un poliziotto appostarsi all’angolo della valigeria e mirare verso di noi con un’arma da fuoco che aveva una grossa canna, forse un mitra, e sparare. Subito dopo vidi il giovane che era accanto a me portarsi una mano al fianco e contrarre il viso per il dolore. Lo sorressi abbracciandolo e lo condussi al riparo nel vicolo vicino. Cominciai a chiamare aiuto. Nessuno dapprima venne perchè la polizia continuava a sparare. Finalmente si avvicinarono alcune persone che sollevarono il ferito e lo caricarono su una macchina. Seppi dopo che si trattava di Andrea Gangitano”.

Nelle stesse ore, a testimonianza di un unico orientamento deciso a spingere avanti e a far precipitare nel tentativo di renderla irreversibile l’avventura tambroniana, viene barbaramente ucciso a Catania Salvatore Novembre 22 anni.
Decine di persone hanno assistito all’azione criminosa di un agente di polizia che ha sparato mirando freddamente contro un giovane che ripetutamente colpito da manganellate si era accasciato sanguinante dietro la saracinesca abbassata del cinema Olimpia: gli ha sparato addosso 2-3 colpi di pistola tirando al bersaglio.
Poi chissà quasi a modificare la scena del delitto altri agenti brutalmente, forse senza rendersene conto o forse ubbidendo agli ordini di un superiore, trascinano il morto in mezzo alla via dove lo lasciano dissanguare.
Scene di violenza e di ordinaria follia.
Avevo accennato in premessa a questa cronaca della “Battaglia di Palermo” come la “società civile” palermitana non avesse avuto lo scatto di orgoglio di difendere i suoi figli, come mostrasse ancora una volta tutta la sua subalternità alla rappresentazione che mettono in scena i portavoce della sua classe dirigente.
E la sua classe dirigente è quella del sacco di Palermo, quella dei sindaci Lima, Ciancimino, quella che non aveva tanto pianto le ville liberty di via Libertà fatte saltare in aria dalla borghesia mafiosa quanto disperatamente le recinzioni in ferro delle aiuole calpestate l’8 luglio, le vetrine infrante ma non i morti. E’ la classe dirigente che plaude all’intervista rilasciata meno di un anno prima dal suo cardinale che dichiara che “ la mafia non esiste. E’ una invenzione dei comunisti”. Di questa rappresentazione in qualche modo si dichiara vittima lo stesso quotidiano L’ORA quando, 5 giorni dopo l’8 luglio, riporta fra le altre la trasparente, genuina testimonianza di Giuseppe Malleo 15 anni, fontaniere che vede all’angolo della via Celso “un carabiniere che alzò il moschetto e mi sparò addosso”. Malleo morirà alcune settimane dopo. Scrive L’ORA“ che una più precisa conoscenza e una più ponderata considerazione dei fatti hanno fatto giustizia delle interessate voci allarmistiche e di certi prevenuti stati d’animo che avevano attribuito ad alcuni episodi di reazione da parte dei dimostranti un bilancio dimostratosi poi del tutto sproporzionato.”
Purtroppo lo stereotipo, era in gran parte passato. Il Giornale di Sicilia piangendo le aiuole aveva parlato di plebaglia. Era addirittura arrivato a distinguere fra lavoratori e plebaglia per giustificare la violenza scatenata dal governo Tambroni a sostegno del quale si era apertamente schierato.
Un velo di silenzio fu steso su quanto accadeva l’8 luglio dentro palazzo Comitini allora sede della prefettura secondo un antico canovaccio ormai collaudato che era pure servito a rimuovere un altro terribile episodio di violenza proprio lì accaduto nel 1944: la strage a colpi di bombe a mano e di mitra di 23 cittadini di Palermo fra cui moltissimi giovani.
Erano altri aspetti terribili della violenza.
Gli arrestati a centinaia venivano scaricati dalle camionette della polizia e dai cellulari dei carabinieri e, a via di urla volgari e di “cornuti”, “sporchi comunisti”, venivano spinti dentro il cortile della prefettura dove erano costretti a passare fra due fila di poliziotti urlanti che a sputi e a calci li indirizzavano per ammassarli e rinchiuderli in una grande stanza in fondo.
Le condizioni in cui si ritrovarono i fermati ammassati in una stanza quel otto luglio 1960, richiamano alla memoria le parole di Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, cronaca della famosa razzia dei tedeschi col concorso dei fascisti nel Ghetto di Roma che si concluse con la deportazione di più di mille ebrei nei campi della morte in Germania.
“Ogni tanto un ordine minaccioso, urlato, ristabiliva un momentaneo e quasi più angoscioso silenzio.
Poche ore erano bastate perché, nei locali stipatissimi, cominciasse a stagnare quella vita infetta, che è come il miasma di tutte le carceri e luoghi di deportazione. Sentinelle e sorveglianti impedivano quasi sempre di raggiungere le latrine.
Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza rispetto di se stessi, fu subito evidente.” ( In “Galleria” 1955, fascicolo della rivista dedicato al decennale della liberazione)
Dalla preziose testimonianze di Manlio Guardo, Calcara, Messina, Aldo Caronia, tutti studenti laureandi, Domenico Zangara cameriere e tanti altri.
“Quando giungiamo in Questura un nugolo di (agenti?) è disposto lungo il colonnato”. É un corridoio di colpi di ogni specie e di insulti. I più giovani hanno la peggio. Gridano e piangono. Vi sono ragazzi di 14 e 15 anni. Mentre li perquisiscono continuano a bastonarli. Finiamo tutti in una cella di cinque metri quadrati e siamo in 25. é una fornace nella quale rimarremo molte ore senza un sorso di acqua. Quando verso mezzanotte saremo trasportati e rinchiusi nella sala colloqui dell’Ucciardone avrò modo di misurare gli effetti di quel trattamnto.
Siamo circa 330. Vi sono ragazzi che hanno perso la camicia o se ne sono disfatti quando era in pezzi. Ci mostrano la schiena segnata da dieci, dodici, quindici colpi di manganello. Uno ha un gonfiore sul rene destro grosso come una pagnotta e soffre orribilmente. Un ragazzo ha una larga ferita sanguinante sullo zigomo destro e non riuscirà a ricevere alcuna cura. Uno dei miei compagni, studente di medicina, è ferito all’occhio destro, vi è un taglio profondo e una larga ecchimosi. È stato un colpo di manganello. Un signore anziano, pelato e (…) ha la schiena letteralmente martoriata, è contrassegnato da una quantità di colpi. Per gli altri, tutti, è solo questione di misura.
La battaglia di Palermo Onore ai martiri della libertà

Dimensioni reali della battaglia
Sua durata dalla mattina alla sera trovare riferimenti
Partecipanti
– strati sociali
ragazzi con le magliette a striscie
operai del cantiere navale: escono alle 12
tentativo della polizia di bloccarli
descrizione
arrivano a piazza Politeama dopo diverse cariche che tentano di sciogliere il corteo ( vedi Marcello Cimino)
dati prelevabili da diverse testimonianze.
Onore ai martiri della libertà (vedi Romano Bernardino Verro per Caltavuturo).
Perché abbiamo cantato i morti di Reggio Emilia e non abbiamo cantato i nostri morti ?
Il precedente del 27 giugno
Pagina 4 L’ORA Mercoledì 13- Giovedì 14 Luglio 1960

Le gravi testimonianze sulle sparatoie di Palermo

(continua dalla prima pag.)

Marmi. Mi hanno preso in testa e sulle spalle. Meno male che non mi venne la crisi. Perchè sono sofferente si epilessia. Che vi devo dire? Di scioperi ne capisco poco. Io ho bisogno solo di una cosa. Di pane per i miei figli. Piangono, e a me piange il cuore. Guardo mia moglie che ormai è pronta per comprare (?) l’altro bambino e mi ammazzerei. Che cosa gli devo dare da mangiare al mio figlio nuovo? Ma chi me li da i soldi? Tre anni che cerco un posto. Un posto qualsiasi, anche netturbino. Ma non mi vuole nessuno. Neanche la morte mi ha voluto!

Ho visto uccidere il giovane Gangitano
GIACOMO DI GIUGNO, 28 anni laureando in medicina,
“Erano circa le ore 19. In piazza Verdi si era radunata una folla in gran parte composta da coloro che cercavano di allontanarsi da via Ruggero Settimo dove poco prima erano stati lanciati dei candelotti lacrimogeni. La gente aveva gli occhi rossi ed era confusa: stava ferma a gruppi in vari punti della piazza. Un folto gruppo era davanti alla scalinata del Massimo.
Ad un certo punto da dietro il teatro, forse da via Volturno, sopravvennero alcuni camion o jeep carichi di carabinieri e agenti. In quel momento la piazza era calma. Ma all’improvviso gli armati scesero dai loro mezzi e si lanciarono addosso alla gente piccchiando all’impazzata con i manganelli e i calci dei fucili. Alcuni cittadini furono così abbattuti e lasciati per terra, molti altri furono afferrati brutalmente e sospinti con calci e pugni sui camion. Allora i giovani che erano fra la folla cominciarono a disselciare il marciapiede e a lanciare sassi contro i poliziotti i quali furono costretti a ritirarsi verso la via Cavour. A questo punto cominciarono a sparare dapprima in aria. Poi, avvertendo le pallottole frusciare fra gli alberi piuttosto bassi della piazza, mi resi conto che abbassavano il tiro. I dimostranti cominciarono a diradarsi riparandosi nelle stradine adiacenti.
Anche io, che ero con alcuni altri studenti e cittadini, fra cui un signore anziano (forse un medico o un farmacista a giudicare dai discorsi) cominciai a fuggire per ripararmi. Mi trovai così accanto ad un giovane bruno quasi della mia altezza e imboccammo assieme via Salvatore Spinuzza. Mentre ci dirigevamo verso un vicolo che sbocca in via Bara, mi girai un momento e vidi distintamente un poliziotto appostarsi all’angolo della valigeria e mirare verso di noi con un’arma da fuoco che aveva una grossa canna, forse un mitra, e sparare. Subito dopo vidi il giovane che era accanto a me portarsi una mano al fianco e contrarre il viso per il dolore. Lo sorressi abbracciandolo e lo condussi al riparo nel vicolo vicino. Cominciai a chiamare aiuto. Nessuno dapprima venne perchè la polizia continuava a sparare. Finalmente si avvicinarono alcune persone che sollevarono il ferito e lo caricarono su una macchina. Seppi dopo che si trattava di Andrea Gangitano”.

Sono in grado di riconoscere il tenente che mi sparò
LUIGI CANDELA, 25 anni, Via Immacolatella n. 108, allo Sperone – lucidatore
Sono lucidatore di pavimenti. Guadagno circa 1200 lire a giornata. Non sono sposato. Abito con i miei. Tutti i miei fratelli lavorano. Non dico che stiamo bene, ma si lavora e si mangia, ecco.
Come sono rimasto ferito durante i disordini di venerdì? Nel pomeriggio avevo deciso di andare a fare visita a mia nonna, in vicolo Marotta. Quando sono giunto all’angola che la via Bari forma con via Maqueda, vicino alla Galleria delle Vittorie, sentii clamori forti che provenivano dalla via Napoli. Stavo per sbucare sulla via Maqueda quando mi venne incontro un tenente della P.S. che mi puntò una pistola contro le gambe e fece fuoco. Lo saprei riconoscere tra diecimila persone. Giuro che ero compleramente solo sulla strada, non avevo nè armi nè bastoni in mano, non correvo, non gridavo. Il tenente subito dopo avere esploso il colpo diretto contro di me girò il braccio di un palmo e continuò a fare fuoco contro altri. Io caddi in ginocchio. Sentii un gran freddo al piede destro. Riuscìi a stringermelo tra le mani. Mi guardai attorno in cerca di aiuto e vidi il tenente che continuava a sparare, calmo. Qualcuno che non ricordo mi prese in braccio, mi caricò su una macchina, mi consegnò agli infermieri del pronto soccorso in via Roma. Poi andai a finire a Villa Sofia. Mi hanno interrogato parecchie volte. Non vogliono credere che sarei capace di riconoscere il tenente. Invece vi assicuro che ne sarei capace, parola d’onore.

Vidi sul ginocchio il buco della pallottola
CARMELO BROTTO, 17 anni, Vicolo Cusimano, n.6 – studente
Sono studente del V ginnasio. Mio padre è disperso in guerra. Mia madre non lavora perchè è ammalata. Ho un fratello laureando in legge, ed un altro studente al terzo liceo. Ci aiutano i parenti di mio padre, pagandoci le tasse scolastiche e comprandoci i libri di testo, non mi vergogno di dire che è come se vivessimo a giornata. Non sappiamo mai che cosa succederà l’indomani. Ecco come sono rimasto ferito durante i disordini di venerdì.
Verso le ore sedici uscì di casa perchè avrei dovuto comprare il pane per i miei. Ma i panettieri erano tutti chiusi. Mi accorsi che le strade del centro erano piene di gente che gridava, correva, tornava indietro… strinsi le distanze, diciamolo pure, per curiosità. Mi trovai tra tutta quella gente, proprio all’angolo che la via Maqueda forma con la via Napoli. Insomma, alla Galleria delle Vittorie. È stato a quel punto che qualcuno mi ha sparato. Chi? Non lo so proprio. Ricordo solo di avere sentito un colpo sul ginocchio destro, come di una pietra che arriva. Subito me lo toccai. Il ginocchio, ma non riscontrai nulla di anormale. Un attimo dopo dovetti appoggiarmi a una saracinesca. Uno accanto a me gridò :- Ti hanno ferito?-. Io prima di rispondere volli sincerarmi e alzai il calzone. Mi ricordo che il quel momento qualcuno vicino grido :- Hanno ammazzato uno!. Vidi sul ginocchio il buco della pallottola. Mi si avvicinò uno con uno scooter e mi disse :- Monta. Ti porto all’Ospedale-. E sono andato con lui. Alla guardia medica di via Roma tentarono di togliermi la pallottola spremendo la ferita. Quando videro che non potevano fare nulla, mi mandarono qui a Villa Sofia con una autoambulanza. Qui il trattamento è stato buono. Solo che abbiamo avuto un sacco di interrogatori di polizia.

La mano entrò tutta dentro la ferita
SALVATORE LIPARI, 14 anni, Via Tavola Tonda, n. 5
Io non vorrei neanche parlare dei disordini di venerdì. I medici dicono che la mia ferita non è da trascurare. Ancora mi brucia, e come! La prossima volta che sento parlare di sciopero neanche esco. Io sono rimasto ferito venerdì sera, molto tardi, durante l’assalto al negozio Spatafora, quello delle scarpe. Passavo di lì per combinazione. Ero diretto a casa mia. Vidi alcuni davanti al negozio e ci andai pure io. Quando arrivai lì vicino vidi la lastra di vetro della vetrina che stava cedendo. Mi tirai indietro e mi girai. Arrivai per un pelo. Altrimenti il vetro mi sarebbe caduto sul collo. Invece mi sentii il piede destro caldo caldo. Me lo toccai dove c’era il sangue e la mano entrò tutta dentro la ferita, sino in fondo. Allora cominciai a gridare a tutti di muoversi, di portarmi all’ospedale. La rima macchina sulla quale mi caricarono incappò nell’asfalto rotto di via Roma e non si mosse più. Io stesso dovetti sollecitare per essere caricato su un’altra auto che facesse il giro dalla via Maqueda. Meno male che almeno io non ho perso la testa! Al pronto soccorso di via Roma mi tamponarono le ferite e poi mi mandarono in ospedale per il ricovero.

Un ufficiale mi urlò: – Ho il diritto di ucciderla!-
MANLIO GUARDO, 26 anni, via Marchese Ugo n. 58 – dottore in chimica
Ore 13.03: all’angolo fra via Principe di Belmonte e via Ruggero Settimo scorgo un folto gruppo di dimostranti che comincia a costruire una barricata con quanto riesce a trovarsi intorno. Insieme con il segretario della Camera del Lavoro Pio La Torre mi caccio in mezzo alla calca. Cerchiamo di impedire che si continui ad accumulare ostacoli sulla strada, intuiamo che già questo costituirà un buon pretesto per la reazione delle forze di polizia. Ma quando tentiamo di trascinare con noi la folla in direzione del Politeama, giovani e vecchi ci affrontano: – Che calma volete, gridano, chisti sparanu, chisti ammazzanu!-. Tutti sapevano dell’eccidio di Reggio, tutti temevano il peggio, erano certi che il peggio sarebbe presto venuto.
La nostra fatica tuttavia non è inutile. Riusciamo a farci seguire dalla maggioranza del gruppo fino alla piazza. A questo punto un autocarro dei carabinieri carico di uomini armati di moschetto o di mitra si avvia dal centro della piazza verso la barricata improvvisata, mentre dai Quattro Canti di Campagna giungono delle camionette della Celere. I carabinieri scendono dal camion, sono molti, il loro sguardo è quello di uomini febbricitanti, qualcuno – appena a terra- spiana l’arma. Dall’altra parte vola una sassata. Una voce grida: – No! Ai carabinieri no! -. La gente sa chi ha sparato a Reggio Emilia e la vecchia tradizione di rispetto per la benemerita non si è ancora spenta in Sicilia. Più tardi verrà scossa alquanto.
Vedo il commissiario Nicolicchia avanzare alla testa dei carabinieri, gli vado immediatamente incontro: – Per carità, gli dico, che i suoi uomini non perdano la testa senza ragione, ci sono tutte le possibilità di evitare i guai- – Va bene, fa lui, cerchi di trattenerli-. E li tratteniamo infatti, ma non è che una beffa. Alle nostre spalle si è disposto un reparto della Celere, ed è la carica, violenta, spietata. Gli agenti digrignano i denti ed urlano come lupi. Si avventano su quelli che corrono e su gli altri che stanno fermi e guardano, indiscriminatamente. In quel momento mi rendo conto che questi uomini non sono, non possono essere in un normale stato fisiologico.
In quel momento dal fondo di via Enrico Amari si preparava l’offensiva, evidentemente studiata a tavolino, nei minimi particolari. Una formazione di camionette, autocarri, autocisterne munite di idranti, procedeva come su un campo di esercitazione verso Piazza Ruggero Settimo e Piazza Castelnuovo con un massiccio coro di sirene. Gli idranti entravano in azione improvvisamente al’altezza del teatro e nello stesso istanze le jeeps improvvisamente acceleravano la marcia e si scagliavano sulla folla. Poi il grosso dell’autocolonna imboccava via Libertà, le autocisterne in testa con gli idranti in azione. Credo che in parte si trattasse di acqua colorata.
I gruppi di dimostranti temporaneamente dispersi tornavano a costituirsi in Piazza Castelnuovo, ma non era finita. Sul marciapiede, dalla parte di via Dante, è schierato un altro reparto di agenti al comando del commissario Campagna e del maresciallo Bertolozzi. Si muovono. Prevedo come andrà a finire e mi rivolgo al commissario. Immagino che il suo comportamento non debba essere diverso da quello del suo collega di prima. Ma l’immaginazione non è evidentemente in questi frangenti la qualità più utile. La conversazione si svolge all’inizio in modo normale. Accanto a me sono adesso altri due giovani dirigenti del P.C.I., Messina e Calcara. Partecipano anch’essi. Spieghiamo assieme (quasi fosse necessario) che non vi è nessuna ragione di arrivare a una strage, che si deve mantenere la calma, soprattutto fra gli agenti, perchè nessuno riuscirebbe a contenere l’indignazione della folla se si insistesse con la violenza. Improvvisamente il tono cambia, mi si chiede di qualificarmi e quando lo faccio, i due funzionari assumono un comportamento arrogante e provocatorio, ci accusano perentoriamente di essere sobillatori e istigatori alla violenza. Ormai l’intenzione è più chiara. Viene la dichiarazione d’arresto, vengono le manette che – applicate in fretta e furia- segano il polso sinistro producendo un dolore insopportabile. Il maresciallo Bertolazzo – prima evidentemente distratto – mi urla dietro finalmente :- In nome della legge!-.
Veniamo caricati tutti e tre su una camionetta sopraggiunta. Con i polsi imprigionati ho avuto difficoltà a montare. Questo ha ulteriormente imbestialito gli agenti che si sfogano sulla mia schiena, gli altri non ricevono un trattamento diverso. É questo per noi… di una avventura incredibile. Non ci dirigiamo verso la Questura, la nostra jeep continua a partecipare all’azione del suo reparto come se nulla fosse avvenuto. Per oltre mezz’ora percorriamo la città da un capo all’atro. Via Amari, via Wagner, va Scordia, via Principe di Belmonte. Qui, ad una fermata durante la quale gli agenti si avventano contro un portone chiuso, ha luogo l’episodio più significativo e più mostruoso. Mentre sono disteso sul fondo dell’auto, sotto i piedi degli agenti con la sola testa fuori del bordo, un ufficiale che sta fuori sulla strada mi viene vicino e ponendo la mano destra sul fodero della pistola urla: -Delinquente, io ho il diritto di ucciderla, ho il potere di ucciderla, la uccido!-. Per buona sorte la jeep in quell’istante riparte. Se il diritto è solo una questione di fatto allora la distanza è la migliore difesa.
I caroselli della nostra jeep continuano, ritorniamo in via Emerico Amari. Ci fermiamo ad ogni piè sospinto. Gli agenti tremanti. La paura è più che evidente sui loro volti, una paura folle, quasi avessero dinanzi un esercito armato di cannoni piuttosto che una folla assolutamente inerme. Il resto è quello strano stato di eccitazione che descrivevo al principio. Cominciarono a lanciare una quantità interminabile di candelotti lacrimogeni. É un momento molto brutto per noi che non abbiamo occhiali e non sappiamo come proteggerci, e dura a lungo. Per un miracolo che finalmente ci allontaniamo dalla zona. Sta per raggiungere la “Cairoll”, ci vorrà almeno un quarto d’ora. Un quarto d’ora di cariche, caroselli, aggressioni e tutti i passanti, anche in posti lontanissimi dal teatro degli scontri, come al palazzo di Giustizia, dove bastonano un ragazzo che tiene in mano un cono gelato.
Quando giungiamo in Questura un nugolo di (agenti?) è disposto lungo il colonnato, sulla via della…. É un corridoio di colpi di ogni specie e di insulti. I più giovani hanno la peggio. Gridano e piangono. Vi sono ragazzi di 14 e 15 anni. Mentre li perquisiscono continuano a bastonarli. Finiamo tutti in una cella di cinque metri quadrati e siamo in 25. é una fornace nella quale rimarremo molte ore senza un sorso di acqua. Quando verso mezzanotte saremo trasportati e rinchiusi nella sala colloqui dell’Ucciardone, avrò modo di misurare gli effetti di quel trattamnto.
Siamo circa 330. Vi sono ragazzi che hanno perso la camicia o se ne sono disfatti quando era in pezzi. Ci mostrano la schiena segnata da dieci, dodici, quindici colpi di manganello. Uno ha un gonfiore sul rene destro grosso come una pagnotta e soffre orribilmente. Un ragazzo ha una larga ferita sanguinante sullo zigomo destro e non riuscirà a ricevere alcuna cura. Uno dei miei compagni. Studente di medicina, è ferito all’occhio destro, vi è un taglio profondo e una larga ecchimosi. È stato un colpo di manganello. Un signore anziano, pelato e (…) ha la schiena letteralmente martoriata, è contrassegnato da una quantità di colpi. Per gli altri, tutti, è solo questione di misura.

La nuova carica seminò il caos
LORENZO PIZZOLO, 22 anni, Cortile della Mercede al Capo- pescivendolo
Vive con la madre, i fratelli, una cognata rimasta vedova con un piccolo: di tutti è l’unico a lavorare di tanto in tanto.
Mi trovavo in via Maqueda insieme ad altri lavoratori quando una nuova carica della polizia arrivò. Il caos nella zona: molti si diedero a scappare, io invece rimasi lì per non lasciare solo gli altri che erano con me. Ad un certo punto, all’angolo di via Candelai una camionetta della polizia si avvicinò al nostro gruppo e gli agenti, sporgendosi dall’automezzo, cominciarono a picchiare con i manganelli. Il colpo più forte l’ho preso al gomito, ed è stato così forte che sono caduto a terra. Alcuni lavoratori mi hanno accompagnato al prontosoccorso, lì mi hanno medicato ed avrebbero voluto che andassi alla Feliciuzza. Ma ho preferito tornare a casa: non posso permettermi di perdere qualche giorno di lavoro.

Fui colpito sulla soglia del mio negozio
GIOVANNI ROSANO, 21 anni, lavora nella sua “Tintoria Azzurra” di via E. Amari, n.61- commerciante
Ha ancora i segni dei colpi ricevuti: l’occhio diventato nero e diverse cicatrici sulla fronte.
Stavo qui sulla porta del mio negozio, e avevo abbassato a metà la saracinesca, dato che in quel momento le cariche si succedevano e non si riusciva a capire più niente. Una camionetta è salita sul marciapiede e ha preso a camminare rasente al muro e gli agenti, sporgendosi, hanno manganellato tutti quelli che arrivavano a tiro. Non ho potuto quindi evitare i colpi, così come è accaduto ad altri che stavano dinnanzi al loro negozio.
Mi hanno massacrato in piazza e in questura
DOMENICO ZANGARA, 22 anni, Rione 4 camere, edif. C, Scala D – cameriere
Sono cameriere in un ristorante di Mondello. Sono sposato e ho un bambino. Il guadagno giornaliero è subordinato alle mance. Ma non posso dire di passarmela bene, tutt’altro. Venerdì è stato un gran brutto giorno per me e anche il sabato, purtroppo, anche se non sono stato ferito da colpi di arma da fuoco come tanti altri poveri diavoli. In cambio sono stato bastonato come un cane e rinchiudo all’Ucciardone. Un’esperienza che non auguro a nessuno.
Venerdì sono smontato dal lavoro alle ore 14. sono riuscito a prendere a Mondello l’ultimo filobus per la città. Sono arrivato a piazza Politeama alle ore 14:25 al più tardi. Appena sceso dal filobus sono stato aggredito da sette agenti che mi hanno subissato di manganellate gridando :- Delinquente! Disonesto! State rovinando una città!- Io disgraziatamente sono epilettico. Sotto quella montagna di legnate mi venne una crisi. Ero come svenuto. Sentivo le legnate che arrivavano ma non avevo la forza di fare nulla. Ero come svenuto pur sentendo il dolore per i colpi. Quando tornai in me ero dentro la Questura Centrale senza giacca e senza camicia. Appena mi sono svegliato mi hanno preso a calci:- Tu sei stato uno di quelli che hanno tirato le pietre! Tu avevi un bastone in mano, ti abbiamo visto!- gridavano da tutte le parti. Io dicevo di no e loro aumentavano la dose. Mi hanno massacrato. Sarei capaci di conoscere due tra quelli che hanno lavorato di più sulle mie spalle e sulla mia faccia. Verso mezzanotte per fortuna quella tortura finì (dopo nove ore passate tra scariche di pugni e senza vedere un pezzo di pane nè un bicchiere di acqua) perchè ci caricarono sui camion e ci portarono all’Ucciardone.
Eravamo quattrocento in un solo camerone. Non ci potevamo muovere. Ci urinavamo uno sull’altro. Il dolore era terribile. Verso le 11.30 dell’indomani ci diedero un pezzo di pane e un pò di mortadella. Alle 17 altro pane e formaggini. Abbiamo mangiato il pane e abbiamo gettato via i formaggini avariati. Per bere era disponibile soltanto l’acqua dei gabinetti. Una vera porcheria. Verso le ore 22 in vista della libertà ci hanno pestato di santa ragione per l’ultima volta. Io presi un calcio nell’inguine ma così forte che mi rotolai a terra senza poter neanche gridare perchè il respiro mi manco. Poi, finalmente, abbiamo avuto un pò di pace. Liberi. Tutti fuori.
Ho mio padre, Gaetano, in carcere. È stato preso pure venerdì. Ma a lui sono toccati i calci dei carabinieri. So che è stato portato pare all’Ucciardone e pare l’hanno incarcerato. So pure che lo hanno denunziato per il saccheggio a Bellanca & Amalfi. È ancora dentro. Chissà come andrà a finire.

La ricostruzione della battaglia di Palermo va fatta dettagliatamente. Potremmo produrre collettivamente delle schede partendo anche semplicemente e criticamente dai resoconti della stampa dell’epoca.
Si allegano primi prototipi di schede: scheda 01 Vittime; scheda 02 cronologia eventi
Si possono prevedere schede su testimonianze rilasciate dai fermati e dai detenuti sulle indicibili violenze da essi subite nei locali della questura allora in via Maqueda palazzo Comitini.
Descrizione azioni di difesa dagli attacchi della polizia, a Reggio, a Roma a Genova e poi a Palermo. Viene sdrucita una intera via che consente di dare vita ad una sassaiola a Reggio (?) come avviene a Palermo. Ma qui è plebe è jaquerie.

Sottolineare la partecipazione in tutta Italia degli studenti peraltro anche già mobilitati per rivendicazioni di diritto allo studio.
Mobilitazione anche degli studenti medi che chiedono l’apertura degli accessi agli studi universitari a tutti i diplomati.
Anche a Licata il 5 sono presenti studenti universitari e medi che subiscono violente cariche della polizia. La ricostruzione di Luigi.

In diverse città i manifestanti chiedono alle forze di polizia di sottrarsi alla vista ed alla collera dei manifestanti colpiti dalla gravissima notizia dei morti di Reggio che provocano lo sciopero generale de l’8.
Descrizione della “ invasione della caserma dei carabinieri di Canicattì. La testimonianza di Antonio Saccaro da me raccolta. Conferma di Peppe Corsello.

Appunti per una storia dell’otto luglio 1960

Palermo, palazzo Comitini, sede allora della prefettura.

Gli arrestati a centinaia venivano scaricati dalle camionette della polizia e dai cellulari dei carabinieri e, a via di urla volgari e di “sporchi comunisti”, venivano spinti dentro il cortile della prefettura dove erano costretti a passare fra due fila di poliziotti urlanti che a sputi e a calci li indirizzavano per ammassarli e rinchiuderli in una grande stanza in fondo.
Le condizioni in cui si ritrovarono i fermati ammassati in una stanza quel otto luglio 1960, richiamano alla memoria le parole di Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, ( In “Galleria” 1955, fascicolo della rivista dedicato al decennale della liberazione) cronaca della famosa razzia dei tedeschi col concorso dei fascisti nel Ghetto di Roma che si concluse con la deportazione di più di mille ebrei nei campi della morte in Germania.
“Ogni tanto un ordine minaccioso, urlato, ristabiliva un momentaneo e quasi più angoscioso silenzio.
Poche ore erano bastate perché, stipatissimi nei locali, cominciasse a stagnare quella vita infetta, che è come il miasma di tutte le carceri e luoghi di deportazione. Sentinelle e sorveglianti impedivano quasi sempre di raggiungere le latrine.
Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza rispetto di se stessi, fu subito evidente.”

Vedere nota premessa all’edizione del Saggiatore dove si parla a proposito del 16 ottobre 1943, della Colonna infame del Manzoni e del Giornale della peste di Defoe.
Questo accostamento scaturisce secondo Moravia dal fatto che analogamente a Defoe e Manzoni Debenedetti descrive una calamità pubblica, un profondo angoscioso sentimento di terrore.
Profondo sentimento di terrore che nasce anche da situazioni violente di persecuzione e dalle azioni contro giustizia tipiche dei momenti di implosione delle istituzioni. In una intervista alla radio Sciascia dichiara di essersi ispirato, come linguaggio, per il suo “Dalla parte degli infedeli”, al Manzoni della “Colonna infame”.

Circolo Francesco Vella Palermo 22 marzo 2010

Angelo Ficarra

Pubblicato in Senza categoria | Commenti disabilitati su L’ANPI e l’8 luglio 1960

Palermo 21 giugno 2019 – Fiom e Anpi consolidano il loro rapporto

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“Quando i tedeschi a Palermo volevano fare saltare i Cantieri navali e il porto durante la guerra”
„”Quando i tedeschi a Palermo volevano fare saltare i Cantieri navali e il porto durante la guerra”“

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Cgil Palermo

Antifascismo, avvio di un progetto comune tra i metalmeccanici della Fiom e i partigiani dell’Anpi. “Andremo insieme nei luoghi di lavoro per parlare di Costituzione, diritti, democrazia e solidarietà, con le testimonianze di protagonisti del mondo del lavoro”.

Palermo 21 giugno 2019 – Fiom e Anpi consolidano il loro rapporto con una collaborazione che li vedrà impegnati in iniziative pubbliche e nei posti di lavoro sul tema dell’antifascismo, della democrazia, della difesa della Costituzione e del racconto della storia e delle conquiste del mondo operaio.
“Abbiamo deciso di puntare a una collaborazione reciproca intensa tra le due strutture e di intraprendere un percorso che ci vedrà impegnati insieme nelle fabbriche, dove porteremo la testimonianza dei valori e degli ideali che hanno caratterizzato la nostra storia. Faremo fronte comune avvertendo l’esigenza di porre un argine alla diffusione di fenomeni discriminatori, razzisti e antisolidali – spiega il segretario Fiom Cgil Palermo Francesco Foti, componente del direttivo provinciale dell’Anpi – Con l’associazione partigiani, alla quale metteremo a disposizione uno spazio nella nostra sede, lavoreremo a delle iniziative, promuoveremo incontri e assemblee con i metalmeccanici in tutte le fabbriche, anche con le testimonianze di protagonisti ed ex esponenti del mondo operaio, per diffondere la conoscenza della storia dei Cantieri navali e di tutte le battaglie del movimento sindacale in città. Spiegheremo che le conquiste raggiunte vanno difese e che non bisogna arretrare”.
“Porteremo avanti un impegno comune su antifascismo e sull’applicazione della Costituzione. Noi non siamo né sindacato né un partito e ci interessa in particolare mettere a fuoco quello che la Costituzione contiene in tema di lavoro e diritti e stare accanto a chi ha un lavoro e a chi non lo vuole perdere – aggiunge il vice presidente nazionale Anpi Ottavio Terranova, ex saldatore e delegato sindacale Fiom del Cantiere Navale di Palermo, che assieme ad Angelo Ficarra, presidente Anpi Palermo, ha aderito con entusiasmo al progetto di lavoro con la Fiom – Pochi lo sanno ma l’antifascismo e i Cantieri Navali di Palermo sono collegati in modo significativo. Durante la guerra, quando i tedeschi andarono via, avevano minato i Cantieri e il porto, per farli saltare in aria. Gli antifascisti tagliarono i fili calandosi nei tombini e gli operai sminarono il cantiere, facendo sì che il loro posto di lavoro non venisse distrutto. L’impegno in difesa della democrazia ha radici antiche. Molti dirigenti nazionali della Cgil, da Di Vittorio a Trentin, passati tutti dalla Fiom, erano partigiani. C’è sempre stato un legame profondo tra l’Anpi e il mondo del lavoro e in particolare con i metalmeccanici”. In programma nei prossimi giorni un direttivo congiunto tra Fiom e Anpi in cui verrà pianificata l’attività in un documento comune. Fiom Palermo Fiom Cgil Fiom Fincantieri Palermo Fiom Keller Palermo Fiom Cgil Nazionale Fiom-Cgil Palermo Amici Anpi ANPI Palermo “Comandante BARBATO” Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – ANPI

 
 
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STRAGE DI CAPACI: FALCONE BORSELLINO E LOTTA ALLA MAFIA

ANPI ARCI         APPELLO   FALCONE

Nel giorno in cui ricordiamo la strage di Capaci e invochiamo per tutti i caduti verità e giustizia, chiediamo di fare nostro il coraggioso salto di qualità nella lotta contro la mafia e i neofascismi segnato col sangue dagli uomini delle scorte e da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Verso il popolo siciliano abbiamo un debito enorme che ci riguarda: quello di non avere invocato abbastanza la Giustizia negata ai suoi caduti. Quello di averne persa la memoria storica.

A loro chiediamo scusa, denunciando quanti, in Sicilia ed in Italia, hanno di fatto preferito rimuovere e sdradicare dalla coscienza di un popolo questa immane tragedia, cui ha fatto seguito quella non meno lacerante, degli esodi di massa dall’inizio alla metà del secolo scorso e di quello oggi in atto.

Allora come oggi avere creduto che su queste fondamenta lorde di sangue potesse essere edificata una società giusta, civile e democratica è stato un tragico errore.

Per questo recupero della dignità della persona umana, in una Europa segnata dalla caduta delle ideologie e dai nazionalismi, in un paese devastato dalla questione morale, dobbiamo rivolgerci a tutti, chiamando alla lotta e gridando il bisogno della certezza del diritto, della pace e della democrazia e per la piena attuazione della Costituzione.

La impunità di tutte le stragi politiche che hanno costellato la storia italiana, dai Fasci Siciliani a Portella della Ginestra e fino ad oggi, fa riemergere con forza l’ipotesi dei delitti politici e di strage commissionati alla mafia con la copertura di parti importanti di pezzi dello Stato.

L’ipotesi di questo patto scellerato, oggi acquista tragica forza dopo la sentenza del processo trattativa Stato-mafia dell’aprile 2018 che, in primo grado, condanna oltre a mafiosi e politici, anche alti dirigenti di apparati dello Stato.

La lotta al neofascismo passa dalla nostra capacità di debellare definitivamente questo patto scellerato e di chiamare tutte le forze del Paese ad uno sforzo comune e serio per progettare, con una nuova consapevolezza, il nostro futuro.   Palermo 23 maggio 2019

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