I mancati conti col nostro passato fascista

Il Manifesto, 6 Febbraio 2019

 

Giorno del ricordo. I mancati conti col nostro passato fascista e l’assenza di una ridefinizione della complessità storica, fanno sì che le foibe vengano presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali

Le foibe per dimenticare i crimini del fascismo

di Davide Conti

Sono collocati da tempo al centro del dibattito in Italia, e non solo, l’uso politico della storia, la formulazione di leggi memoriali ad hoc e il tema, già discusso in Parlamento, di una codificazione normativa. Codificazione che si proporrebbe di sanzionare giuridicamente veri o presunti «negazionisti», determinando una torsione del senso del passato schiacciata sulla misura minuta del quotidiano. Un processo di questa natura comporta una semplificazione dei termini della complessità storica che, in ultima istanza, pone una questione di grande rilievo sul piano della memoria e dell’identità stessa della nostra società. Da un quindicennio attorno al Giorno del ricordo si consuma un conflitto storico-memoriale che in alcuni casi ha finito per esorbitare nella dimensione politico-diplomatica (basti pensare all’aspra polemica tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’allora Presidente del consiglio croato Stipe Mesic e lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor). Questo conflitto è caratterizzato da un non detto pubblico relativo all’eredità fascista dell’Italia post-bellica che impedisce, di fatto, una completa ricostruzione ed un compiuto conferimento del senso della storia consumatasi sul nostro confine orientale e sfociata nelle violenze subite dagli italiani in quelle terre prima nel 1943, dopo lo sbando dell’8 settembre, e poi nel 1945. Quanti conoscono in Italia il generale Mario Roatta e le misure di repressione di civili e partigiani jugoslavi riassunte nella sua «Circolare 3 C»? quanto l’opinione pubblica viene resa edotta della condotta del «governatore del Montenegro» Alessandro Pirzio Biroli, del generale Mario Robotti, per il quale in Jugoslavia «si ammazza troppo poco», o del generale Gastone Gambara che nel 1942 scriveva «logico e opportuno che campo di internamento non significhi campo di ingrassamento»? Quanti sanno che delle migliaia di «presunti» criminali di guerra italiani inseriti nelle liste delle Nazioni Unite alla fine del conflitto nessuno venne processato in Italia o all’estero? Il mito degli «italiani brava gente» ha ragion d’essere di fronte alla consolidata storiografia che ormai da decenni ha ricostruito documentalmente i crimini di guerra del regio esercito e delle formazioni fasciste? Fu Mussolini stesso, d’altro canto, il 22 settembre 1920 a Pola, ad anticipare ciò che sarebbe accaduto «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone […]credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». I mancati conti col nostro passato fascista, dunque, impediscono di dare compiuta attuazione alle stesse disposizioni del Giorno del ricordo che si propone da un lato di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo» e contestualmente di affrontare «la più complessa vicenda del confine orientale». Senza una ridefinizione della complessità storica le foibe vengono presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali. In realtà l’Esercito Popolare di Liberazione comandato da Josif Broz Tito combatté contro tutti gli eserciti di occupazione e contro tutti i loro collaborazionisti, indipendentemente dalla loro nazionalità: gli ustascia croati, i cetnici serbi, i domobranci sloveni, i nazisti tedeschi ed i fascisti italiani. E sostenne quella lotta di liberazione con al fianco migliaia di soldati italiani unitisi alle formazioni partigiane dopo l’armistizio. Contestualmente un gran numero di jugoslavi deportati in Italia nei campi di internamento dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani italiani nella Lotta di Liberazione Nazionale da cui è nata la Costituzione della Repubblica. L’uso strumentale delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe ha trovato espressione, nella cronaca politica, negli scomposti attacchi del ministro dell’Interno all’Anpi e nel paradossale voto della commissione Cultura della Camera che, indice del grado di erosione democratica del nostro tempo, vorrebbe impedire all’associazione dei partigiani, che il Parlamento riaprirono dopo il terrore del ventennio fascista, di parlare nelle scuole pubbliche del confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale. Di quella storia invece è indispensabile parlare. Rosario Bentivegna, comandante dei Gap a Roma e combattente in Jugoslavia, insisteva sempre nel dire «più ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre».

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GIUSEPPE LO BIANCO IN RICORDO DI MARIO FRANCESE

Giuseppe Lo Bianco

L’ho scritto 11 anni fa, lo ripropongo oggi nel ricordo di un giornalista, senza maiuscole e senza aggettivi.

Lo hanno ucciso sotto casa una sera di gennaio, tornava dal Giornale di Sicilia, dieci minuti prima aveva salutato i colleghi nello stesso, identico, modo di ogni sera: “uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”. Al Diario, il quotidiano dove lavoravo, arrivò la segnalazione di un omicidio, in viale Campania. A prenderla fu, paradossi della sorte, suo figlio Giulio, ‘’biondino’’ come me, che si precipitò sul luogo del delitto senza sapere di andare incontro a suo padre, coperto per terra da un lenzuolo bianco. Lo fermò Boris Giuliano, capo della Mobile di allora, che abbracciandolo lo trascinò lontano. E Giulio capì, immediatamente, senza bisogno di parole. I miei ricordi si fermano qui, con l’aggiunta di un flashback personale: ho conosciuto Mario Francese ma solo per un attimo. Lo incontrai sul portone del Giornale di Sicilia, ricordo il suo impermeabile chiaro, la sua espressione assorta; parlò brevemente con mio padre, si conoscevano, poi si salutarono. Quando sentii di nuovo parlare di lui fu per scoprire a 20 anni, all’inizio del mio cammino professionale, che la violenza vissuta da ragazzo sui marciapiedi del mio quartiere si era trasferita nella mia vita da adulto, di aspirante giornalista. Solo che il rischio, adesso, non era più fare a botte con i più prepotenti, ma un proiettile di 38 in faccia. Mario non lo conoscevo e i miei ricordi sono un impasto di articoli, anche suoi, letti dopo, di racconti dei colleghi con cui aveva lavorato, di colloqui con investigatori e magistrati, di ipotesi lanciate nelle serate interminabili di chiacchiere e vino tra cronisti per trovare una risposta ai grandi misteri di mafia di questa città. E la morte di Mario, il 26 gennaio 1979, era uno di questi. Fino a quando i pentiti che all’inizio non avevano voluto parlare e una sentenza della Cassazione hanno alzato il velo anche su questo delitto ‘eccellente’, scoprendo il volto sanguinario dei corleonesi: Leoluca Bagarella, il killer che sparò quella sera in viale Campania, Riina, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco i componenti della commissione mafiosa che ordinarono il delitto. Perché, è scritto nella sentenza, Mario possedeva “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa Nostra alle istituzioni”. Era il 1979, l’inizio dell’assalto corleonese al vertice di Cosa Nostra governato da Stefano Bontade e Tano Badalamenti, un capitolo ancora tutto da scrivere, come tanti altri, della storia di Cosa Nostra. I soldi dell’eroina facevano gola ai “viddani” guidati dal ‘capo dei capi’, una banda feroce e agguerrita che aveva cominciato a sbarazzarsi dei nemici in divisa, in toga e in politica senza chiedere troppi permessi. Una banda che poteva fare a meno dei rapporti dei palermitani con la politica, forse perché ne aveva stretto altri altrettanto, se non di più, solidi. Con i servizi, deviati o meno, di questo Paese. Ma questa è un’altra storia. Era già morto il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, e, dopo Francese, lo avrebbero seguito, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della Mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Un assalto alle istituzioni senza precedenti che aveva trasformato Cosa Nostra da democratico gestore della cosa pubblica in Sicilia, alla pari di altre istituzioni, in un pericolosissimo antagonista. Fino alla fine della storia corleonese, giunta al capolinea con le stragi del ’92 in Sicilia e del ’93 a Roma, Firenze e Milano. Di quei ‘peri incritati’, scesi dalle montagne per arrivare sulla collinetta di Capaci Mario è stato il primo a capire, in diretta, la ferocia e la sete di potere, la scalata e le alleanze, gli affari e la mutazione genetica generata in Cosa Nostra e proprio per questo i giudici dicono in modo netto che «con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti». Perché proprio lui? Le sentenze lo spiegano bene, rendendo onore al suo mestiere ed alle sue intuizioni: in quegli anni ‘’Mario Francese era un protagonista, se non il principale protagonista, della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti nell’individuare nuove piste investigative». E rappresentava “un pericolo per la mafia emergente, proprio perché capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le regole di Cosa Nostra”. Era nato a Siracusa il 6 febbraio del 1925 e la sua biografia professionale racconta la storia di una passione per il giornalismo, quello che ti consuma la suola delle scarpe, che ti spinge dentro i fatti, che ti mette a tu per tu con i protagonisti delle storie più nere della cronaca, i buoni e i cattivi, con un unico obiettivo: raccontare i fatti. Aveva cominciato all’ANSA negli anni Cinquanta come telescriventista, entrando a contatto con la notizia, un amore che non abbandonerà più. Collabora con La Sicilia e, come tutti i precari, cerca una sistemazione migliore, che arriva il primo gennaio 1957, quando entra alla Regione come «cottimista». La sua naturale destinazione, però, è l’ufficio stampa, del quale viene nominato capo all’assessorato ai Lavori pubblici. E dall’ottobre 1958 l’assunzione alla Regione diventa definitiva. Ma la sistemazione economica non fa velo alla sua passione professionale: e quando il Giornale di Sicilia gli offre un posto di cronista giudiziario non ci pensa due volte a lasciare la Regione per abbracciare finalmente il suo mestiere. Poco prima, era stata una sua inchiesta a consentire la riapertura delle indagini, sei anni dopo il delitto, per la morte di un altro cronista, Cosimo Cristina, il cui corpo venne trovato dilaniato lungo i binari della ferrovia vicino a Termini Imerese, in provincia di Palermo. Di Mario si è detto e scritto molto: della sua generosità estrema, della sua abnegazione, degli orari di lavoro che non esistevano, del suo amore per la famiglia, della sua ‘’incoscienza’’ professionale, che lo portava in anni terribili e pericolosi anche ad esporsi personalmente inaugurando una stagione di giornalismo investigativo in una terra in cui il confine tra il giornalista e lo sbirro era inesistente, dalla scrivania di un giornale che per struttura e linea editoriale era lontano anni luce dalle sue denunce. ‘’Di Mario ricordo perfettamente la sua schiena dritta – racconta Aurelio Bruno, 85 anni, decano dei cronisti palermitani, una vita nel palazzo di giustizia di Palermo – dopo la strage di via Lazio lo invitarono ad una riunione con ‘amici degli amici’ per offrirgli un appartamento in cambio del suo atteggiamento accomodante. Gli chiesero persino di storpiare sul giornale i nomi degli imputati. Lui rifiutò. Dalla strage di Ciaculli all’omicidio del colonnello Russo, alle faide mafiose per riequilibrare gli assetti interni, ai grandi affari di Cosa Nostra, si occupò di tutte le vicende giudiziarie cercando sempre una «lettura» diversa e più approfondita del fenomeno mafia. Fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese. Fu un cronista moderno e, per quei tempi, unico: non a caso passava il suo tempo, ricorda Aurelio Bruno, nella cancelleria della sezione commerciale del Tribunale, dove ricostruiva alleanze e accordi societari tra gli stessi nomi che ricorrevano nelle aule della giustizia penale. Dava fastidio, era scomodo, e per questo, probabilmente, è stato ucciso. Ma dava fastidio anche la sua felicissima intuizione, quella che aveva anticipato anni di indagini condotte anche con l’aiuto dei pentiti: fu l’unico, infatti, a parlare della frattura nella «commissione mafiosa» tra liggiani e «guanti di velluto», l’ala moderata. Una frattura che avrebbe aperto la strada alla guerra di mafia degli anni ’80, all’ascesa dei corleonesi, alla stagione delle stragi. Non a caso il suo omicidio fu il primo di quella strategia eversiva: “una strategia eversiva che aveva fatto – si legge nelle motivazioni della sentenza – un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa Nostra”. Quando si capiranno meglio le vicende di quegli anni, nel periodo cruciale attorno al 1979, si capirà la ragione specifica della morte di Francese (ogni delitto di mafia ha una sua causa scatenante), cronista con la schiena dritta assassinato per avere sempre fatto il proprio dovere scrivendo tutto quello che aveva saputo.

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GIORNATE DELLA MEMORIA

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S.Cataldo

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Saverio Lodato: La trattativa Stato-mafia e i cattivi maestri

lodato saverio cprof 0 c paolo bassanidi Saverio Lodato da antimafia 2000 29 dicembre 2018
I palermitani ricorderanno a lungo la serata del Biondo. C’erano Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, e Carlo Smuraglia, presidente emerito dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani; Armando Sorrentino, avvocato penalista, e Nino Di Matteo.
Occasione, la presentazione del libro “Il Patto Sporco”, dal quale sono stati tratti i brani letti dagli attori Carmelo Galati e Claudio Gioè; moderava la serata Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila.
Era da oltre un quarto di secolo, dalla diretta televisiva Maurizio Costanzo-Michele Santoro, che non si vedeva il Teatro Biondo stracolmo di gente, attenta e partecipe, per dibattere della Trattativa che alcuni carabinieri del Ros, in testa Mario Mori, condussero con Totò Riina e i suoi sodali. Serata di rottura, per Palermo.
Serata di testimonianza.
Serata destinata a segnare un inizio di consapevolezza per una nuova antimafia finalmente libera da troppi Convitati di Pietra che proprio dell’antimafia ne avevano fatto una bella greppia per alimentare i propri interessi.
In seicento, l’altra sera al Biondo, per dire che non credono più alla favoletta che Cosa Nostra decimò la migliore classe dirigente siciliana ricorrendo solo ai propri strumenti criminali.
In seicento, per stringersi attorno a una persona per bene, Nino Di Matteo, diventato suo malgrado, il simbolo parafulmine di un’inchiesta, quella sulla Trattativa Stato-Mafia, quasi vertiginosa per l’altezza dei livelli di potere che chiamava in causa, quanto, proprio per ciò, tremenda e inaccettabile per il Potere.
In seicento, diciamo anche questo, per proclamarselo da soli, Nino Di Matteo, quale Siciliano dell’anno. Visto e considerato che il quotidiano on line, Live Sicilia ha ritenuto bene di non includerlo nella rosa dei suoi magnifici 10 proposti ai suoi lettori. Ma, guarda caso: proprio nell’anno in cui aveva raggiunto l’esito positivo della sua immane fatica.
Quanto è accaduto il 18 dicembre al Teatro Biondo ci dice tantissime cose.
Ci dice, innanzitutto, che il muro di gomma, il silenzio d’ordinanza, la ostinata e plateale negazione dei fatti, attorno agli argomenti di cui sopra, appaiono ormai ai palermitani, che non fanno parte delle lobby di potere cittadine, nient’altro che striminzite foglie di fico.
Per nascondere che?
Per nascondere ciò che ormai hanno capito gli italiani, e non solo gli italiani di Palermo e gli italiani di Sicilia: che Sporco fu il Patto, e ancora più Sporco è voler pretendere, ancora oggi, di nasconderlo.
Hanno i loro bei grattacapi, in questo momento, i colleghi di tante redazioni. E in particolare quelli della Redazione di Repubblica Palermo, convinti come sono che “se Repubblica non lo scrive, il fatto non sussiste”. Tanto che nelle loro cronache, la serata del Biondo non l’hanno neanche menzionata, facendo cosi giganteggiare, al loro confronto, il Giornale di Sicilia che invece se ne è accorto e ne ha scritto. Come si usa fare nei giornali.
Cari colleghi di Repubblica, il fatto sussiste, eccome se sussiste.
il patto sporco integraleSforzatevi di aprire gli occhi. E il fatto è che a Palermo si sta diffondendo uno spirito di insofferenza verso i Cattivi Maestri.
Un Cattivo Maestro è Mario Mori, condannato in primo grado a 12 anni, che va a pontificare sulla legalità a giovani studenti, approfittando dell’invito di una Preside che è sorella di Giuseppe De Donno, carabiniere coimputato come lui, condannato ad anni otto. E che, a margine della sua “lectio”, rende noto che prende pillole per tenersi in vita perché “vuole vedere morire i suoi nemici”.
Perbacco. Ma è materia da editoriali per mettere in guardia i ragazzi, cari colleghi di Repubblica. Giusto? O siamo esagerati?
Cattivo Maestro, o Cattivo Professore, fa poca differenza, è Salvatore Lupo, lo storico che, negando l’esistenza del ruolo che ebbe la mafia nello sbarco degli americani, qualcuno vorrebbe far diventare il sottile negatore della Trattativa di oggi, perché lui, negando la Trattativa di ieri, e quella dell’altro ieri, è come se dicesse: “Lo dicono gli archivi che nel 1944 Lucky Luciano diede un aiutino agli americani? E io me ne fotto”.
Cattivo Maestro, o, anche in questo caso Cattivo Professore, è Giovanni Fiandaca.
Ma come?
Dopo aver definito il processo sulla Trattativa durante cinque anni di dibattimento una “boiata pazzesca”, ora che si possono leggere le 5 mila e più pagine del presidente Alfredo Montalto e del giudice a latere Stefania Brambille, se ne esce di scena fischiettando, con l’aria di uno che passava da lì per caso?
Chi scrive non è all’altezza di giudicare questa mastodontica sentenza, ma capisce però che il professore avrebbe almeno il dovere professionale di spiegare innanzitutto ai suoi allievi universitari se sulla “boiata pazzesca” la pensa ancora allo stesso modo o nel frattempo ha cambiato idea. O chiediamo troppo?
Nel caso del Fiandaca e del Lupo per “Cattivi Maestri” intendiamo professori troppo pigri e negligenti nell’insegnamento ai loro ragazzi…
Sono tanti, come si vede, gli argomenti caldi squadernati dalla serata del Biondo.
Potremmo continuare, ricordando la commissione antimafia siciliana, presieduta dall’onorevole Claudio Fava, che in appena due mesi, pretenderebbe di fornire la sua verità cotta e mangiata di quanto accadde in via d’Amelio, mentre da vent’anni si susseguono ancora i processi.
Potremmo continuare con le famiglie di centinaia e centinaia di vittime delle stragi e dei delitti di Palermo, che oggi potrebbero dare un grandissimo contributo ai cittadini, che di mafia non vogliono più sentir parlare, dicendo cosa pensano della Trattativa Stato-Mafia. E l’esempio potrebbe venire – perché no – proprio da Fiammetta Borsellino, le cui parole avrebbero un peso speciale per gli altri familiari dello sterminio perpetrato da Mafia e pezzi dello Stato di allora.
Ma per far questo occorrerebbe un’informazione attenta e scevra da condizionamenti che si accorgesse di quanto le accade intorno.
Antonio Gramsci, nei “Quaderni dal carcere”, sosteneva che il Redattore capo di un giornale dovrebbe avere della città la stessa conoscenza che ha della città un Prefetto di Polizia.
Quando esisteranno simili redattori capo anche a Palermo, non scompariranno più dai radar dell’informazione serate come quella del Biondo, e i palermitani compreranno più giornali.
Ecco perché, nelle more, il teatro Biondo era stracolmo.

Foto © Paolo Bassani

saverio.lodato@virgilio.it

La rubrica di Saverio Lodato

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Teatro Biondo “Il Patto sporco”

47183454_1946788375358006_6865510359436886016_nSerata indimenticabile questa al Teatro Biondo con gli autori de “Il Patto Sporco”. Libro che descrive  una delle cruciali più vergognose pagine della nostra Storia: la trattativa Stato mafia;                                                                                                                                   Intervento di Carlo Smuraglia. 48423198_10217622833993608_3982583823366881280_n

E’ importantissimo che, dopo mesi di preoccupante silenzio sulla sentenza relativa alla trattativa Stato-mafia nella quale si parla del più grave depistaggio nella storia della nostra Repubblica, la Palermo democratica e diverse delegazioni delle ANPI siciliane si siano  mobilititate per una partecipazione entusiasta contro la mafia e per la difesa della democrazia.

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ESSERE ANTIFASCISTI OGGI IN UROPA

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Cefalonia: “Perché chi ama la Patria è antifascista” di Giuseppe Carlo Marino

safe_image-1Una lezione innovativa e molto attuale dallo studio della strage nazista di Cefalonia del settembre ’43 e dei mancati processi ai responsabili. La Resistenza come indivisibile fenomeno nazionale grazie al contributo del Sud. Se ne è parlato a Palermo in un convegno promosso dall’Anpi e dalla Società di storia patria presentando il libro di Marco De Paolis, procuratore militare della Repubblica, e della storica Isabella Insolvibile

http://www.patriaindipendente.it/ultime-news/perche-chi-ama-la-patria-e-antifascista/?fbclid=IwAR0KntHEIwfJzXuG5jxzIoK9rekcfK0hOaZ4dh3CUHn7I47uxlTxmaFH_Lw

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L’UMANITA’ AL POTERE Tesseramento ANPI 2019

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Carissime/i il 17 e 18 novembre prossimi partecipiamo tutti alle giornate nazionali del tesseramento. L’appuntamento a Palermo è presso il circolo ARCI “Porco Rosso” di piazza casa Professa proprio di fronte alla chiesa. L’appuntamento è per i due giorni con orario dalle 10 alle 19 . Anche come gesto di solidarietà a Ilaria Cucchi, Mimmo Lucano sindaco di Riace ai quali verrà consegnata la tessera ad Honorem dell’ANPI dalla nostra Presidente Carla Nespolo, facciamo di questa giornata del tesseramento una occasione  per continuare a dare maggiore forza e sostegno  all’ANPI per il suo importante impegno in difesa di tutti i diritti umani  sanciti nella nostra costituzione.

ANPI Palermo Comandante Barbato

 

 

ps

in alegato il manifesto per la giornata nazionale del tesseramento opera del noto pittore e scultore Ugo Nespolo che ne ha fatto dono all’ANPI per il frontespizio della tessera 2019.

 

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1938 accadde in Italia — 2018 accade in Italia

0-2Introdotta da Fausto Clemente una interessante  Conferenza dibattito promossa da un  popolare “Comitato 25 Aprile” per opporsi alla iniziativa del sindaco di Termini Imerese di intitolare una via a Giorgio Almirante. legato alla vergognosa pagina delle leggi razziali del fascismo del 1938.

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I ragazzi della Alberico Gentili ad un primo incontro con la Resistenza

 

Lunedì 22 ottobre incontro con i ragazzi della Alberico Gentili. Prima con i ragazzi delle quinte elementari e poi con quelli delle terze della Media accompagnati dalle rispettive insegnanti. Introdotto con belle parole sul valore fondamentale della Costituzione e  sul dovere della memoria dalla Preside e poi dalle insegnanti si è svolto un bellissimo serrato dialogo con attentissimi bravi ragazzi che come sempre ci hanno commosso per le interessanti domande e riflessioni su concetti fondamentali della nostra storia.  Mi sembra giusto ringraziarli pubblicamente loro e i loro insegnanti che  fin qui li hanno guidati. Nel corso dell’incontro è stato proiettata una parte del bellissimo documentario del Prof. La Mantia su i partigiani Calogero Bracco e Giovanni Ortoleva. Angelo Ficarra IMG_8633

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