La battaglia di Palermo
Angelo Ficarra
Circolo Francesco Vella
Palermo 22 marzo 2010
Le iniziative per la ricorrenza di questo 50° anniversario del luglio 1960 partono dal lodevole impegno del circolo “Francesco Vella”. Ad esso, ai suoi dirigenti, va la nostra gratitudine soprattutto per avere voluto avviare, col ricordo doveroso dei caduti in quelle memorabili giornate di lotta, una ampia, per molti versi attuale, più approfondita riflessione sul rapporto tra storia e politica.
Rapporto tra storia e politica nel quale inevitabilmente ci siamo imbattuti, nel momento in cui abbiamo registrato come grosse campagne di revisionismo storico abbiano, a vario titolo in questi ultimi vent’anni, fatto da sfondo e da sponda a diverse operazioni politiche e ideologiche.
Allora, in quelle straordinarie, spontanee giornate di popolare mobilitazione si respinse con forza il tentativo di rigurgito fascista messo in atto dal governo monocolore del democristiano Tambroni che si reggeva con l’appoggio determinante, richiesto ed esplicito, del MSI.
Fu una vittoria contro i residuati nefasti della borghesia fascista e mafiosa, imboscata e infiltrata nei gangli dello stato. Certo una vittoria non definitiva. E la lunga teoria delle stragi che avrebbero continuato a costellare la nostra storia ne sono una triste conferma.
Fu soprattutto la risposta ad un violento manifesto tentativo di riemersione fascista nato dalla crisi interna delle forze di maggioranza democristiane che governavano il paese e che costò la vita a diversi inermi cittadini italiani. Erano scesi in piazza in difesa della democrazia e della Costituzione animati dalla innata vocazione alla difesa della libertà e della dignità umana oltre che dagli alti ideali nati dalla Resistenza.
Oggi vogliamo ricordare innanzitutto quei caduti vittime di una insensata, cieca, antica violenza. Vogliamo farlo ricordando tutti i caduti. Ricordando la violenza disumana a limite della barbarie che dappertutto anche qui a Palermo come a Genova e Reggio, a Catania, a Licata segnò quelle giornate.
Violenza figlia di una antica barbarie, frutto non solo di quella “ banalità del male ” (come disse la Harendt del nazismo) che avrebbe continuato a segnare tutto il novecento fino ad oggi,( e quante cose ci dicono parole come Portella della Ginestra, Genova, Bolzaneto , Stefano Cucchi o Rovereto) ma lucida tragica conseguenza di una strategia del terrore che serve a segnare una terribile egemonia, a umiliare i deboli quasi non fossero esseri umani, a cancellare non solo le vittime ma anche ad impedirne, rendendola perseguibile, la memoria e con essa il sogno di una società umana.
Di fronte a questa violenza il silenzio, la rimozione della “società civile”. I giovani di oggi nella loro stragrande maggioranza sconoscono questa storia. Possiamo dire che è una storia sconosciuta a livello popolare. E tutto questo ci deve fare riflettere.
Forse piangendo disperatamente le recinzioni in ferro delle aiuole di via Libertà, le vetrine infrante (forse anche dalle sventagliate di mitra della polizia), e non i morti, la borghesia ancora una volta affermava la sua cieca egemonia facendo passare lo stereotipo della jacquerie, del ribellismo atavico, proseguendo nella sua antica devastante azione distruttrice della identità di un popolo. Per tutto questo vogliamo e dobbiamo avviare una seria ampia riflessione sui lunghi periodi di silenzio, per capire quanta parte di quello stereotipo era passata dentro di noi.
E ciò a partire dalla testimonianza, dalla memoria dei fatti, dei luoghi che sono stati teatro di eventi decisivi per la nostra democrazia. Tradizionalmente a Palermo, oltre i ricordi della sezione Montegrappa, è stato quasi unicamente il sindacato CGIL degli edili, la Fillea, che, a partire dal 20° anniversario, si è lodevolmente intestato alcune iniziative che hanno portato alcuni anni fa anche a dedicare una via periferica ai caduti dell’8 luglio ’60. E’nel 2001 che viene prodotto lo splendido video di Ottavio Terranova che ricostruisce quelle giornate recuperando per la storia preziose testimonianze di diversi protagonisti dell’epoca.
Da qui la necessità di riappropriarci dei tempi e dei luoghi in cui queste tragedie si sono verificate per restituirle alla collettività, alla pietà della gente; per farne momento di rielaborazione critica, collettiva, aperta.
Obiettivi certamente da meglio definire in un processo di ricerca che deve avere la capacità di andare al di là di questo momento e che comunque devono essere emblematicamente e ritualmente commemorativi, ma soprattutto significativi di un modo nuovo di recupero collettivo della memoria come ricerca identitaria delle proprie radici.
I fatti (accenni):
1960: in Italia la Democrazia Cristiana in crisi al suo interno decide di dare vita, per la prima volta dopo la lotta di liberazione dal nazifascismo, ad un governo monocolore guidato da Tambroni con l’appoggio esplicito e decisivo dei fascisti del MSI. E’ l’espressione di una grave crisi interna determinata dal contrasto di due anime della DC una, che fa capo a Moro che vuole aprire al PSI e dare vita ad alcune aperture sociali anche per contrastare meglio il partito comunista, l’altra facente capo fra gli altri a Segni fortemente determinata per una più decisa svolta a destra forte anche delle pressioni americane e delle gerarchie vaticane.
Siamo in pieno clima di guerra fredda e in presenza del più forte partito comunista d’occidente. La scelta della DC inevitabilmente determina una pericolosa confusa deriva anticostituzionale permeata di gladio, servizi segreti cosiddetti deviati e recupero del rigurgito fascista soprattutto in termini anticomunisti.
A giugno il MSI, in cambio del suo appoggio al governo, annuncia provocatoriamente di avere scelto Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, come sede del suo primo congresso nazionale affidandone la presidenza onoraria ad un ex prefetto fascista di Genova che si era particolarmente distinto per i tanti crimini nazifascisti commessi.
Genova dà vita ad un enorme spontaneo movimento antifascista unitario che respinge ogni ipotesi di congresso del MSI nella sua città.
30 giugno.
Centomila persone hanno partecipato alla grande manifestazione antifascista a Genova. Anche lì si conferma il segnale di una straordinaria partecipazione di giovani e giovanissimi; segnale che, come vedremo, per prima si era avvertito a Palermo in occasione dello sciopero generale del 27 giugno. La manifestazione di Genova viene turbata alla fine dalle cariche provocatorie della polizia che danno luogo a violenti scontri. Era intervenuto un noto e famigerato battaglione della “celere” di stanza a Padova, di cui era particolarmente orgoglioso Scelba; famigerato perché particolarmente addestrato all’uso della violenza negli interventi antioperai.
Il direttivo generale della camera del lavoro di Genova riunitosi d’urgenza in serata, mentre il centro cittadino era ancora in balia dei caroselli delle jeep, decideva, con inizio alle ore 6 della mattina del 2 luglio, la proclamazione di uno sciopero generale provinciale.
2 luglio ore 1,40 della notte: Il prefetto di Genova chiama al telefono il segretario della CdL Pigna, operaio metalmeccanico, comunicando che il congresso del MSI non si sarebbe più svolto nella città di Genova. Il giornale L’ORA di Palermo nella sua edizione del sabato 2 domenica 3 luglio titola su otto colonne “Genova ha vinto Tambroni in difficoltà” “Gronchi ha convocato Tambroni al Quirinale”.
Ma Tambroni non molla forte anche delle pressioni della ambasciata americana in Italia che spudoratamente sul suo Rome Daily American aveva commentato i fatti di Genova scrivendo: ”Tambroni sarebbe stato giustificato se avesse chiamato le truppe a reprimere le manifestazioni.”
Da qui in avanti si registra una accelerazione nel comportamento di polizia e carabinieri.
5 luglio Licata. Sciopero generale per il lavoro proclamato da un comitato popolare con in testa unitariamente la amministrazione comunale. Al grido di Licata non deve morire partecipano 20.000 persone. Schieramento particolare di polizia , battaglioni di carabinieri e reparti speciali provenienti da Palermo, Catania e Agrigento. Diverse forze dislocate nelle campagne vicine, cingevano di assedio la città. La polizia spara e uccide Vincenzo Napoli un giovane di 22 anni.
6 luglio Roma Porta S. Paolo. Manifestazione per la democrazia e deposizione di una corona al sacrario della Resistenza. Bestiale carica della polizia e dei carabinieri a cavallo. Inseguiti ed arrestati fin dentro le case i borgatari romani.
7 luglio Reggio Emilia: cinque manifestanti uccisi dalla polizia. Massacri caparbiamente perseguiti dal governo Tambroni in risposta alla sconfitta di Genova. Lo sbigottimento fu enorme pari solo al miscuglio di sconforto e rabbia che suscitò in noi.
Subito nel pomeriggio fu proclamato dalla CGIL per l’indomani 8 luglio ’60 lo sciopero generale nazionale in difesa della democrazia.
La mattina dell’8 luglio all’apertura della seduta del Senato il presidente democristiano Merzagora, in una attenzione intensissima dell’aula, dichiarava: “la gravità della situazione e la consapevolezza che tutti i valori più sacri della Costituzione ne risultano compromessi “mi spingono a formulare una proposta concreta per risolvere dignitosamente i conflitti in atto”.
Era una proposta di tregua dettagliatamente articolata che prevedeva significativamente tra l’altro che – cito testualmente – “le guardie , le forze armate rimangono in caserma salvo i contingenti normalissimi”. Tamboni purtroppo si ostina sulla strada della violenza; i fascisti quindi riconfermano l’appoggio al governo. Dicono con ambiguità no alla tregua liberali, monarchici e il PDI, i demoitaliani.
Sono ore convulse che ci testimoniano come la situazione fosse arrivata sull’orlo del baratro. E di questo avevamo diffusa consapevolezza allora nonostante il fazioso atteggiamento della Rai -TV : oltre a ripetere per tutto quell’8 luglio che lo sciopero era fallito, tutti sono al lavoro, era persino arrivata a censurare la proposta di tregua dandone confusa sommaria notizia. Ci fu persino una vibrata protesta di Merzagora per il comportamento della Rai. Tambroni non vuole andarsene e si contrappone al Parlamento. La D.C. prende tempo e rinvia. Sono titoli e sommari dei giornali i quali riporteranno la notizia che “Moro, a sentire le voci messe in giro dai d.c. a Montecitorio, dormirebbe fuori casa”. E’ questo il clima da golpe che si respirava in quei giorni del luglio 1960
A Palermo e un po’ ovunque in Italia, per la prima volta dalla caduta del fascismo, lo sciopero fu caratterizzato da una straordinaria, massiccia, inattesa partecipazione di giovani; i giovani dalle magliette a striscie. Il segnale di un ingresso così significativo di una imponente massa di giovani sulla scena sociale e politica invero in Sicilia si era già avvertito a Palermo poco più di una settimana prima, il 27 giugno, in un grandioso sciopero per lo sviluppo industriale e per migliori condizioni e prospettive di vita. Lo sciopero aveva registrato una furiosa carica della polizia sui dimostranti all’altezza della Cattedrale. Ma era successo un fatto nuovo; per la prima volta i giovani avevano respinto la violenza della polizia.
Ricordo ancora l’impressione che mi fece quando vidi quel 27 giugno, imboccando la via Maqueda dalla porta S. Antonino verso le sette o le otto di sera (venivo da via Archirafi dove avevo sostenuto un esame di Fisica), diversi autobus bloccati e abbandonati lungo la via.
8 luglio 1960. Dalla cronaca di quella giornata.
Quella mattina Pio La Torre e Nicola Cipolla, da una testimonianza di quest’ultimo, con i compagni della camera del lavoro si erano recati all’ingresso degli operai al cantiere navale per informarli della strage di Reggio e dello sciopero generale dalle ore 14.
La testimonianza di un anziano impiegato del Cantiere Navale recuperata da Marcello Cimino in occasione del 20° anniversario ci dice che “scioperarono tutti gli operai effettivi ma vennero bloccati dalla polizia subito, all’uscita dai cancelli” a mezzogiorno. “Riescono però ad aggirare lo sbarramento e a risalire la via dei cantieri fino al cavalcavia dove un più forte cordone di polizia li ferma. Segue un primo scontro a base di gas lacrimogeni. Gli operai si riaccorpano in corteo più avanti risalendo la via Duca della Verdura. All’altezza del fondo Amato dove ora sorge l’Istituto Tecnico industriale, allora tutto voragini e macerie, altra carica della polizia, altra sassaiola, altri gas lacrimogeni e altro aggiramento degli operai che continuano la marcia verso piazza Politeama dove il caos era già cominciato”
E’ il segnale che la polizia tenta, per ordine del governo, di impedire lo sciopero e la manifestazione violando le più elementari garanzie delle libertà costituzionali; altro che mantenere l’ordine pubblico.
Già in piazza Politeama “migliaia di scioperanti, di giovani e di cittadini fin dalle ore 13 sono cominciati ad affluire. La piazza dalle 14 in poi e per tutta la serata è divenuta l’epicentro di continui, violenti scontri con i reparti di poliziotti e carabinieri”.
A mezzogiorno era cominciato l’esodo da tutti i cantieri edili. Alle 14 in punto tutti i filobus e gli autobus dei trasporti urbani erano rientrati, senza eccezione alcuna, nelle rimesse.
“Alle 14,30 cortei di giovani e di lavoratori, partendo dal Politeama, imboccavano la via Ruggero Settimo. A un certo punto, alle spalle dei dimostranti piombavano una mezza dozzina di jeeps cariche di celerini i quali cominciavano a caricare violentemente. I dimostranti sparpagliatisi in gruppi” – una parte del corteo scese per via Emerico Amari – “organizzavano la difesa”.
“Le jeeps lanciate a pazza velocità venivano fatte segno a lanci di sassi e di paletti di legno.
Il tratto dell’asse piazza Politeama piazza Massimo era divenuto un campo di battaglia.
Trascrivo dalla testimonianza di Manlio Guardo dottore in Chimica dirigente giovanile comunista, al quale, già arrestato e caricato ammanettato su una camionetta della polizia con altri due dirigenti del PCI Giuseppe Messina e Piero Calcara, un ufficiale urla: – Ho il diritto di ucciderla!-
Ore 15.05: all’angolo fra via Principe di Belmonte e via Ruggero Settimo scorgo un folto gruppo di dimostranti che comincia a costruire una barricata con quanto riesce a trovarsi intorno. Insieme con il segretario della Camera del Lavoro Pio La Torre mi caccio in mezzo alla calca. Cerchiamo di impedire che si continui ad accumulare ostacoli sulla strada, intuiamo che già questo costituirà un buon pretesto per la reazione delle forze di polizia. Ma quando tentiamo di trascinare con noi la folla in direzione del Politeama, giovani e vecchi ci affrontano: – Che calma volete, gridano, chisti sparanu, chisti ammazzanu!-. Tutti sapevano dell’eccidio di Reggio, tutti temevano il peggio, erano certi che il peggio sarebbe presto venuto.
Per bloccare i caroselli delle jeeps, con tutti i mezzi di fortuna disponibili compresi i bidoni di latta che allora spingevano a mano i netturbini, si erano improvvisati degli sbarramenti. Qui di fronte alla inattesa resistenza dei manifestanti i reparti armati perdono la testa: oltre al lancio di bombe lacrimogene, di candelotti lacrimogeni e di idranti che erano entrati in funzione a piazza Politeama incominciano a sentirsi colpi di fucile e le prime sventagliate di mitra.
“La furia incontrollata di chi dirigeva le forze di polizia è esplosa verso le 17,15 del pomeriggio, quando la massa dei dimostranti, dopo aver fatto fronte a numerose cariche, si è attestata in via Maqueda”.
Dirigenti sindacali e deputati regionali, ormai sospettate le gravi intenzioni della polizia, avevano tentato di fare intervenire il presidente della regione sul prefetto e il questore per fare ritirare i reparti armati e consentire di riportare la calma e sotto controllo la situazione. Ma tutto è inutile. Sembra che apparentemente scollegati fra loro altri reparti nel frattempo entrano in azione vanificando ogni tentativo di non fare precipitare la situazione.
La battaglia continuerà fino a tarda sera con un terribile bilancio di violenza e di morte.
Le cariche violente della polizia, i caroselli delle jeeps, le bombe lacrimogene, le sventagliate di mitra in piazza Massimo avevano sospinto una parte dei dimostranti in via Maqueda e un’altra massa verso via Cavour. Pare che sia in questa fase che un colpo di fucile sparato in aria da piazza Massimo alle spalle dei dimostranti colpisce la signora Rosa La Barbera mentre stava chiudendo le persiane del suo balcone in via Rosolino Pilo; morirà l’indomani in ospedale.
Fra i dimostranti che si dirigono verso via Maqueda c’è Francesco Vella. Operaio edile, dirigente comunista della sezione Monte Grappa, ha un grandissimo ascendente fra i giovani operai edili di Palermo. Siamo nel pieno del sacco edilizio di Palermo con fortissimo controllo mafioso. Si parla di pizzo giornaliero per lavorare nei cantieri. Vella per i giovani edili è certamente un importante punto di riferimento anche in questa battaglia. Dalla testimonianza di Vincenzo Sanfilippo allora amorevole fidanzato di Fina, figlia di Ciccio Vella, che poi sposerà, sappiamo dell’atteggiamento premuroso, paterno di Ciccio verso i suoi giovani edili. Grida, li esorta a mettersi al riparo, non fatevi ammazzare. Li sospinge dentro la via Bari al sicuro dei colpi di fucile e di mitra che ormai la polizia tira all’impazzata. I manifestanti non erano fuggiti neanche quando chiazze di sangue e i corpi accasciati al suolo hanno dato la misura della tragedia. Si sono visti dei ragazzi correre contro i carabinieri, afferrare le canne dei mitra con le mani e gridare “sparate, sparate assassini”. E qui che Francesco Vella viene colpito vittima della sua grande paterna generosità. E’ Lillo Roxas, grande dirigente comunista nisseno, che ne rese allora testimonianza: “Io ero con Ciccio Vella un minuto prima che un assassino in divisa mirasse e lo ammazzasse”. Ciccio Vella cade fra le braccia di Vincenzo Sanfilippo.
“Erano circa le ore 19.” Così ricorda quei momenti Giacomo Di Giugno, laureando in medicina. “In piazza Verdi si era radunata una folla in gran parte composta da coloro che cercavano di allontanarsi da via Ruggero Settimo dove poco prima erano stati lanciati dei candelotti lacrimogeni. La gente aveva gli occhi rossi ed era confusa: stava ferma a gruppi in vari punti della piazza. Un folto gruppo era davanti alla scalinata del Massimo.
Ad un certo punto da dietro il teatro, forse da via Volturno, sopravvennero alcuni camion o jeep carichi di carabinieri e agenti. In quel momento la piazza era calma. Ma all’improvviso gli armati scesero dai loro mezzi e si lanciarono addosso alla gente piccchiando all’impazzata con i manganelli e i calci dei fucili. Alcuni cittadini furono così abbattuti e lasciati per terra, molti altri furono afferrati brutalmente e sospinti con calci e pugni sui camion. Allora i giovani che erano fra la folla cominciarono a disselciare il marciapiede e a lanciare sassi contro i poliziotti i quali furono costretti a ritirarsi verso la via Cavour. A questo punto cominciarono a sparare dapprima in aria. Poi, avvertendo le pallottole frusciare fra gli alberi piuttosto bassi della piazza, mi resi conto che abbassavano il tiro. I dimostranti cominciarono a diradarsi riparandosi nelle stradine adiacenti.
Anche io, che ero con alcuni altri studenti e cittadini, …..cominciai a fuggire per ripararmi. Mi trovai così accanto ad un giovane bruno quasi della mia altezza e imboccammo assieme via Salvatore Spinuzza. …mi girai un momento e vidi distintamente un poliziotto appostarsi all’angolo della valigeria e mirare verso di noi con un’arma da fuoco che aveva una grossa canna, forse un mitra, e sparare. Subito dopo vidi il giovane che era accanto a me portarsi una mano al fianco e contrarre il viso per il dolore. Lo sorressi abbracciandolo e lo condussi al riparo nel vicolo vicino. Cominciai a chiamare aiuto. Nessuno dapprima venne perchè la polizia continuava a sparare. Finalmente si avvicinarono alcune persone che sollevarono il ferito e lo caricarono su una macchina. Seppi dopo che si trattava di Andrea Gangitano”.
Nelle stesse ore, a testimonianza di un unico orientamento deciso a spingere avanti e a far precipitare nel tentativo di renderla irreversibile l’avventura tambroniana, viene barbaramente ucciso a Catania Salvatore Novembre 22 anni.
Decine di persone hanno assistito all’azione criminosa di un agente di polizia che ha sparato mirando freddamente contro un giovane che ripetutamente colpito da manganellate si era accasciato sanguinante dietro la saracinesca abbassata del cinema Olimpia: gli ha sparato addosso 2-3 colpi di pistola tirando al bersaglio.
Poi chissà quasi a modificare la scena del delitto altri agenti brutalmente, forse senza rendersene conto o forse ubbidendo agli ordini di un superiore, trascinano il morto in mezzo alla via dove lo lasciano dissanguare.
Scene di violenza e di ordinaria follia.
Avevo accennato in premessa a questa cronaca della “Battaglia di Palermo” come la “società civile” palermitana non avesse avuto lo scatto di orgoglio di difendere i suoi figli, come mostrasse ancora una volta tutta la sua subalternità alla rappresentazione che mettono in scena i portavoce della sua classe dirigente.
E la sua classe dirigente è quella del sacco di Palermo, quella dei sindaci Lima, Ciancimino, quella che non aveva tanto pianto le ville liberty di via Libertà fatte saltare in aria dalla borghesia mafiosa quanto disperatamente le recinzioni in ferro delle aiuole calpestate l’8 luglio, le vetrine infrante ma non i morti. E’ la classe dirigente che plaude all’intervista rilasciata meno di un anno prima dal suo cardinale che dichiara che “ la mafia non esiste. E’ una invenzione dei comunisti”. Di questa rappresentazione in qualche modo si dichiara vittima lo stesso quotidiano L’ORA quando, 5 giorni dopo l’8 luglio, riporta fra le altre la trasparente, genuina testimonianza di Giuseppe Malleo 15 anni, fontaniere che vede all’angolo della via Celso “un carabiniere che alzò il moschetto e mi sparò addosso”. Malleo morirà alcune settimane dopo. Scrive L’ORA“ che una più precisa conoscenza e una più ponderata considerazione dei fatti hanno fatto giustizia delle interessate voci allarmistiche e di certi prevenuti stati d’animo che avevano attribuito ad alcuni episodi di reazione da parte dei dimostranti un bilancio dimostratosi poi del tutto sproporzionato.”
Purtroppo lo stereotipo, era in gran parte passato. Il Giornale di Sicilia piangendo le aiuole aveva parlato di plebaglia. Era addirittura arrivato a distinguere fra lavoratori e plebaglia per giustificare la violenza scatenata dal governo Tambroni a sostegno del quale si era apertamente schierato.
Un velo di silenzio fu steso su quanto accadeva l’8 luglio dentro palazzo Comitini allora sede della prefettura secondo un antico canovaccio ormai collaudato che era pure servito a rimuovere un altro terribile episodio di violenza proprio lì accaduto nel 1944: la strage a colpi di bombe a mano e di mitra di 23 cittadini di Palermo fra cui moltissimi giovani.
Erano altri aspetti terribili della violenza.
Gli arrestati a centinaia venivano scaricati dalle camionette della polizia e dai cellulari dei carabinieri e, a via di urla volgari e di “cornuti”, “sporchi comunisti”, venivano spinti dentro il cortile della prefettura dove erano costretti a passare fra due fila di poliziotti urlanti che a sputi e a calci li indirizzavano per ammassarli e rinchiuderli in una grande stanza in fondo.
Le condizioni in cui si ritrovarono i fermati ammassati in una stanza quel otto luglio 1960, richiamano alla memoria le parole di Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, cronaca della famosa razzia dei tedeschi col concorso dei fascisti nel Ghetto di Roma che si concluse con la deportazione di più di mille ebrei nei campi della morte in Germania.
“Ogni tanto un ordine minaccioso, urlato, ristabiliva un momentaneo e quasi più angoscioso silenzio.
Poche ore erano bastate perché, nei locali stipatissimi, cominciasse a stagnare quella vita infetta, che è come il miasma di tutte le carceri e luoghi di deportazione. Sentinelle e sorveglianti impedivano quasi sempre di raggiungere le latrine.
Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza rispetto di se stessi, fu subito evidente.” ( In “Galleria” 1955, fascicolo della rivista dedicato al decennale della liberazione)
Dalla preziose testimonianze di Manlio Guardo, Calcara, Messina, Aldo Caronia, tutti studenti laureandi, Domenico Zangara cameriere e tanti altri.
“Quando giungiamo in Questura un nugolo di (agenti?) è disposto lungo il colonnato”. É un corridoio di colpi di ogni specie e di insulti. I più giovani hanno la peggio. Gridano e piangono. Vi sono ragazzi di 14 e 15 anni. Mentre li perquisiscono continuano a bastonarli. Finiamo tutti in una cella di cinque metri quadrati e siamo in 25. é una fornace nella quale rimarremo molte ore senza un sorso di acqua. Quando verso mezzanotte saremo trasportati e rinchiusi nella sala colloqui dell’Ucciardone avrò modo di misurare gli effetti di quel trattamnto.
Siamo circa 330. Vi sono ragazzi che hanno perso la camicia o se ne sono disfatti quando era in pezzi. Ci mostrano la schiena segnata da dieci, dodici, quindici colpi di manganello. Uno ha un gonfiore sul rene destro grosso come una pagnotta e soffre orribilmente. Un ragazzo ha una larga ferita sanguinante sullo zigomo destro e non riuscirà a ricevere alcuna cura. Uno dei miei compagni, studente di medicina, è ferito all’occhio destro, vi è un taglio profondo e una larga ecchimosi. È stato un colpo di manganello. Un signore anziano, pelato e (…) ha la schiena letteralmente martoriata, è contrassegnato da una quantità di colpi. Per gli altri, tutti, è solo questione di misura.
La battaglia di Palermo Onore ai martiri della libertà
Dimensioni reali della battaglia
Sua durata dalla mattina alla sera trovare riferimenti
Partecipanti
– strati sociali
ragazzi con le magliette a striscie
operai del cantiere navale: escono alle 12
tentativo della polizia di bloccarli
descrizione
arrivano a piazza Politeama dopo diverse cariche che tentano di sciogliere il corteo ( vedi Marcello Cimino)
dati prelevabili da diverse testimonianze.
Onore ai martiri della libertà (vedi Romano Bernardino Verro per Caltavuturo).
Perché abbiamo cantato i morti di Reggio Emilia e non abbiamo cantato i nostri morti ?
Il precedente del 27 giugno
Pagina 4 L’ORA Mercoledì 13- Giovedì 14 Luglio 1960
Le gravi testimonianze sulle sparatoie di Palermo
(continua dalla prima pag.)
Marmi. Mi hanno preso in testa e sulle spalle. Meno male che non mi venne la crisi. Perchè sono sofferente si epilessia. Che vi devo dire? Di scioperi ne capisco poco. Io ho bisogno solo di una cosa. Di pane per i miei figli. Piangono, e a me piange il cuore. Guardo mia moglie che ormai è pronta per comprare (?) l’altro bambino e mi ammazzerei. Che cosa gli devo dare da mangiare al mio figlio nuovo? Ma chi me li da i soldi? Tre anni che cerco un posto. Un posto qualsiasi, anche netturbino. Ma non mi vuole nessuno. Neanche la morte mi ha voluto!
Ho visto uccidere il giovane Gangitano
GIACOMO DI GIUGNO, 28 anni laureando in medicina,
“Erano circa le ore 19. In piazza Verdi si era radunata una folla in gran parte composta da coloro che cercavano di allontanarsi da via Ruggero Settimo dove poco prima erano stati lanciati dei candelotti lacrimogeni. La gente aveva gli occhi rossi ed era confusa: stava ferma a gruppi in vari punti della piazza. Un folto gruppo era davanti alla scalinata del Massimo.
Ad un certo punto da dietro il teatro, forse da via Volturno, sopravvennero alcuni camion o jeep carichi di carabinieri e agenti. In quel momento la piazza era calma. Ma all’improvviso gli armati scesero dai loro mezzi e si lanciarono addosso alla gente piccchiando all’impazzata con i manganelli e i calci dei fucili. Alcuni cittadini furono così abbattuti e lasciati per terra, molti altri furono afferrati brutalmente e sospinti con calci e pugni sui camion. Allora i giovani che erano fra la folla cominciarono a disselciare il marciapiede e a lanciare sassi contro i poliziotti i quali furono costretti a ritirarsi verso la via Cavour. A questo punto cominciarono a sparare dapprima in aria. Poi, avvertendo le pallottole frusciare fra gli alberi piuttosto bassi della piazza, mi resi conto che abbassavano il tiro. I dimostranti cominciarono a diradarsi riparandosi nelle stradine adiacenti.
Anche io, che ero con alcuni altri studenti e cittadini, fra cui un signore anziano (forse un medico o un farmacista a giudicare dai discorsi) cominciai a fuggire per ripararmi. Mi trovai così accanto ad un giovane bruno quasi della mia altezza e imboccammo assieme via Salvatore Spinuzza. Mentre ci dirigevamo verso un vicolo che sbocca in via Bara, mi girai un momento e vidi distintamente un poliziotto appostarsi all’angolo della valigeria e mirare verso di noi con un’arma da fuoco che aveva una grossa canna, forse un mitra, e sparare. Subito dopo vidi il giovane che era accanto a me portarsi una mano al fianco e contrarre il viso per il dolore. Lo sorressi abbracciandolo e lo condussi al riparo nel vicolo vicino. Cominciai a chiamare aiuto. Nessuno dapprima venne perchè la polizia continuava a sparare. Finalmente si avvicinarono alcune persone che sollevarono il ferito e lo caricarono su una macchina. Seppi dopo che si trattava di Andrea Gangitano”.
Sono in grado di riconoscere il tenente che mi sparò
LUIGI CANDELA, 25 anni, Via Immacolatella n. 108, allo Sperone – lucidatore
Sono lucidatore di pavimenti. Guadagno circa 1200 lire a giornata. Non sono sposato. Abito con i miei. Tutti i miei fratelli lavorano. Non dico che stiamo bene, ma si lavora e si mangia, ecco.
Come sono rimasto ferito durante i disordini di venerdì? Nel pomeriggio avevo deciso di andare a fare visita a mia nonna, in vicolo Marotta. Quando sono giunto all’angola che la via Bari forma con via Maqueda, vicino alla Galleria delle Vittorie, sentii clamori forti che provenivano dalla via Napoli. Stavo per sbucare sulla via Maqueda quando mi venne incontro un tenente della P.S. che mi puntò una pistola contro le gambe e fece fuoco. Lo saprei riconoscere tra diecimila persone. Giuro che ero compleramente solo sulla strada, non avevo nè armi nè bastoni in mano, non correvo, non gridavo. Il tenente subito dopo avere esploso il colpo diretto contro di me girò il braccio di un palmo e continuò a fare fuoco contro altri. Io caddi in ginocchio. Sentii un gran freddo al piede destro. Riuscìi a stringermelo tra le mani. Mi guardai attorno in cerca di aiuto e vidi il tenente che continuava a sparare, calmo. Qualcuno che non ricordo mi prese in braccio, mi caricò su una macchina, mi consegnò agli infermieri del pronto soccorso in via Roma. Poi andai a finire a Villa Sofia. Mi hanno interrogato parecchie volte. Non vogliono credere che sarei capace di riconoscere il tenente. Invece vi assicuro che ne sarei capace, parola d’onore.
Vidi sul ginocchio il buco della pallottola
CARMELO BROTTO, 17 anni, Vicolo Cusimano, n.6 – studente
Sono studente del V ginnasio. Mio padre è disperso in guerra. Mia madre non lavora perchè è ammalata. Ho un fratello laureando in legge, ed un altro studente al terzo liceo. Ci aiutano i parenti di mio padre, pagandoci le tasse scolastiche e comprandoci i libri di testo, non mi vergogno di dire che è come se vivessimo a giornata. Non sappiamo mai che cosa succederà l’indomani. Ecco come sono rimasto ferito durante i disordini di venerdì.
Verso le ore sedici uscì di casa perchè avrei dovuto comprare il pane per i miei. Ma i panettieri erano tutti chiusi. Mi accorsi che le strade del centro erano piene di gente che gridava, correva, tornava indietro… strinsi le distanze, diciamolo pure, per curiosità. Mi trovai tra tutta quella gente, proprio all’angolo che la via Maqueda forma con la via Napoli. Insomma, alla Galleria delle Vittorie. È stato a quel punto che qualcuno mi ha sparato. Chi? Non lo so proprio. Ricordo solo di avere sentito un colpo sul ginocchio destro, come di una pietra che arriva. Subito me lo toccai. Il ginocchio, ma non riscontrai nulla di anormale. Un attimo dopo dovetti appoggiarmi a una saracinesca. Uno accanto a me gridò :- Ti hanno ferito?-. Io prima di rispondere volli sincerarmi e alzai il calzone. Mi ricordo che il quel momento qualcuno vicino grido :- Hanno ammazzato uno!. Vidi sul ginocchio il buco della pallottola. Mi si avvicinò uno con uno scooter e mi disse :- Monta. Ti porto all’Ospedale-. E sono andato con lui. Alla guardia medica di via Roma tentarono di togliermi la pallottola spremendo la ferita. Quando videro che non potevano fare nulla, mi mandarono qui a Villa Sofia con una autoambulanza. Qui il trattamento è stato buono. Solo che abbiamo avuto un sacco di interrogatori di polizia.
La mano entrò tutta dentro la ferita
SALVATORE LIPARI, 14 anni, Via Tavola Tonda, n. 5
Io non vorrei neanche parlare dei disordini di venerdì. I medici dicono che la mia ferita non è da trascurare. Ancora mi brucia, e come! La prossima volta che sento parlare di sciopero neanche esco. Io sono rimasto ferito venerdì sera, molto tardi, durante l’assalto al negozio Spatafora, quello delle scarpe. Passavo di lì per combinazione. Ero diretto a casa mia. Vidi alcuni davanti al negozio e ci andai pure io. Quando arrivai lì vicino vidi la lastra di vetro della vetrina che stava cedendo. Mi tirai indietro e mi girai. Arrivai per un pelo. Altrimenti il vetro mi sarebbe caduto sul collo. Invece mi sentii il piede destro caldo caldo. Me lo toccai dove c’era il sangue e la mano entrò tutta dentro la ferita, sino in fondo. Allora cominciai a gridare a tutti di muoversi, di portarmi all’ospedale. La rima macchina sulla quale mi caricarono incappò nell’asfalto rotto di via Roma e non si mosse più. Io stesso dovetti sollecitare per essere caricato su un’altra auto che facesse il giro dalla via Maqueda. Meno male che almeno io non ho perso la testa! Al pronto soccorso di via Roma mi tamponarono le ferite e poi mi mandarono in ospedale per il ricovero.
Un ufficiale mi urlò: – Ho il diritto di ucciderla!-
MANLIO GUARDO, 26 anni, via Marchese Ugo n. 58 – dottore in chimica
Ore 13.03: all’angolo fra via Principe di Belmonte e via Ruggero Settimo scorgo un folto gruppo di dimostranti che comincia a costruire una barricata con quanto riesce a trovarsi intorno. Insieme con il segretario della Camera del Lavoro Pio La Torre mi caccio in mezzo alla calca. Cerchiamo di impedire che si continui ad accumulare ostacoli sulla strada, intuiamo che già questo costituirà un buon pretesto per la reazione delle forze di polizia. Ma quando tentiamo di trascinare con noi la folla in direzione del Politeama, giovani e vecchi ci affrontano: – Che calma volete, gridano, chisti sparanu, chisti ammazzanu!-. Tutti sapevano dell’eccidio di Reggio, tutti temevano il peggio, erano certi che il peggio sarebbe presto venuto.
La nostra fatica tuttavia non è inutile. Riusciamo a farci seguire dalla maggioranza del gruppo fino alla piazza. A questo punto un autocarro dei carabinieri carico di uomini armati di moschetto o di mitra si avvia dal centro della piazza verso la barricata improvvisata, mentre dai Quattro Canti di Campagna giungono delle camionette della Celere. I carabinieri scendono dal camion, sono molti, il loro sguardo è quello di uomini febbricitanti, qualcuno – appena a terra- spiana l’arma. Dall’altra parte vola una sassata. Una voce grida: – No! Ai carabinieri no! -. La gente sa chi ha sparato a Reggio Emilia e la vecchia tradizione di rispetto per la benemerita non si è ancora spenta in Sicilia. Più tardi verrà scossa alquanto.
Vedo il commissiario Nicolicchia avanzare alla testa dei carabinieri, gli vado immediatamente incontro: – Per carità, gli dico, che i suoi uomini non perdano la testa senza ragione, ci sono tutte le possibilità di evitare i guai- – Va bene, fa lui, cerchi di trattenerli-. E li tratteniamo infatti, ma non è che una beffa. Alle nostre spalle si è disposto un reparto della Celere, ed è la carica, violenta, spietata. Gli agenti digrignano i denti ed urlano come lupi. Si avventano su quelli che corrono e su gli altri che stanno fermi e guardano, indiscriminatamente. In quel momento mi rendo conto che questi uomini non sono, non possono essere in un normale stato fisiologico.
In quel momento dal fondo di via Enrico Amari si preparava l’offensiva, evidentemente studiata a tavolino, nei minimi particolari. Una formazione di camionette, autocarri, autocisterne munite di idranti, procedeva come su un campo di esercitazione verso Piazza Ruggero Settimo e Piazza Castelnuovo con un massiccio coro di sirene. Gli idranti entravano in azione improvvisamente al’altezza del teatro e nello stesso istanze le jeeps improvvisamente acceleravano la marcia e si scagliavano sulla folla. Poi il grosso dell’autocolonna imboccava via Libertà, le autocisterne in testa con gli idranti in azione. Credo che in parte si trattasse di acqua colorata.
I gruppi di dimostranti temporaneamente dispersi tornavano a costituirsi in Piazza Castelnuovo, ma non era finita. Sul marciapiede, dalla parte di via Dante, è schierato un altro reparto di agenti al comando del commissario Campagna e del maresciallo Bertolozzi. Si muovono. Prevedo come andrà a finire e mi rivolgo al commissario. Immagino che il suo comportamento non debba essere diverso da quello del suo collega di prima. Ma l’immaginazione non è evidentemente in questi frangenti la qualità più utile. La conversazione si svolge all’inizio in modo normale. Accanto a me sono adesso altri due giovani dirigenti del P.C.I., Messina e Calcara. Partecipano anch’essi. Spieghiamo assieme (quasi fosse necessario) che non vi è nessuna ragione di arrivare a una strage, che si deve mantenere la calma, soprattutto fra gli agenti, perchè nessuno riuscirebbe a contenere l’indignazione della folla se si insistesse con la violenza. Improvvisamente il tono cambia, mi si chiede di qualificarmi e quando lo faccio, i due funzionari assumono un comportamento arrogante e provocatorio, ci accusano perentoriamente di essere sobillatori e istigatori alla violenza. Ormai l’intenzione è più chiara. Viene la dichiarazione d’arresto, vengono le manette che – applicate in fretta e furia- segano il polso sinistro producendo un dolore insopportabile. Il maresciallo Bertolazzo – prima evidentemente distratto – mi urla dietro finalmente :- In nome della legge!-.
Veniamo caricati tutti e tre su una camionetta sopraggiunta. Con i polsi imprigionati ho avuto difficoltà a montare. Questo ha ulteriormente imbestialito gli agenti che si sfogano sulla mia schiena, gli altri non ricevono un trattamento diverso. É questo per noi… di una avventura incredibile. Non ci dirigiamo verso la Questura, la nostra jeep continua a partecipare all’azione del suo reparto come se nulla fosse avvenuto. Per oltre mezz’ora percorriamo la città da un capo all’atro. Via Amari, via Wagner, va Scordia, via Principe di Belmonte. Qui, ad una fermata durante la quale gli agenti si avventano contro un portone chiuso, ha luogo l’episodio più significativo e più mostruoso. Mentre sono disteso sul fondo dell’auto, sotto i piedi degli agenti con la sola testa fuori del bordo, un ufficiale che sta fuori sulla strada mi viene vicino e ponendo la mano destra sul fodero della pistola urla: -Delinquente, io ho il diritto di ucciderla, ho il potere di ucciderla, la uccido!-. Per buona sorte la jeep in quell’istante riparte. Se il diritto è solo una questione di fatto allora la distanza è la migliore difesa.
I caroselli della nostra jeep continuano, ritorniamo in via Emerico Amari. Ci fermiamo ad ogni piè sospinto. Gli agenti tremanti. La paura è più che evidente sui loro volti, una paura folle, quasi avessero dinanzi un esercito armato di cannoni piuttosto che una folla assolutamente inerme. Il resto è quello strano stato di eccitazione che descrivevo al principio. Cominciarono a lanciare una quantità interminabile di candelotti lacrimogeni. É un momento molto brutto per noi che non abbiamo occhiali e non sappiamo come proteggerci, e dura a lungo. Per un miracolo che finalmente ci allontaniamo dalla zona. Sta per raggiungere la “Cairoll”, ci vorrà almeno un quarto d’ora. Un quarto d’ora di cariche, caroselli, aggressioni e tutti i passanti, anche in posti lontanissimi dal teatro degli scontri, come al palazzo di Giustizia, dove bastonano un ragazzo che tiene in mano un cono gelato.
Quando giungiamo in Questura un nugolo di (agenti?) è disposto lungo il colonnato, sulla via della…. É un corridoio di colpi di ogni specie e di insulti. I più giovani hanno la peggio. Gridano e piangono. Vi sono ragazzi di 14 e 15 anni. Mentre li perquisiscono continuano a bastonarli. Finiamo tutti in una cella di cinque metri quadrati e siamo in 25. é una fornace nella quale rimarremo molte ore senza un sorso di acqua. Quando verso mezzanotte saremo trasportati e rinchiusi nella sala colloqui dell’Ucciardone, avrò modo di misurare gli effetti di quel trattamnto.
Siamo circa 330. Vi sono ragazzi che hanno perso la camicia o se ne sono disfatti quando era in pezzi. Ci mostrano la schiena segnata da dieci, dodici, quindici colpi di manganello. Uno ha un gonfiore sul rene destro grosso come una pagnotta e soffre orribilmente. Un ragazzo ha una larga ferita sanguinante sullo zigomo destro e non riuscirà a ricevere alcuna cura. Uno dei miei compagni. Studente di medicina, è ferito all’occhio destro, vi è un taglio profondo e una larga ecchimosi. È stato un colpo di manganello. Un signore anziano, pelato e (…) ha la schiena letteralmente martoriata, è contrassegnato da una quantità di colpi. Per gli altri, tutti, è solo questione di misura.
La nuova carica seminò il caos
LORENZO PIZZOLO, 22 anni, Cortile della Mercede al Capo- pescivendolo
Vive con la madre, i fratelli, una cognata rimasta vedova con un piccolo: di tutti è l’unico a lavorare di tanto in tanto.
Mi trovavo in via Maqueda insieme ad altri lavoratori quando una nuova carica della polizia arrivò. Il caos nella zona: molti si diedero a scappare, io invece rimasi lì per non lasciare solo gli altri che erano con me. Ad un certo punto, all’angolo di via Candelai una camionetta della polizia si avvicinò al nostro gruppo e gli agenti, sporgendosi dall’automezzo, cominciarono a picchiare con i manganelli. Il colpo più forte l’ho preso al gomito, ed è stato così forte che sono caduto a terra. Alcuni lavoratori mi hanno accompagnato al prontosoccorso, lì mi hanno medicato ed avrebbero voluto che andassi alla Feliciuzza. Ma ho preferito tornare a casa: non posso permettermi di perdere qualche giorno di lavoro.
Fui colpito sulla soglia del mio negozio
GIOVANNI ROSANO, 21 anni, lavora nella sua “Tintoria Azzurra” di via E. Amari, n.61- commerciante
Ha ancora i segni dei colpi ricevuti: l’occhio diventato nero e diverse cicatrici sulla fronte.
Stavo qui sulla porta del mio negozio, e avevo abbassato a metà la saracinesca, dato che in quel momento le cariche si succedevano e non si riusciva a capire più niente. Una camionetta è salita sul marciapiede e ha preso a camminare rasente al muro e gli agenti, sporgendosi, hanno manganellato tutti quelli che arrivavano a tiro. Non ho potuto quindi evitare i colpi, così come è accaduto ad altri che stavano dinnanzi al loro negozio.
Mi hanno massacrato in piazza e in questura
DOMENICO ZANGARA, 22 anni, Rione 4 camere, edif. C, Scala D – cameriere
Sono cameriere in un ristorante di Mondello. Sono sposato e ho un bambino. Il guadagno giornaliero è subordinato alle mance. Ma non posso dire di passarmela bene, tutt’altro. Venerdì è stato un gran brutto giorno per me e anche il sabato, purtroppo, anche se non sono stato ferito da colpi di arma da fuoco come tanti altri poveri diavoli. In cambio sono stato bastonato come un cane e rinchiudo all’Ucciardone. Un’esperienza che non auguro a nessuno.
Venerdì sono smontato dal lavoro alle ore 14. sono riuscito a prendere a Mondello l’ultimo filobus per la città. Sono arrivato a piazza Politeama alle ore 14:25 al più tardi. Appena sceso dal filobus sono stato aggredito da sette agenti che mi hanno subissato di manganellate gridando :- Delinquente! Disonesto! State rovinando una città!- Io disgraziatamente sono epilettico. Sotto quella montagna di legnate mi venne una crisi. Ero come svenuto. Sentivo le legnate che arrivavano ma non avevo la forza di fare nulla. Ero come svenuto pur sentendo il dolore per i colpi. Quando tornai in me ero dentro la Questura Centrale senza giacca e senza camicia. Appena mi sono svegliato mi hanno preso a calci:- Tu sei stato uno di quelli che hanno tirato le pietre! Tu avevi un bastone in mano, ti abbiamo visto!- gridavano da tutte le parti. Io dicevo di no e loro aumentavano la dose. Mi hanno massacrato. Sarei capaci di conoscere due tra quelli che hanno lavorato di più sulle mie spalle e sulla mia faccia. Verso mezzanotte per fortuna quella tortura finì (dopo nove ore passate tra scariche di pugni e senza vedere un pezzo di pane nè un bicchiere di acqua) perchè ci caricarono sui camion e ci portarono all’Ucciardone.
Eravamo quattrocento in un solo camerone. Non ci potevamo muovere. Ci urinavamo uno sull’altro. Il dolore era terribile. Verso le 11.30 dell’indomani ci diedero un pezzo di pane e un pò di mortadella. Alle 17 altro pane e formaggini. Abbiamo mangiato il pane e abbiamo gettato via i formaggini avariati. Per bere era disponibile soltanto l’acqua dei gabinetti. Una vera porcheria. Verso le ore 22 in vista della libertà ci hanno pestato di santa ragione per l’ultima volta. Io presi un calcio nell’inguine ma così forte che mi rotolai a terra senza poter neanche gridare perchè il respiro mi manco. Poi, finalmente, abbiamo avuto un pò di pace. Liberi. Tutti fuori.
Ho mio padre, Gaetano, in carcere. È stato preso pure venerdì. Ma a lui sono toccati i calci dei carabinieri. So che è stato portato pare all’Ucciardone e pare l’hanno incarcerato. So pure che lo hanno denunziato per il saccheggio a Bellanca & Amalfi. È ancora dentro. Chissà come andrà a finire.
La ricostruzione della battaglia di Palermo va fatta dettagliatamente. Potremmo produrre collettivamente delle schede partendo anche semplicemente e criticamente dai resoconti della stampa dell’epoca.
Si allegano primi prototipi di schede: scheda 01 Vittime; scheda 02 cronologia eventi
Si possono prevedere schede su testimonianze rilasciate dai fermati e dai detenuti sulle indicibili violenze da essi subite nei locali della questura allora in via Maqueda palazzo Comitini.
Descrizione azioni di difesa dagli attacchi della polizia, a Reggio, a Roma a Genova e poi a Palermo. Viene sdrucita una intera via che consente di dare vita ad una sassaiola a Reggio (?) come avviene a Palermo. Ma qui è plebe è jaquerie.
Sottolineare la partecipazione in tutta Italia degli studenti peraltro anche già mobilitati per rivendicazioni di diritto allo studio.
Mobilitazione anche degli studenti medi che chiedono l’apertura degli accessi agli studi universitari a tutti i diplomati.
Anche a Licata il 5 sono presenti studenti universitari e medi che subiscono violente cariche della polizia. La ricostruzione di Luigi.
In diverse città i manifestanti chiedono alle forze di polizia di sottrarsi alla vista ed alla collera dei manifestanti colpiti dalla gravissima notizia dei morti di Reggio che provocano lo sciopero generale de l’8.
Descrizione della “ invasione della caserma dei carabinieri di Canicattì. La testimonianza di Antonio Saccaro da me raccolta. Conferma di Peppe Corsello.
Appunti per una storia dell’otto luglio 1960
Palermo, palazzo Comitini, sede allora della prefettura.
Gli arrestati a centinaia venivano scaricati dalle camionette della polizia e dai cellulari dei carabinieri e, a via di urla volgari e di “sporchi comunisti”, venivano spinti dentro il cortile della prefettura dove erano costretti a passare fra due fila di poliziotti urlanti che a sputi e a calci li indirizzavano per ammassarli e rinchiuderli in una grande stanza in fondo.
Le condizioni in cui si ritrovarono i fermati ammassati in una stanza quel otto luglio 1960, richiamano alla memoria le parole di Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, ( In “Galleria” 1955, fascicolo della rivista dedicato al decennale della liberazione) cronaca della famosa razzia dei tedeschi col concorso dei fascisti nel Ghetto di Roma che si concluse con la deportazione di più di mille ebrei nei campi della morte in Germania.
“Ogni tanto un ordine minaccioso, urlato, ristabiliva un momentaneo e quasi più angoscioso silenzio.
Poche ore erano bastate perché, stipatissimi nei locali, cominciasse a stagnare quella vita infetta, che è come il miasma di tutte le carceri e luoghi di deportazione. Sentinelle e sorveglianti impedivano quasi sempre di raggiungere le latrine.
Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza rispetto di se stessi, fu subito evidente.”
Vedere nota premessa all’edizione del Saggiatore dove si parla a proposito del 16 ottobre 1943, della Colonna infame del Manzoni e del Giornale della peste di Defoe.
Questo accostamento scaturisce secondo Moravia dal fatto che analogamente a Defoe e Manzoni Debenedetti descrive una calamità pubblica, un profondo angoscioso sentimento di terrore.
Profondo sentimento di terrore che nasce anche da situazioni violente di persecuzione e dalle azioni contro giustizia tipiche dei momenti di implosione delle istituzioni. In una intervista alla radio Sciascia dichiara di essersi ispirato, come linguaggio, per il suo “Dalla parte degli infedeli”, al Manzoni della “Colonna infame”.
Circolo Francesco Vella Palermo 22 marzo 2010
Angelo Ficarra